Non solamente le armi vanno maneggiare con assoluta attenzione, ma anche le forme aggettivali “relativo” / “assoluto” devono essere maneggiate con cura, perché, come accade spesso per i termini filosofici, tipo “sostanza” o “essere”, la ridda di interpretazioni dei predicati stratificatasi diacronicamente ha creato incrostazioni e maldicenze, absit iniuria verbis, degne di una comare di compagna. Tutti sappiamo che certa prolissa loquacità di rapporti è tipica del filosofo, su tutti Socrate era uso parlare più facilmente e lungamente di Santippe, più naturalmente portata per fare i fatti. Se per certi fatti occorre rimboccarsi le maniche, in filosofia bisognerebbe rimboccarsi il cervello, se non fosse che l’immagine ne uscirebbe sgradevolmente sanguinolenta.
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Il dialogo, in special modo il dialogo socratico, infatti, è l’essenza del relativo, in quanto eo ipso opera della relazione fra due o più individui (quando non fra sé addirittura): tutti sanno che la maieutica è costituiva del sapere filosofico, allora come oggi. Tuttavia, la domanda posta dallo scalpellino più famoso dell’Iperuranio è sempre esigente un assoluto: “ti estì”? Che cos’è? Il “che cos’è” è il martello con cui Socrate tira fuori la verità dal blocco minerale dell’ignoranza umana in cui è intrappolata. La mente filosofica, ma direi in generale umana, funziona secondo un curioso meccanismo: esige regole universali per organizzare la realtà, ma comprende solo tramite esempi particolari. Dagli esempi si estrapola la regola universale, tre indizi fanno una prova, anche se non sempre. Ecco, Socrate non chiede esempi, esige il proprium di ogni cosa. Per esempio, nell’Eutifrone non si cerca chi sia santo, ma che cosa sia il santo, appunto, ovvero che cosa sia l’idea stessa di santità, quel “ti” per cui una cosa, un’azione è definita santa.
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Dell’assoluto ontologico (kath’autò) abbiamo già parlato. Se la domanda principale della metafisica è “esiste l’essere in quanto essere?”, un’altra domanda fondamentale è “la conoscenza è assoluta o relativa?”. La filosofia insegna a porre le domande prima di offrire delle risposte. È urgente recuperare questo atteggiamento originario del filosofare.
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Siamo nell’epoca del sapere assoluto. O, meglio, crediamo di sapere tutto, nel senso che siamo in una condizione nuova e unica nella storia dell’umanità nella quale sappiamo di sapere moltissimo ma, simultaneamente, di non sapere abbastanza. Il moltissimo, ovviamente, è dato dal sapere scientifico, quanto a sapienza (sophrosyne), sembra di essere ritornati a un’epoca prefilosofica, o almeno presocratica. Perfino i filosofi soffrono di una confusione totalizzante, combattuti fra sistemi di pensiero improbabili e riduzionismo scientista laccato di un vago moralismo zen. Capita a volte di leggere frasi del tipo: “L’apparenza deve aprire all’inosservabile”. In questo caso la conoscenza è relativa, relativa a chi capisce di cosa diamine si stia parlando, allora la filosofia è ridotta a slang di clan suocere contro nuore, chi parla a suocera perché nuora intenda e chi non la manda a dire. In Atene, per quanto il sapere filosofico fosse in un certo senso tecnico, vediamo che il popolo comprende e interagisce, il sofista, il politico e lo scalpellino dialogano alla pari, oggi no. Un attestato impone lo status: uno parla, l’altro ascolta. Se interrompe è una persona volgare. Al limite è possibile porre domande alla fine, le quali, se scomode non verranno evase con scuse puerili.
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La filosofia, per di più, è una disciplina che oggi sembra diventata tanto evanescente da esser ridotta a varie “filosofie” di questo o di quello, come fossero stili dei cruciverba. Invece il domandare filosofico non è il domandare scientifico, in cui ci si affida a calcolo e tecnica, il domandare filosofico è il domandare più radicale, più coinvolgente della vita dell’uomo.
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La filosofia deve essere primariamente pensiero sulla “totalità”, chi vede l’intero è filosofo, chi no, no. Certamente è vero, come alcuni sostengono che essa sia come l’acqua in cui siamo immersi ma di cui, come i pesci della famosa parabola raccontata dallo scrittore americano Foster Wallace, ci dimentichiamo.
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La ricerca della verità non deve somigliare a quello che fu la ricerca della giustizia per Franz Kafka: una disperata ricerca di senso che ci trascini fuori dalla nostra stessa vita e dall’umanità: «prima mi stupivo di non ricevere alcuna risposta alle mie domande – scriveva nei suoi Oktavhefte, i Quaderni in ottavo – ora mi stupisco di come potessi domandare». E non è forse Wittgenstein a dire che non bisogna porre domande prive di senso, seguendo un filosofare di questo e di quello? E quale sarebbe allora il senso della vita? Entrare in una porta senza porsi domande e magari sbagliarla, ma chi potrebbe sbagliare una porta? Diceva Aristotele. La verità è sia semplice che difficile, prova di ciò sta nel fatto che è impossibile ad un uomo cogliere in modo adeguato la verità, e che è altrettanto impossibile non coglierla del tutto, la difficoltà non sta nelle cose, ma in noi et cetera, tuttavia, non bisogna confondere la fenomenologia con l’ontologia.
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Se è vero che è ontologia, in qualche modo, la scienza dell’acqua in cui siamo immersi, è anche vero che non è solo quello. Sbaglia chi sostiene un riduzionismo concreto dell’essere additando la metafisica come un mero volo sognante in dimensioni altre.
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Il nostro moderno modo di ragionare si manifesta soprattutto come sistema tecnico-scientifico, in cui l’attività filosofica non si può, come sostiene Cacciari, “ridurre a olio che unge i pistoni della macchina, ma deve essere in grado di riflettere sull’eccedenza che rimane al termine della notte di tutte le domande scientifiche-deterministe”, perché fare filosofia è cercare di dire ciò “che ci è impossibile tacere per il semplice motivo che esso riguarda sostanzialmente il nostro esistere”, ma non basta a questo pesce.
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A questo pesce specifico non dispiace, certo, ma non basta chiedere com’è l’acqua oggi. Se la considerazione pare relativa, lo è. È talmente relativa che pare che perfino Einstein ebbe a dire un giorno: «Che ne sa un pesce dell’acqua in cui nuota per tutta la vita?».
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Ora, Tutto è concreto ma non tutto è materiale – non tutto il soma è hyle, direbbero i filosofi. Intendendo come concreto il contenuto dell’esperienza come oggetto reale o applicabile al reale. Però, tutto il reale è essere, ma non tutto l’essere è reale. Tuttavia, tutto è essere, Parmenide sa perché. Aristotele (nella Fisica) dice anche «Non tutto ciò che esiste è in un luogo» con un’espressione greca è memorabile: οὐ πᾶν τὸ ὂν ἐν τόπῳ. Non tutto è in mare, a meno che ce lo buttiate. Perché dell’altro, perché, tornando a Kafka: «un gradino che non sia profondamente gravato di passi, se lo si considera in sé, è soltanto un desolante pezzo di legno».
Perciò, fare filosofia è certamente l’arte di indagare il mare della vita (che non è materiale, scil.), ma essenzialmente essa è sapere con consapevolezza, non solamente in modo accademico, che oltre la superficie del mare in cui nuotiamo, per quanto grande esso sia, c’è un intero mondo sotto il sole, un mondo che è immenso, straordinariamente brillante di luce sui pascoli e sulla faccia del prossimo, sferzato da venti e brezze nei capelli, esuberante di colori, di sorrisi e di vita.