È entrato nelle case di tutti esibendo il tesserino dell’Istituzione tanto che ormai, per tutti, è diventato uno di famiglia. Ma pochi sanno chi sia davvero questo ospite non invitato e sempre più invadente. Ecco perché era il caso di fare il suo identikit. Ci siamo messi all’opera, istigati anche da un’interessante intervista che gira in rete – senz’altro condivisibile per la parte in cui contribuisce a smascherare il vero volto, totalitario, della scuola di Stato – al professor Pietro Ratto, a quanto pare uno dei rari insegnanti immune al virus della rassegnazione che ha colpito a tappeto una categoria sempre più prona a obbedire in religioso silenzio a consegne demenziali, forse stordita, o irretita, dalla prepotenza e dalla fantasia perversa di chi le concepisce. Epperò la materia era fatta di quella pasta che, lavorandola, ti cresce tra le mani: l’INValSI è una specie di Idra di Lerna, mostro dalle molte teste capaci di rigenerarsi moltiplicandosi, che abita le paludi buroscolastiche. Questo per dire come mai alla fine, più che un articolo, ne sia uscito un saggio breve. Viene pubblicato qui in unica soluzione, nella speranza che possa essere utile a chi la scuola direttamente o indirettamente la vive ma, soprattutto, ne ha a cuore le sorti. E nella speranza, anche, che un giorno spunti fuori un Eracle (magari un Eracle collettivo messo insieme da pochi irriducibili disposti a dare battaglia) e il mostro, chissà, possa uscirne sconfitto. In ogni caso, vale la pena combatterlo, perché con le sue esalazioni ci sta avvelenando il futuro.
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Travolti da un diluvio cacofonico di sigle, acronimi e formulette rituali, quanti abbiano a che fare a vario titolo col sistema-scuola si trovano tutti, volenti e nolenti, a ruminare una lingua parallela, arcana e intraducibile, e a rendersene pure incolpevoli spacciatori. Nel fantastico mondo della (fu-Pubblica) Istruzione vige infatti un ferreo regime linguistico “esoterico” apparecchiato e imposto da una ristretta cerchia di iniziati per restare inaccessibile ai più e schermare alla vista la realtà delle cose. Nella realtà, dietro le parole d’ordine beote e dietro l’apparato burocratico tentacolare che se ne fa scudo, c’è un motore immobile che regge le sorti della scuola e, da decenni, detta la linea ai governi di tutti i colori a prescindere dal credo politico e religioso dei loro esponenti pro tempore; di modo che i suoi comandi, recepiti per osmosi dai ministeri competenti, discendono poi a cascata attraverso la filiera gerarchica che, passando per i vari uffici territoriali, finisce con i capi di istituto, ex “presidi” gratificati della qualifica di “dirigenti” in attesa della promozione a “sceriffi”.
Ma tutto muove a partire da un gotha industrial-finanziario, esterno alle istituzioni ma acquattato sotto il loro ombrello, che mette a frutto risorse economiche inesauribili per esercitare la più penetrante e risolutiva forma di potere: quella che consiste nell’impossessarsi dell’educazione, ovvero dei cervelli in via di formazione. Che poi vuol dire, programmare il futuro.
Corifei dello Zeitgeist tecnocratico sono i pedagogisti di regime sfornati a getto continuo dalle facoltà di pseudo-scienze cosiddette umane i quali, ben farciti della paccottiglia ideologica di ordinanza, forniscono la zelante manovalanza alla piena applicazione del programma di demolizione culturale, morale, identitaria ordito nelle tecnosfere.
Ci vorrebbe un glossario commentato per decodificare, a beneficio del suddito, tutto l’osceno repertorio lessicale della selva oscura scolastica. Osceno perché urta (o dovrebbe urtare), in primo luogo, il senso estetico di chi conservi nell’orecchio un’eco pur remota dei bei suoni, e sensati, della lingua madre.
Ma cominciamo col grattare le etichette più familiari, giusto per farci un’idea di quel che ci sta sotto. E partiamo dal fenomeno INValSI, la cui storia ci aprirà finestre su vedute impensate.
L’ORACOLO DI VIALE TRASTEVERE L’INValSI ha conquistato, in virtù della sua crescente invadenza de iure e de facto, una celebrità ovunque diffusa e anche una auctoritas indiscussa, tanto da apparire ormai come un pilastro di quel sistema educativo italico il quale, da stella del firmamento internazionale qual era, è diventato devoto satellite del pachiderma europoide, votato a sfornare manovalanza analfabeta, liquida e itinerante a beneficio del mercato globale.
Di fatto, intorno ai famosi test INValSI ruotano catechesi, simulazioni, giudizi sommari e patemi d’animo: i contenuti stessi dei programmi delle scuole di ogni ordine e grado tendono a tararsi, uniformandosi tra loro, sul modello-base astraibile dai test somministrati nelle ultime tornate, non importa se sgrammaticati, sbagliati, fuorvianti o demenziali, l’auctoritas non si discute. Non si discute soprattutto perché, dai risultati delle prove INValSI, per l’istituto dipendono buon nome, finanziamenti, future iscrizioni, in ultima analisi la stessa sopravvivenza; per l’insegnante dipendono buon nome, stipendio, incarico, alla fine il pane quotidiano; per l’alunno dipendono talvolta voti, sempre schedature, in ogni caso l’irrinunciabile “autostima”: ovvero, tutto quanto preme alla brava madre di virgulto scolarizzato, e la rende paga e contenta.
È innegabile che ci troviamo di fronte a un fenomeno quantomeno curioso: un ente tristissimo, dal nome sgradevole, moltiplicatore di burocrazia, è assurto dal nulla al rango di oracolo della educazione, in grado di convincere eserciti di maestri obbedienti a pilotare la formazione delle nuove generazioni secondo i suoi vaticini, tanto ispirati quanto intimidatori. Tutti zitti, servi e contenti.
Ecco perché qualche dettaglio in più sui suoi natali, la sua struttura e le sue gesta può aiutarci a far luce sulle vere cause di una così sfolgorante carriera.
I NATALI DELL’INVALSI, LA SUA MATURITÀ E LA SUA MISSIONE (IN LINGUA ORIGINALE) Istituito col decreto legge 258/1999 (all’epoca del primo governo D’Alema, ministro dell’istruzione Luigi Berlinguer), I’Istituto Nazionale per la VALutazione del SIstema educativo di istruzione e formazione – sono questi i pezzi dell’acronimo – ha raccolto, potenziandola a dismisura, l’eredità del vecchio CEDE (Centro Europeo Dell’Educazione) risalente agli ultimi anni Settanta del secolo scorso.
Il sito ufficiale dell’ente elenca per esteso i suoi compiti, dopo averci rassicurati sulla conformità di questi alle leggi vigenti, le quali «sono frutto di un’evoluzione normativa significativamente sempre più incentrata sugli aspetti valutativi e qualitativi del sistema scolastico» (e già qui ci si apre un mondo: abbiamo ben presente, infatti, i decantati frutti della decantata “evoluzione” normativa…).
Per riassumere, utilizzando il gergo dei suoi sacerdoti, la funzione dell’INValSI è quella di rilevare gli apprendimenti degli studenti attraverso verifiche periodiche e sistematiche sulle loro conoscenze e abilità e sulla qualità complessiva dell’offerta formativa delle varie istituzioni scolastiche, al fine di: a) armonizzare e migliorare la qualità del sistema educativo e formativo italiano nel contesto internazionale; b) offrire ai decisori politici e istituzionali i dati generali sul funzionamento della scuola e il grado di competenza raggiunto dagli studenti; c) fornire alle scuole i dati elaborati per le valutazioni sul piano didattico, confronti e migliorie.
Questa la fisionomia per così dire “genetica” del nostro organismo para-governativo (ricordiamo che il suo presidente è nominato dal ministro dell’istruzione). Ma un dirompente cambio di passo è intervenuto nel marzo 2013, quando il governo Monti, peraltro all’epoca già dimissionario, ha di molto incrementato le prerogative dell’INValSI. Fu quello un esecutivo (oltretutto “tecnico” e non politico) straordinariamente prolifico a fine corsa, specie in materia educativa (anche la cosiddetta Strategia Fornero con i dogmi LGBT è stata siglata in articulo mortis, e così anche il Protocollo di intesa tra MIUR e dipartimento delle Pari Opportunità comprensivo del famigerato UNAR): evidentemente, l’oligarchia tecnocratica di cui quel governo era diretta emanazione aveva una serie di compiti da portare tassativamente a termine prima di uscire di scena, e non certo per mandato popolare.
Fatto sta che, su iniziativa dell’allora ministro Profumo, è stato approvato con un colpo di mano (e di coda) il DPR 80/2013, intitolato Regolamento sul sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione, che ha introdotto il cosiddetto “sistema a tre gambe” o “delle tre i”: Invalsi, Indire, Ispettori. Da allora all’INValSI spetta un ruolo fondamentale di coordinamento istituzionale, con poteri inappellabili nella somministrazione dei test, nella proposizione dei protocolli di valutazione e dei programmi delle visite dei “nuclei di valutazione”, nella definizione degli indicatori di efficienza e nella redazione di rapporti periodici. Mentre all’Indire (Istituto per lo sviluppo della autonomia scolastica: la seconda “i”) compete provvedere all’aggiornamento dei docenti il cui lavoro non risulti efficace in base ai parametri posti; e agli Ispettori del MIUR (terza “i”) spetta effettuare visite periodiche nelle scuole al fine di verificare l’efficienza del personale docente e la conformità dei programmi alle disposizioni ministeriali.
Attuale presidente INValSI, al suo secondo mandato consecutivo (conferitole prima dal ministro Carrozza, poi dal ministro Fedeli), è Anna Maria Ajello, cattedratica di psicologia alla Sapienza di Roma, membro illustre di molti organismi “scientifici”, tra cui il comitato scientifico dell’Istituto Universitario Salesiano di Venezia, istituto di cui è preside – pensa un po’ – il vice-presidente dello stesso INValSI, Arduino Salatin. Insomma, cominciamo già a capire che si gioca in casa.
TRADUZIONE ITALIANA Tradotta dalla neolingua, la missione della creatura buromitologica chiamata INValSI è quella di omologare, e di conseguenza deprimere (cioè livellare verso il basso), il contenuto degli insegnamenti somministrati a scuola, attraverso il ricatto dei rilevamenti e dei meccanismi premiali (o punitivi) ad essi collegati, fino a schiacciare l’apprendimento sull’orizzonte piatto e unidimensionale disegnato dalle logiche del mercato e del profitto (altrui).
È evidente che in questo quadro la cultura, poco o nulla rilevante in termini di efficienza economica, diventa armamentario obsoleto. Peggio, diventa un intralcio da smantellare, perché suscettibile di generare qualche cervello non conforme, pensante oltre l’eterno presente biotecnologico e informatizzato, magari refrattario agli impulsi del radiocomando tenuto saldamente in pugno dalla tecnocrazia sovranazionale consacrata al moloch dello Sviluppo.
Quanto si punti al depauperamento delle facoltà superiori degli scolari, è intuitivo già dai metodi di verifica delle loro “competenze”, oltre che dalla natura delle stesse: i quiz vero/falso e le risposte a crocette, col loro automatismo elementare, di livello quasi scimmiesco – ora per giunta somministrati via computer, basta un click – di certo non sono un grande stimolo al ragionamento analitico, alla riflessione critica, all’elaborazione personale, all’affinamento delle capacità espressive, all’esposizione orale o scritta. Non per nulla evocano la tipica firma del diversamente istruito, altrimenti detto analfabeta in termini politicamente meno corretti.
Del resto, come sostiene per esperienza diretta un saggista che è anche un amico e anche un maestro per vocazione, «un insegnante che negli scorsi anni fosse passato dalle elementari alle superiori, transitando per le medie, avrebbe visto la scuola elementare corrergli dietro: l’intero sistema infatti ha recepito dalla scuola elementare, e in tempi rapidissimi, un’attenzione spasmodica alla didattica, e alla didattica modellata su quella delle elementari» (Emilio Da Rold, De vindicanda humanitate libellus). L’implacabile immiserimento del sapere procede di pari passo con l’ammaestramento degli scolari alla vita in schiavitù, nel senso dell’asservimento precoce allo spietato meccanismo del tritatutto tecnologico-finanziario. Ogni prodotto umano, oggi, deve seguire il suo percorso preconfezionato, essere incanalato dentro un tubo specialistico senza prese d’aria – quello che gli viene gentilmente suggerito dagli “esperti” del cosiddetto ”orientamento”, in entrata e in uscita – in modo da immettersi senza intoppi nell’ingranaggio burocratico-industriale che muove il Mondo Nuovo telecomandato. E – intendiamoci – ne è pure contento, perché insegue il miraggio della propria futura (futuribile?) “occupazione”.
TIMSS, PIRLS, IEA, BANCHE E GESUITI Ma siamo ancora solo sulla punta dell’iceberg.
L’INValSI – cioè l’ente deputato a sindacare gli apprendimenti degli scolari italiani – è intimamente connesso (sarebbe meglio dire intersecato) con altri enti di valutazione che operano in sede internazionale. Il che, visto l’obiettivo di globalizzare, omologare e quindi sradicare il sapere dalle sue fonti identitarie, è cosa tutto sommato logica e conseguente. Ciò che forse non appare altrettanto scontata è la strettissima sinergia (sarebbe meglio dire compenetrazione) tra ciascuno di questi organismi, investiti di tanto potere nello strutturare il sistema educativo secondo criteri inappellabili, e il grande capitale italiano e internazionale: gruppi industriali, poli imprenditoriali, istituzioni finanziarie come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, nonché – last but not least – grossi enti religiosi e istituzioni ecclesiastiche.
Basta seguire il filo dell’INValSI e ci si trova come per incanto dentro un gomitolo inestricabile di interessi privati per una materia – come la fu-pubblica istruzione – che più di ogni altra appartiene al bene comune di una nazione, e ad esso dovrebbe esclusivamente riferirsi.
Si scopre che i test diramati dall’INValSI sono elaborati dal TIMSS e PIRLS International Study Center, enti fratelli entrambi affiliati dell’IEA, l’Associazione Internazionale per la valutazione del rendimento scolastico, una cooperativa internazionale di agenzie di ricerca governative a cui aderisce anche l’INValSI, che conduce ricerche comparative per definire gli standard internazionali e aiutare i decisori politici dei vari paesi a individuare i punti di forza e di debolezza dei rispettivi sistemi educativi, e intervenire di conseguenza.
IEA, TIMSS e PIRLS, il cui modello è ufficialmente recepito dall’INValSI, afferiscono tutti al Boston College, l’Università americana dei Gesuiti, che li dirige e li finanzia. Ai vertici dei loro organigrammi compaiono alti dirigenti della Banca Mondiale e figure di primo piano dell’imprenditoria e della finanza internazionale.
OCSE-PISA E LA GLOBALIZZAZIONE DELLA EDUCAZIONE Anche il colosso OCSE (l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, il cui primo compito è promuovere la crescita economica e lo sviluppo in un’economia mondiale basata sul libero mercato) ha il suo programma di valutazione internazionale degli studenti, varato nel 2003. Si chiama OCSE PISA, e l’INValSI felicemente vi aderisce (ci mancherebbe altro). L’OCSE PISA promuove indagini periodiche per conoscere il livello di preparazione degli studenti dei vari paesi, confrontarli tra loro, e dettare poi i correttivi in base agli standard considerati di eccellenza. Sia le prove cognitive sia i questionari sono somministrati via computer, in linea con l’obiettivo di digitalizzare la scuola incentivando l’uso dei tablet e di altri dispositivi elettronici.
Nato per effettuare i rilevamenti sui quindicenni, oggi l’OCSE PISA fornisce indicatori, numeri e classificazioni per tutti, dai primi anni dell’infanzia fino all’età della pensione, in modo che i paesi modellino ogni politica educativa sul contesto globale.
Un recente rapporto OCSE afferma con orgoglio: «il programma PISA è ormai considerato in tutto il mondo uno strumento affidabile per valutare in modo standardizzato le performance degli studenti, e i risultati del PISA hanno avuto un’influenza determinante sulle politiche di riforma dei paesi/economie che vi partecipano».
Sulla medesima lunghezza d’onda, Andreas Schleicher, direttore del PISA e membro del Consiglio direttivo per l’Educazione e le Competenze dell’OCSE, in una conferenza TED inizia la sua presentazione affermando che il programma PISA è «davvero la storia di come le comparazioni internazionali hanno globalizzato il campo dell’educazione di solito considerato un tema riservato alle politiche nazionali».
Quest’influenza è chiamata “soft power”, o “governance fondata sui numeri e sulle comparazioni”. È reperibile un’abbondante e dettagliata letteratura su come l’OCSE eserciti il proprio potere per definire la realtà globale. Non c’è da stupirsi dunque se uno dei parametri ricorrenti nei rilevamenti è quello della “differenza di genere”: il divario tra i risultati ottenuti dai maschi e quelli ottenuti dalle femmine nelle diverse materie viene segnalato come una criticità da superare con ogni mezzo (le leggi di Procuste sono sempre di grande attualità: ne sa qualcosa il (fighissimo) fisico Alessandro Strumia). L’ideologia regna sovrana ovunque e il cretinismo indotto per via scolastica non fa che alimentarne le derive.
Come riporta un accademico norvegese, in molti paesi, a causa di uno “shock da PISA”, sono stati introdotti nuovi curricoli, nuovi standard nazionali e nuovi test obbligatori. La competizione per ottenere migliori risultati nelle prove è ovviamente anche al servizio di interessi commerciali, tanto che ci sono aziende che si sono buttate a capofitto nella produzione di sussidi didattici volti ad affinare le tecniche di risposta ai test, e scuole che ottengono profitti mirabolanti preparando gli studenti a superarli al meglio. Il maggior appaltatore del programma PISA è ETS, un istituto di valutazione e misurazione no-profit con sede negli USA. Ma è interessante il fatto che l’azienda di prodotti educativi più grande al mondo, la Pearson, abbia vinto la gara d’appalto per preparare i quadri di riferimento del test 2018.
TREELLLE E “BUONA SCUOLA”: LA LISTA DEGLI INVITATI A proposito delle prove INValSI e delle contestazioni che ancora le accompagnano, esse «la dicono lunga sulla scarsa disponibilità a innovare il sistema scolastico italiano che invece ne avrebbe molto bisogno visto che, tra l’altro, i risultati di test simili confrontati con quelli di altri paesi (vedi indagine PISA dell’OCSE) ci vedono senz’altro sotto la media dei paesi europei». A parlare così, dalle colonne del Foglio, è Attilio Oliva, il già presidente di Confindustria ora presidente della associazione no-profit TreeLLLe, il think tank fondato nel 2001 da Umberto Agnelli con sede a Genova “per una società dell’apprendimento permanente” (le tre elle stanno per: Life Long Learning). La TreeLLLe – come si legge nella presentazione sul sito ufficiale – «si pone come “ponte” per colmare il distacco che sussiste nel nostro paese tra ricerca, opinione pubblica e pubblici decisori, distacco che penalizza l’aggiornamento e il miglioramento del nostro sistema educativo» e si avvale per questo del contributo di “esperti” nazionali e internazionali.
Tra i suoi finanziatori, soprattutto la Compagnia di San Paolo di Torino con la sua Fondazione per la Scuola, la Cariplo di Milano, l’Unicredit, la Fondazione Agnelli. Ma anche la Cassa di Risparmio in Bologna, il Monte dei Paschi di Siena, la Fondazione Rocca, la Fondazione Bracco, la Fondazione Pietro Manodori di Reggio Emilia, la Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, la Fondazione Roma (e Roma Terzo Settore).
Par di capire che la TreeLLLe non versi in stato di indigenza. No.
Della TreeLLLe – guarda un po’ – fanno parte i vertici dell’IEA, l’emanazione di quel Boston College che è la tentacolare, potentissima istituzione universitaria della Compagnia di Gesù. Vi fa parte Pietro Cipollone, primo presidente INValSI e uomo della Banca Mondiale. Ma ci sono dentro anche molti politici, accademici e boiardi di Stato che non necessitano di presentazioni, come Luigi Berlinguer, Franco Frattini, Domenico Fisichella, Enzo Carra, Giuseppe De Rita (CENSIS), Mario Mauro (ex ministro ciellino di Scelta Civica), Carlo Dell’Arringa (Università Cattolica), Stefania Fuscagni (Opera Santa Croce), Lia Ghisani (CISL Scuola), Lucio Guasti (Università Cattolica), Maria Grazia Colombo (Movimento per la Vita e Uno di Noi, AGESC: genitori scuole cattoliche), monsignor Vincenzo Zani, arcivescovo di Volturno, già direttore dell’Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’università della CEI, dal 2002 segretario della Pontificia Congregazione per l’educazione cattolica. Vi appartenevano pure Tullio De Mauro, Umberto Eco, Umberto Veronesi.
Per la componente bancaria e industriale, tra gli altri: Fedele Confalonieri e Gina Nieri (Mediaset), Fabio Roversi Monaco (ex rettore a Bologna, Cassa di Risparmio, Bologna Fiere, massone dichiarato), Luigi Maramotti, Gian Carlo Lombardi, Pietro Marzotto, Gian Felice Rocca, Guido Barilla (previamente rieducato), Carlo Callieri, Luigi Abete (Confindustria, BNL), Domenico Siniscalco (Morgan Stanley), Marco Tronchetti Provera (gruppo Pirelli, commissione Trilaterale).
Infine, in rappresentanza del mondo dei mass media, nientemeno che: Marcello Sorgi, Antonio Di Rosa, Carlo Rossella, Giuliano Ferrara, Sergio Romano, Ezio Mauro, Giulio Anselmi, Ferruccio de Bortoli.
La TreeLLLe gioca il ruolo determinante di suggeritore eccellente del MIUR, e lo svolge attraverso dei “quaderni” a tema che illustrano le linee di indirizzo della futura politica educativa; di fatto, è stato l’estensore occulto della “buona scuola”, la famigerata riforma congedata dalla Giannini e portata a pieno compimento dalla Fedeli.
L’importanza del compito da realizzare, cioè intervenire nella ristrutturazione dei cervelli degli italiani, è tale da richiedere un consenso allargato e una copertura “politica” ad ampio spettro. Ecco perché dall’elenco di figurine di cui sopra emerge una consorteria trasversale, che spazia da sinistra a destra, dai laicisti incalliti, ai sedicenti cattolici, ai massoni conclamati. Siamo di fronte con evidenza a uno spaccato del cosiddetto deep state, lo stato profondo che non si lascia scalfire dalle vicende della politica contingente e, di fatto, determina le scelte fondamentali per il popolo cosiddetto sovrano.
AGNELLI, MINISTRI, PAPI E CARDINALI Particolarmente attiva nell’officina dell’istruzione che fa capo alla TreeLLLe è, manco a dirlo, la Fondazione Agnelli, il cui direttore Andrea Gavosto si prodiga molto per rendere omaggio, dalle colonne delle testate di regime, alle prove INValSI e ai loro omologhi internazionali (OCSE PISA, IEA, ecc.), nella prospettiva della necessaria “standardizzazione” e “globalizzazione” del sapere. Attraverso il portale Eduscopio, la Fondazione Agnelli stila annualmente una classifica delle migliori scuole italiane, secondo i propri inderogabili criteri di valutazione.
Con tali premesse non appare più così surreale la cooptazione dell’ex ministro Valeria Fedeli nel consiglio di amministrazione della Fondazione Agnelli al posto di Sergio Marchionne. La signora ha alle spalle un solido curriculum di sindacalista diversamente istruita e un cursus honorum politico da capogiro che evidentemente ha dato i frutti che doveva dare. Ora, planata sulla nuova poltrona persino in deroga alla normativa sul conflitto di interessi (a lorsignori nulla è impossibile), si è messa subito al lavoro e lancerà il prossimo maggio l’imperdibile evento Generazione 2030 nell’ambito del Festival dello Sviluppo Sostenibile, per realizzare i traguardi “educativi” previsti dall’agenda globale 2030 e tradurre i contenuti di questa in “strategie e politiche coerenti e monitorabili”.
La nostra esperta di istruzione munita di diploma di terza media e di un eloquio pittoresco, del resto, in virtù della comune fede globalista e della pari statura culturale, è stata la prescelta da Jorge Mario Bergoglio come madrina dell’opera dal titolo “Imparare ad imparare”, mutuato dal catalogo di formulette prêt à porter del moderno pedagogismo deteriore. Testo di Bergoglio e prefazione della Fedeli: quel che si dice, le affinità elettive. Casa editrice, la Marcianum Press, creata dal fu patriarca lagunare ciellino Angelo Scola.
Come in parte abbiamo visto sopra, molti dei nomi che compaiono negli organigrammi degli enti che dominano il circuito scolastico bazzicano ambienti ecclesiastici legati alla CEI e all’associazionismo satellite, istituti di ispirazione cattolica, realtà accademiche curiali, movimenti ecclesiali.
A conferma del fatto, notorio, che tutti parlano lo stesso linguaggio e la torta è spartita tra chierici (o loro emissari) e laici, perché tra i poteri forti della tecnocrazia laico-massonica e il simulacro della chiesa che fu cattolica sussiste piena comunanza di intenti, di interessi, di obiettivi. E ormai anche di fede. Il sottosegretario di Stato Parolin al Bilderberg è una bella cartolina, significativa, di questo paesaggio lunare.
COMMON CORE Tutto il mondo è paese. Negli USA ha provocato un’ondata di proteste senza precedenti il cosiddetto Common Core, la riforma del sistema scolastico varata dal Governo Federale sotto l’amministrazione Obama, ma messa a punto e sostenuta da privati, soprattutto dalla Fondazione Gates, l’organizzazione di “beneficienza” fondata dal “filantropo” Bill, quello fissato con lo sviluppo sostenibile e i suoi ben noti annessi e connessi.
L’intento dichiarato di Obama, di un gran numero di governatori e di alcuni selezionati think tank sia repubblicani che democratici (deep state trasversale, per l’appunto) è quello di rendere omogenea l’istruzione in tutti gli Stati e di alzare il livello del rendimento scolastico. Core infatti significa “cuore”, “nucleo”, “nocciolo” e il senso di renderlo comune è proprio quello di ridurre ad un modello unico, standardizzato, i programmi e l’apprendimento.
«Vogliono trasformare mia figlia in un piccolo robot» si lamenta una mamma intervistata alla TV. «È il governo a decidere chi deve diventare idraulico, ingegnere o netturbino, chi deve e chi non deve laurearsi: Per i bambini che, come tutti i bambini del mondo, desiderano diventare un giorno astronauti, un altro giorno cow boy, un altro ancora pompieri, è finita la possibilità di sognare, di scegliere. È finita la gioia per lo studio. L’immaginazione è cancellata».
I bambini di cinque o sei anni – per i sostenitori del Common Core – dovrebbero già essere messi sulla strada della loro carriera futura e prepararsi per realizzarla. E questo – afferma una psicoterapeuta americana – «perché il governo vuole il controllo sull’aspetto più importante della vita, l’istruzione, e perché vuole indirizzare i giovani verso una visione unica e utilitaristica della vita».
Ma c’è anche un altro aspetto da sottolineare: questo sistema diventa una miniera d’oro per i fornitori di materiale didattico e informatico (Microsoft, per caso?), visto che tutti i test sono somministrati on line; le ditte appaltatrici, intanto, stabiliscono con gli scolari i contatti che servono a ottenere informazioni sulla loro famiglia (come votano i genitori, qual è il loro reddito) da trasmettere al governo federale.
Il programma globale in cui si inscrive il Common Core si chiama Agenda 21, cioè l’agenda ONU presentata alla Conferenza sull’Ambiente di Rio de Janeiro, che mira a difendere il pianeta dalla distruzione verso cui lo sta portando l’umanità che, purtroppo, si riproduce, inquina, disturba gli ecosistemi…
Anche in America, dunque, l’élite tecnocratica punta dritto al cuore del futuro: all’educazione delle giovani generazioni. E lo fa sferrando un attacco senza precedenti alla istruzione pubblica, proprio al suo sistema operativo, perché stravolge non solo i contenuti dell’insegnamento, ma anche il telaio dentro cui deve muoversi il pensiero dell’alunno, chiamato a conformarsi al modello-base (“core”), cioè al prototipo assemblato dalla casa madre.
Non sembra, l’INValSI, la fotocopia italiana del Common Core?
«FATTI (NON) FOSTE A VIVER COME BRUTI» L’INValSI, dunque, non è che la maglia più esposta di una lunga catena attorcigliata intorno a un nucleo egemonico intoccabile, sede del laboratorio dove vengono confezionate le ricette per cucinare i cervelli dei nostri figli secondo le esigenze delle oligarchie sovranazionali, sì da renderli docili e condiscendenti, e incapaci di reagire al proprio annientamento programmato.
Gli analfabeti di livello superiore vincitori del premio INValSI, allevati in batteria e nutriti con becchime vitaminizzato, si apprestano a diventare i cittadini modello, cosmopoliti e poliglotti, che sanno di tecnologia e altre “abilità”, molto mobili, flessibili, soprattutto obbedienti. Ma automi senz’anima e senza radici, senza vera formazione umana, senza storia e senza principi morali, sudditi per formazione e perciò pure contenti di esserlo perché persuasi della propria piena libertà e consci della propria “competenza” certificata a norma europea. Viene cresciuta nella sottomissione felice la massa studentesca del terzo millennio (μάζα in greco significa come prima accezione impasto, quindi qualcosa di indefinitamente plasmabile, modellabile, manipolabile), accarezzata dall’untuoso gergo del pedagogismo di maniera: quello delle “carte dei diritti delle studentesse e degli studenti” (rigorosamente in quest’ordine), della “scuola per tutte e per tutti” (sempre rigorosamente in quest’ordine), dell’”inclusione scolastica” o dell’”accoglienza”, del “diritto al successo formativo” (corrispondente al dovere della scuola, ovvero degli insegnanti, a spingere avanti per forza anche chi non ha voglia), della “lotta alla dispersione scolastica”, dello “stare bene a scuola” (sicché gli insegnanti non importa che sappiano, per trasmettere ciò che sanno, ma devono essere bravi imbonitori, animatori, giullari all’occorrenza), del “mettersi in relazione” e della “gestione pacifica dei conflitti”. Insomma, tutto quel repertorio irenista con cui viene imbellettata la fabbrica dei robot.
Il colpo da maestro del potere, come aveva preconizzato Aldous Huxley, è quello di saper creare uno stato di schiavitù consenziente, allestendo «una sorta di campo di concentramento indolore in cui le persone saranno private di fatto della loro libertà, ma ne saranno piuttosto felici».
«La dittatura perfetta – scrive Huxley – avrà sembianza di democrazia. Una prigione senza muri nella quale i prigionieri non sogneranno di fuggire. Un sistema di schiavitù dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitù».
Consustanziale a questo modello “educativo”, va da sé, è il rigetto della cultura e degli insegnamenti del passato. Ed è da qui che ci giochiamo la rimonta.
L’Italia, erede privilegiata di una storia più che due volte millenaria, è terra di elezione di un patrimonio spirituale fatto di inestimabili tesori artistici, letterari, linguistici, filosofici. Ovvero, di tutti quegli ingredienti culturali che, soli, possono fare da contrappeso alla miope e disumanizzante prepotenza della tecnica, e da vero antidoto all’imbarbarimento travestito da progresso. Gli italiani non dovrebbero far altro che riscoprirsi degni custodi di tale patrimonio, il che implica studiarlo, conoscerlo e trasmetterlo. Non solo per se stessi ma per l’intera umanità. «Considerate la vostra semenza: Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza».
Leggi anche: https://www.riscossacristiana.it/lettera-aperta-al-neo-ministro-dellistruzione-di-elisabetta-frezza/
4 commenti su “Uno spettro si aggira per la scuola: è lo spettro dell’INValSI – di Elisabetta Frezza”
Incredibile, ma, non stento a credere, vero!
appunto, BRAVE NEW WORLD! ( Grazie a Dio, io ce l’ho fatta a leggere Dante e Shakespeare…)
Perfetti asini (asino non riferito all’utile e buon, mite quadrupede, ma a quell’immaginario collettivo sinonimo di somma ignoranza) gli insegnanti, miserrimi eredi dell’infima cultura sessantottina e ammessi con lode all’addestramento asinino dei poveri malcapitati alunni, futuri asini familiari e sociali adulti.
Continuerà così, per chi non espatria in nazioni culturalmente accettabili, lo squallido circo delle generazioni multiculturali, senza radici, né memoria, né anima, né volontà, ma telecomandate a continuare l’inevitabile declino della Cultura in ogni suo aspetto, per giungere infine alla tesi universitaria e scrivere sul proprio tablet: Abbasso la sQuola!
Quello che scassa la scuola d’ oggi è il principio dell’ inclusivismo che ha ucciso la competizione di anni or sono quando il merito degli studenti non teneva conto di fatti psicologici ma solo di risultati obiettivi; d’ altra parte quandi si va lavorare non esistono i lavoratori BES.. e invece siamo arrivati al paradosso che che gli istituti professionali “includono tutto” che dovrebbero preparare al mondo del lavoro coccolano e incoraggiano le fragilità degli studenti con la benedizione sovrana degli insegnanti di sostegno, l’ obbligo di 6 politico da parte dell’ insegnante di materia, sotto lo sguardo vigile dei dirigenti che devono pararsi il culo dai ricorsi dei genitori.. poichè la ignoranza delle materie tradizionali cresce esponenzialmente e la riduzione dei programmi non regge il passo , allora che si fa ? ..si fanno le riforme dei professionali inventando le UDA in cui con lavori di gruppo uno fa per tutti inventando strane alchimie valutative …. Bisogna cacciar via quella retorica psicologica accattona dalla scuola e da ogni comparto produttivo e tornare ad una sana sobrietà in cui si dice “si si.. no no”.. abbiamo nostalgia della scuola Gentiliana.