Se Il Capitalismo Moderno è l’opera più imponente di Sombart e Gli Ebrei e la vita economica quella che ha procurato maggiori problemi alla fama postuma del professore di Ersleben, Il Borghese è la più suggestiva. Le due opere maggiori non possono essere comprese l’una senza il supporto dell’altra. Tanto Il Capitalismo moderno analizza la progressiva vittoria di un mondo nuovo, gli “spiriti animali” di Joseph Schumpeter – i cui contatti con Sombart furono frequenti – quanto Il Borghese analizza un tipo umano, una mentalità manifestatasi nel tempo tesa all’ordine, alla continuità, alla misura materiale, alla contabilità e alla partita doppia estesa ad ogni ambito della vita. È la forma mentis che ha improntato le nostre società sino a dopo il 1968, la rivoluzione incruenta che ha prodotto il neocapitalismo iper individualista ed anti borghese.
Interessante è il parallelo con l’opera di Bertrand de Jouvenel Il Potere (1942), nella parte in cui esamina la progressiva smobilitazione dell’Europa moderna, paragonata alla demilitarizzazione dell’impero romano, privato progressivamente della tempra e della volontà di opporsi ai popoli giovani che avanzavano. Uguale, per Jouvenel, sulle piste inaugurate dalla Scienza Nuova del Vico, è la marcia dei popoli europei sulla via dell’incivilimento “borghese” che svuota e riduce tutto a materia, tornaconto, calcolo.
Il tipo borghese ne è il simbolo e Sombart fu colui che meglio ne colse ogni risvolto, con l’ausilio di una scrittura brillante, le risorse di una cultura vasta e multidisciplinare fondata sul primato della storia. Sorprendente, in un’opera scientifica, è il ricorso a citazioni di poesia e letteratura popolare per sostenere le tesi presentate. L’amore per il denaro, ad esempio, sempre presente nell’uomo, ma poco popolare nella cultura “alta”, viene mostrato in opere come il Liber familiae di Leon Battista Alberti e in un antico poema olandese in cui l’Io narrante è l’avidità di denaro.
Assai citata da Sombart è l’opera storico economica di uno scrittore inglese, Daniel Defoe, famoso per Robinson Crusoe, romanzo del soggettivismo, storia dell’uomo solo che affronta il destino. Trova spazio nel Borghese persino Cagliostro, l’avventuriero e alchimista siciliano, insieme con l’analisi psicologica degli usurai, la mania del gioco, che a suo avviso “notevolmente contribuì al sorgere dello spirito capitalistico.”
L’animus borghese produsse la Borsa e follie di massa come la bolla finanziaria dei tulipani in Olanda nella prima parte del secolo XVII, nonché il primo schema truffaldino a piramide inventato da John Law che mise in ginocchio la Francia attorno al 1720. Non manca un accenno alla pirateria come impresa precapitalistica sostenuta dallo Stato, specie in Inghilterra; su tutto domina il febbrile attivismo di Faust. Nei versi di Goethe si esprime il grido dell’animo teso all’impresa: “in me risplende chiara luce; quanto ho pensato mi affretto a compierlo. Su dal giaciglio, servi! Subito bisogna eseguire quel che è segnato”. In luogo della costrizione materiale, il nuovo tipo umano – borghese e imprenditore- pone come forza motrice il desiderio, inventa per se stesso e gli altri una nuova potenza, la suggestione.
Espressione letteraria di queste personalità mai viste, potenti, determinate, prive di scrupoli morali è il personaggio di Saccard, lo speculatore disegnato da Emile Zola nel Denaro, che immagina di cambiare la realtà senza limiti attraverso l’azione volta all’arricchimento. “La marcia in avanti, il bisogno di agire, di andare oltre se stesso, senza sapere dove si va, ma andare avanti a proprio agio, nelle condizioni migliori: e il globo rovesciato dal formicaio che rifà la sua casa, e il continuo lavoro, nuovi godimenti conquistati, il potere dell’uomo decuplicato, la terra che gli appartiene ogni giorno di più. Il denaro, aiutando la scienza, fa il progresso”. Attraverso Zola, Sombart descrive l’uomo senza limiti, l’individuo assoluto perché sciolto da ogni vincolo.
Oltre le personalità individuali, esistono popolazioni più portate a unire lo spirito capitalistico alla mente borghese. Innanzitutto i fiorentini, gran mercanti, popolo di terra poco attratto dalle conquiste marittime (Sombart condivideva le tesi di Carl Schmitt sul dualismo permanente terra-mare), scarsamente dotato di virtù militari, ma straordinariamente capace di organizzare tecnicamente l’economia mercantile e la finanza. Non è senza ragione che i Medici siano l’unico caso nella storia di banchieri divenuti re e che la cultura cattolica abbia prodotto a Firenze e in Toscana l’opera ordinatrice di santi come Antonino da Firenze e Bernardino da Siena. Lo spirito borghese e capitalistico ha avuto uno sviluppo eccezionale nella Scozia calvinista delle Lowlands, con la prima scuola organizzata di economisti – lo stesso Adam Smith era scozzese – un popolo che nel secolo XVII vendette all’Inghilterra per denaro contante il re Carlo Stuart.
Immensa è l’importanza del ruolo degli ebrei, costretti dalle limitazioni che subivano quasi ovunque ad esercitare attività finanziarie, consentite dal famoso passo del Deuteronomio (23- 20,21): “Non farai al tuo fratello prestiti a interesse, né di denaro, né di viveri, né di qualunque cosa che si presta a interesse.Allo straniero potrai prestare a interesse, ma non al tuo fratello, perché il Signore tuo Dio ti benedica in tutto ciò a cui metterai mano, nel paese di cui stai per andare a prender possesso.”
L’approccio storico di Sombart raggiunge il suo culmine nella descrizione del borghese per antonomasia, l’americano Benjamin Franklin. Per l’austero puritano il tempo è denaro, l’onestà è la migliore politica soprattutto in quanto consente la stima negli affari, la giornata va divisa in tempi regolari da utilizzare nelle varie attività senza sprecare un attimo. Questa avarizia di tempo, il senso acuto della sua scarsità è un’intuizione forte di Sombart, destinata a spiegare molto della contemporaneità, schiacciata sul presente sino all’invenzione del tempo reale, l’attimo non più fuggente, ma cristallizzato nella risposta binaria immediata aperto/chiuso, sì/no degli apparati tecnologici senza i quali non sappiamo esistere.
Il borghese è conformista per vocazione e interesse, mai per profonda convinzione, giacché è pronto a cambiare i suoi valori al seguito della società e soprattutto del mercato. Lo spirito borghese sorse in Italia e si perfezionò in Olanda nel secolo XVII, attraverso l’operosità, ma anche l’esaltazione delle arti mercantili e delle virtù economiche, la completa razionalizzazione della vita di un popolo che abbandonava progressivamente la sua tradizione di navigatori esperti e coraggiosi guerrieri. Ancora nel XVIII secolo, all’inizio della prima rivoluzione industriale, erano considerati indecorosi gli eccessi di pubblicità e la tendenza al ribasso dei prezzi per motivi di concorrenza. L’autore di un testo assai popolare dell’epoca, Il perfetto mercante inglese, farebbe strabuzzare gli occhi ai moderni per l’opposizione a innovazioni commerciali e ad economie di scala che avrebbero tolto il lavoro a molte persone e messo in crisi mestieri e professioni. Analoghe riflessioni animarono il re Federico di Prussia.
A cavallo tra XVIII e XIX secolo lo spirito cambia, il vento muta direzione rovesciando i valori di riferimento. Scrive Sombart: “L’uomo vivo, con il suo bene e il suo male, è stato respinto dal centro dell’interesse, e il suo posto è stato preso da un paio di astrazioni, il guadagno e l’affare. L’uomo ha cessato di essere quello che era rimasto fino alla fine dell’era paleocapitalistica, la misura di tutte le cose”. La natura antiumana dello spirito capitalistico non poteva essere rivelata con maggiore chiarezza, unita alla spinta ad ingrandirsi, aumentare, travolgere limiti, attraversare frontiere.
Vi è in ciò quasi una costrizione psichica svelata dalle memorie di capitani d’industria come il magnate americano dell’acciaio Andrew Carnegie e il primo Rockefeller. Carnegie ammise che sperava sempre di non aver bisogno di ingrandirsi, ma che non farlo avrebbe significato compiere un passo indietro. Un fatto impossibile per il nuovo spirito, che Rockefeller spiegava con il desiderio di riunire aziende e capitali per formarne sempre di nuove, più grandi, più ricche, in grado di reinvestire continuamente i capitali.
Una constatazione significativa rimanda al mondo della fanciullezza. L’imprenditore moderno, e con lui l’uomo dei tempi nuovi, è una specie di bambino. Il suo mondo, come quello infantile, è fatto di grandezze materiali, di rapidità nei movimenti, come la corsa o far girare la trottola; è affascinato dalla novità: getta il giocattolo vecchio alla semplice vista del nuovo e manifesta senso di onnipotenza e spiccato egoismo. L’indagine psicologica è fine e ci proietta nel regno della quantità, la cui compiuta espressione si raggiunge negli Stati Uniti. Laggiù, osservò già un secolo fa il Sombart, si fanno pochi complimenti e il prezzo di costo, ovvero il valore di scambio, si pone semplicemente accanto alla cosa che si stima, trasformata in grandezza pesabile e misurabile. Un quadro di Rembrandt vale per il suo prezzo e non per il valore artistico, la quantità misurata in denaro diventa l’indizio unico del successo, da conseguire -altra novità- con rapidità e senza riguardo ai mezzi impiegati.
Si sviluppa un’attitudine di “mobilità spirituale”, non soltanto per cogliere il momento giusto di un’azione (il kairòs dei greci) ma anche per esercitare una particolare forma di fantasia pratica che un padre della psicologia, Wilhelm Wundt, chiamò “kombinatorisch”, in opposizione alla fantasia intuitiva dell’artista. Il borghese teso all’accrescimento va per il mondo intento a ordinare e calcolare.
Rockefeller si vantava di aver tenuto sin dall’infanzia un libriccino in cui annotava diligentemente entrate e uscite. Sombart non ha dubbi: imbevuto dello spirito di Goethe, parteggia per Wilhelm Meister, che “parla come uno che regala regni”, contro il suo amico Werner, il cui dire “si addice a una persona che raccoglie spilli”. Curiosamente, uno degli esempi portati da Adam Smith per celebrare la nascente economia capitalista fondata sulla divisione del lavoro, riguarda un fabbricante di spilli!
Lo spirito pratico, metodico, mercantile, è più vivo in alcune popolazioni che in altre, pur se le spiegazioni di Sombart non sono di natura biologica, ma storico culturale. Egli nota che i fiorentini popolani cacciarono gli aristocratici dall’amministrazione civica fin dal remoto 1292 e diventarono così la prima città borghese del mondo. Analogo il comportamento degli scozzesi delle terre basse fin dal XV secolo. Esiste dunque, accanto allo spirito, una filosofia borghese orientata al capitalismo?
La risposta di Sombart è positiva. Prima del trionfo dell’utilitarismo britannico di Jeremy Bentham, la costante ansia di razionalizzare ogni cosa, tutto calcolare per regolare la vita in perfetta economia di tempo, azione, denaro, ebbe antichi progenitori nel pensiero degli Stoici latini, come Seneca e l’imperatore filosofo Marco Aurelio, oltreché, bizzarra unione di diversi scoperta dall’erudito Sombart, negli scrittori di res rusticae, agricoltura, come Catone e Columella. Vi sarebbe dunque, nello spirito borghese, una lontana ascendenza romana, di cui sarebbero indizi sentenze di poeti come Lucrezio (la più grande ricchezza sta nel risparmiare) e Ovidio (non è virtù minore conservare ciò che si ha che guadagnare del nuovo).
Ampia è la riflessione sombartiana sulle influenze religiose e il ruolo delle migrazioni nello sviluppo dello spirito capitalistico. Differenziandosi profondamente da Max Weber, egli nega l’influenza preponderante della riforma protestante sulla nascita dello spirito borghese e della mentalità capitalista. È vero che “il Dio di Calvino e di John Knox era un Dio terribile, il Dio del terrore, un boia” e la teoria della predestinazione avrebbe dovuto, in teoria, bloccare l’attivismo umano dei devoti, ma sfuggì al Nostro, che pure era protestante, la portata rivoluzionaria dell’individualismo introdotto da Lutero attraverso la libera interpretazione soggettiva delle Scritture.
Per quanto riguarda gli Ebrei, convince un’interpretazione riferita alla prevalenza, dopo la diaspora, dell’elemento ritualistico e dell’osservanza della legge. Vale il detto di Heinrich Heine, per il quale la Torà divenne la “patria portatile” degli israeliti. L’osservanza dei precetti religiosi e il prevalente ruolo di guida dei rabbini furono all’origine della ricchezza ebraica, specie nel determinare il fine e l’efficacia della mentalità economica.
Per quanto concerne il cattolicesimo, gli scolastici, con la legge naturale, insegnarono l’industria, ossia l’energia contrapposta all’accidia, la frugalità e l’onestà, una “bellezza spirituale” già per Agostino, pilastri trasferiti all’incipiente homo oeconomicus. È dei paesi cattolici una certa tendenza alla magnificenza e al lusso, un gusto per lo splendore abbandonato dai protestanti. Eccezionalmente immaginifico è un brano del Borghese: “nell’architettura [protestante] non vi era posto per la magnificentia. Essa assomigliava al gennaio freddo, prosaico, imbiancato a calce, che aveva preso il posto del nobile duomo gotico, dalle cui variopinte finestre scendevano i raggi del sole. La principale virtù puritana fu l’opposto della magnificentia, fu quella parvificentia, spilorceria, condannata come grave peccato dagli scolastici”. Qui, oltre alla grandezza di un cuore mai rinserrato nelle anguste acquisizioni dell’algida scienza sociale, pulsa l’amore dei tedeschi colti per il Sud, conosciuto da Sombart, come da Goethe, Mommsen e altri, nei viaggi di formazione (bildung) della giovinezza.
Pure, le forze morali di ascendenza protestante hanno alla fine prevalso nel formare l’uomo nuovo, borghese e capitalistico, attraverso la forte vocazione al lavoro a gloria di Dio e alla progressiva giustificazione e santificazione del profitto. Di capitale rilievo è la teoria che riguarda gli stranieri e gli esuli – religiosi e politici- come portatori privilegiati dello spirito capitalistico: gli ebrei quasi dappertutto per la loro condizione di cittadini a metà, i cattolici nei paesi protestanti e viceversa, gli appartenenti a confessioni protestanti non maggioritarie negli Stati Uniti. È un’intuizione risalente a un economista inglese vissuto a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo, William Petty, che Sombart allarga e fa propria, affermando che sarebbe attraente scrivere un’intera storia dell’umanità riferendosi sempre e soprattutto allo straniero, al suo influsso sul corso degli avvenimenti.
A parte l’attualità di tale osservazione nel presente, dominato da imponenti movimenti di popolazione verso il Nord del pianeta, l’importanza degli stranieri nello sviluppo della mentalità materialistica, borghese e nella crescita del capitalismo è evidente. Emigrano, rileva Sombart, soprattutto i “tipi capitalistici”, provvisti di energia, capaci di dimenticare tradizioni e stili di vita nativi per imboccare decisamente nuove vie.
Avviene una doppia selezione: resistono ed emergono i temperamenti più audaci, le tempre volitive, fredde, inclini al calcolo, meno portate al sentimento. Dopodiché si lanciano in nuove avventure, in cui si sviluppa lo spirito capitalistico nei tipi più disponibili a spezzare tutte le vecchie abitudini e gli antichi rapporti, per i quali “la parentela, la terra, il popolo, lo Stato, hanno cessato di essere una realtà”. In loro, gli interessi materiali acquistano la supremazia su tutti gli altri. È difficile mantenere o sviluppare la propria spiritualità in terra straniera, e il gruppo in cui vive l’emigrato non ha per lui alcun significato.
Tanto più vera è la tesi se riferita alla natura, l’ampiezza e le motivazioni dell’emigrazione europea verso l’America, terra promessa in cui vale solo la spinta all’arricchimento con ogni mezzo. Perfino l’immensa potenza e bellezza delle cascate del Niagara diventano per l’americano una semplice, grandiosa forza motrice idrica da imbrigliare e impiegare nell’industria. La preoccupazione fondamentale è il tempo, sempre carente, sempre declinato al futuro, mentre la normalità diventa la precarietà esistenziale, la provvisorietà della residenza, l’instabilità, il cambiamento incessante. Lo straniero non è trattenuto da alcun freno, sulla strada incontra solo estranei con i quali intrattiene relazioni pratiche, commerciali, dare e avere, trattative al posto di dialoghi, contratti anziché comunità. I prestiti a interesse, dice Shylock ad Antonio, si fanno con gli stranieri poiché soltanto da loro si può esigere senza riguardo il rimborso del capitale e il pagamento degli interessi.
La contemplazione del mondo diventa puramente quantitativa, rappresentata da somme, grandezze misurabili da oltrepassare come primati sportivi da abbattere. L’ansia borghese è misurare tutto. Di qui l’importanza assegnata alla tecnica, la sopravvalutazione delle cose materiali, il fanciullesco piacere per i perfezionamenti tecnici e le scoperte, il mito del progresso, i mezzi che diventano fini. Muta totalmente l’orizzonte del mondo, lo sguardo cambia obiettivo. Il commercio orienta verso un giudizio esclusivamente quantitativo. Il mercante, e dopo di lui l’imprenditore, hanno nei confronti all’oggetto delle loro attività un rapporto puramente esteriore, strumentale. Manca in loro l’amore dell’artigiano, la gelosia del contadino, la cura per l’opera del faber. Conta solo il valore di scambio, la quantità misurata in denaro. Non sbagliò Marx teorizzando la differenza profonda tra valore d’uso e valore di scambio, ma sorprende l’incomprensione del consumatore moderno – autodefinito colto e riflessivo – per il colossale inganno che subisce, attraverso la creazione e imposizione di desideri irrazionali.
Quel che resta dell’etica è riassunto in una morale da droghiere. Honesty is best policy, l’onestà è la migliore politica, ma perché consente di essere credibili sul mercato, mantenere una buona reputazione commerciale. È la stessa differenza tra l’onore, concetto verticale, il senso di sé che si specchia nel giudizio altrui e l’immagine, ovvero ciò che si vuole far conoscere di sé agli occhi della società. Vive nel mondo del borghese un’attività febbrile priva di qualità etica, alimentata da rancore e invidia per chi “ha” più di lui, il ressentiment cruciale nella formazione della coscienza collettivista della classe proletaria. Sombart è tranchant: l’astio è il sostegno più valido della morale borghese, pronta a ragionare con argomenti analoghi a quello della volpe di Esopo che non riusciva a raggiungere l’uva.
Il razionalismo tecnologico, infine, tende a dimenticare l’uomo. Tutto è strumento per il borghese, anche la persona umana, l’altro e qualche volta persino se stesso, mezzo per il fine unico, l’accrescimento indefinito, una ricchezza più grande (il denaro non conosce limiti). Avanza la spinta all’iperbolico, l’amore dell’eccessivo, l’impulso verso l’infinitamente grande, il determinismo dell’avanzare, sempre e comunque, che gli americani hanno oggettivato nel mito della frontiera (“vai all’Ovest, giovanotto”).
Tutto scompare dall’orizzonte borghese e capitalistico, tranne “l’impresa” destinata a sostituire la religione. Non è stato il puritanesimo religioso a trascinare l’imprenditore nel vortice di una irriflessiva attività, insiste Sombart, ma il capitalismo. “E lo ha potuto fare soltanto quando fu abbattuta l’ultima barriera che impediva all’imprenditore di sprofondare verso l’abisso: il sentimento religioso. Per fare di questa insensata attività il contenuto della sua vita, ha insegnato a crearsi valori vitali nel deserto”.
Lo spirito del capitalismo, di cui abbiamo seguito l’allontanamento progressivo dall’originario spirito borghese per emanciparsi da qualunque principio dopo la tempesta libertaria soggettivista del 1968, ha imboccato l’ultimo, decisivo tornante, quello della lotta contro le leggi di natura e la distruzione di tutte le differenze, distinzioni, identità che si frappongono alla sua vittoria finale, il regno globale dell’economia sul deserto.
Dopo aver alimentato e utilizzato la scienza naturale, nata dalle profondità dello spirito romano-germanico e resa possibile dalla tecnica; dopo aver inventato la Borsa, nella quale si poté inverare la tensione illimitata dell’attività capitalistica, aver fatto proprio l’impulso totale al guadagno, spezzato uno a uno i vincoli dei costumi, della morale, della comunità, della religione, la modernità capitalistica cresce senza più limiti. Il gigante, avverte Sombart, non arretrerà. La domanda finale è se la sua frenesia durerà in eterno. Difficile anche per l’esperto sociologo azzardare previsioni, oltre all’auspicio che “nella natura stessa dello spirito capitalistico si nasconda la tendenza che lo mina dal di dentro e lo ucciderà”. Nel frattempo, il rischio è la distruzione del creato, la rovina ambientale, l’insignificanza della persona umana, che il XXI secolo aggredisce attraverso nuovi strumenti tecnici, l’intelligenza artificiale, la robotica, la messa in discussione della biologia e di ogni legge naturale.
L’aggressione, vaticinava il sociologo, si sarebbe completata con il progredire della “cultura” (tra virgolette nel testo), e questo sta puntualmente accadendo. Non si è ancora manifestata in alcuna forma la speranza che Sombart, figlio della Germania, esprime nell’excipit del Borghese: “forse il gigante divenuto cieco verrà adibito a tirare il carretto della civiltà democratica. Forse sarà ancora il crepuscolo degli dei. L’oro verrà restituito al fiume Reno. Chi lo sa?”.