di Padre Giovanni Cavalcoli, OP
Come è noto dalla storia della filosofia, la critica kantiana della ragione sfocia nel rifiuto di quella metafisica e teologia realiste ed ontologiche, che sino ai suoi tempi erano state patrimonio della cultura cattolica – si pensi alla scuola aristotelico-tomista – , sostituite da quella che Kant ritiene una metafisica veramente rigorosa e fondata, la quale parte da quel cogito cartesiano che in Kant assume il volto dell’ “Io penso” (Ich denke), ossia l’autocoscienza come principio primo del sapere e della certezza, “condizione di possibilità dell’esperienza”.
Però la critica che Kant rivolge al realismo ontologico non si pone solo sul piano speculativo, ma anche, potremmo dire, sul piano morale. Infatti Kant ritiene di poter accusare di “orgoglio” e “presunzione” quel ragionare, pur accreditato dalla rivelazione cristiana (vedi Rm 1,20 e Sap.13,5), il quale, partendo dalla considerazione dei dati dell’esperienza, si eleva per viam causalitatis et analogiae entis all’affermazione dell’esistenza di Dio e quindi ad un’etica fondata su questa conoscenza di Dio.
Ma cosa intende Kant con questa accusa di “orgoglio? In realtà egli opera una gran confusione, alla quale desidero accennare pur nel breve spazio di questo articolo, una confusione che tuttora grava pesantemente sulla cultura moderna, cattolica e non cattolica.
In realtà Kant intende come orgoglio quella che è umiltà ed intende come umiltà quello che è orgoglio. Egli ammette bensì – come è noto – l’esistenza di una “cosa in sé” esterna alla ragione ed indipendente dalla ragione, ma poi considera orgoglio l’idea che la ragione speculativa possa superare i fenomeni per cogliere l’essenza della cosa in sé e, partendo da essa, dimostrare l’esistenza di Dio applicando il principio di causalità.
Secondo lui l’umiltà, la modestia e la sobrietà della ragione speculativa richiedono che essa rinunci alla pretesa di superare la conoscenza di ciò che cade sotto i sensi per avventurarsi in un mondo sovrasensibile, che, se esiste o può esistere, le rimane tuttavia del tutto sconosciuto, perché le manca il riferimento all’esperienza e quindi la condizione per poter conoscere (i famosi “giudizi sintetici a priori”).
Kant non capisce che la vera umiltà è proprio quella per la quale la ragione speculativa riconosce l’esistenza di una realtà esterna, dotata di una propria essenza da noi intellegibile, – si tratti del mondo o delle altre persone – che la ragione deve prender in considerazione e deve rispettare, alla quale la ragione deve adeguarsi e deve obbedire, che la ragione deve rispecchiare e rappresentare fedelmente ed oggettivamente per conoscere veramente ed essere nella verità.
Non capisce che la vera umiltà è riconoscere le cose come sono, ossia come effetto della causalità divina e del suo potere creatore. La vera umiltà quindi è riconoscere che Dio esiste e che quindi l’uomo e la sua ragione dipendono da lui come loro creatore e Signore.
Limitare la conoscenza all’ambito dei fenomeni, apparenze che non consentono di raggiungere la cosa in sé, non è umiltà o modestia, ma è pusillanimità e meschinità, è avvilire la ragione, chiamata a trascendere il visibile per aprirsi all’invisibile, è restringere vergognosamente la conoscenza umana quasi all’ambito dell’animalità, esclusivamente limitata alle realtà del senso. D’altra parte la ragione è grande proprio quando partendo dal dato del senso, si eleva, per induzione e per viam causalitatis – per ea quae facta sunt (Rm 1,20) – alla conoscenza dello spirito e delle realtà divine. Concepire la ragione sul modello dell’autocoscienza cartesiana – quell’“Io penso” kantiano che deriva dal cogito cartesiano – non è la vera grandezza della ragione, ma è l’orgoglio di una ragione autoreferenziale che non vuol dipendere dal reale, ma vuol essere il principio e l’ideatrice del reale, alla pari del pensiero divino, come poi successivamente si rivelerà pienamente in Hegel, continuatore di Cartesio.
La ragion pratica kantiana dal canto suo manca essa pure di umiltà. Essa bensì avverte in se stessa la voce del dovere e l’imperativo categorico, avverte l’assolutezza della legge morale e la dignità della persona e della coscienza. Tuttavia questo stimolo interiore essa non lo riceve da un rapporto interpersonale con un Dio oggettivamente e realmente esistente, trascendente rispetto alla ragione, ma da un “Dio” come “ideale della ragione”, “idea regolativa – come dice Kant – dell’unità sistematica della ragione”, quindi un Dio immanente alla ragione, che in fin dei conti non si capisce più come si distingue dalla ragione stessa. Dunque nell’etica kantiana alla fine non abbiamo affatto umiltà ma orgoglio, l’orgoglio di una ragione che non si regola su Dio, ma solo su stessa, “obbedisce a se stessa”, come diceva Rousseau.
Kant non capisce che la vera dignità della ragion pratica è invece obbedire a quel Dio che la ragione speculativa ha scoperto come creatore dell’uomo ed essendo creatore ne è anche legislatore, per cui la legge morale è l’ordinamento della Ragione divina, è realmente e non solo metaforicamente comando divino per il bene e la felicità dell’uomo. Kant, al quale pure piace spesso citare motti latini, si è dimenticato dell’antico detto: “Servire Deo regnare est”.
La coscienza del dovere, dice Kant, richiede l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima e la speranza in un mondo eternamente felice oltre la morte. Se dunque, ci dice Kant, la ragione speculativa non può sapere che Dio esiste, lo sa la ragion pratica. Senonchè questo discorso non sta in piedi, giacchè in verità ciò che la ragion pratica sa non è altro che quello che le è fornito dalla ragione speculativa con la semplice aggiunta che il sapere pratico è ordinato all’azione o presenta il suo oggetto sotto l’aspetto del bene o del fine. Quel Dio che nella prassi appare come bene e come fine è quello stesso Dio che la speculazione propone come vero e come reale. Nihil volitum nisi cognitum.
Dunque Kant viene ad impigliarsi in un irresolubile dilemma: o ammettere Dio, ma allora suppone l’assurdo di un sapere pratico non fondato su quello teorico, per cui Dio appare come prodotto della ragion pratica (“ideale della ragione”) e qui si preannuncia Hegel; oppure è vera la sua tesi che la ragione speculativa non raggiunge Dio, ma allora la sua convinzione che Dio esiste basata sulla morale perde il suo fondamento. Ed appare l’ombra dell’ateismo e si preannuncia Marx.
In Kant l’io si ingigantisce mentre Dio si illanguidisce. In nome di una falsa umiltà in realtà Kant tende a sostituire la ragione umana alla ragione divina, l’uomo non dipende più da Dio ma solo da se stesso. Ben lungi dal vincere l’orgoglio, Kant lo stimola sostituendo l’egocentrismo (l’Ich denke) al teocentrismo dell’ipsum Esse tomistico, vero fondamento dell’umiltà e per conseguenza vero fondamento dell’umana grandezza.
Giusta è in Kant l’esigenza di esaltare la grandezza e l’autonomia teoretico-morale della ragione umana, mentre ne vuol sottolineare i limiti. Ma pone limiti laddove, per usare un’espressione del Papa, dovrebbe “ampliare la ragione”, laddove cioè la ragione dà prova della sua grandezza – elevarsi a Dio -, e sopravvaluta la grandezza della ragione quando la concepisce non fondata su Dio ma fondata su se stessa. Alla paralizzante timidezza kantiana in ordine alla conoscenza della cosa in sé corrisponde un’illimitata audacia nella fiducia che la ragione ha in se stessa di essere cartesianamente a priori il principio della verità e della certezza. Kant ritiene che lo scendere a compromessi con le esigenze del dovere comporti una mancanza di rispetto dell’uomo verso se stesso, ma non si chiede se ciò comporti anche una cosa ben peggiore: la mancanza di rispetto dell’uomo nei confronti Dio. Il Dio kantiano non è un Dio al quale la ragione rende culto, ma è un Dio funzionale ai bisogni della ragione. Non un homo servus Dei ma un Deus servus hominis.
In fondo l’etica kantiana si può intendere anche come ripresa del soteriologismo luterano: quello che m’interessa non è la contemplazione divina, ma la mia salvezza, con l’aggravante che almeno Lutero resta nell’orizzonte del realismo biblico, mentre Kant, erede dell’idealismo cartesiano, fa perdere a Dio il suo essere trascendente e rimpicciolendo Dio ad un “ideale della ragione”, inizia quella riduzione dell’essere al pensiero, che avrà il suo totale compimento nell’idealismo panteistico hegeliano sino a Giovanni Gentile ed ai suoi odierni complessati epigoni del postmoderno.