SUL CORPORATIVISMO DI TONIOLO E IL DISTRIBUTISMO
Quando si confrontano autori con caratteristiche diverse, è opportuno innanzitutto riportare l’ambito di competenze, i luoghi e il periodo in cui sono vissuti. Il Beato Giuseppe Toniolo (1845-1918) è stato un economista e sociologo italiano, docente di Economia a Pisa, tra i fondatori della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), promotore delle Settimane sociali dei cattolici italiani e collaboratore dell’Opera dei congressi. Dal punto di vista anagrafico è da considerarsi il “padre” dei distributisti classici inglesi Gilbert Keith Ckesterton (1874-1936) e Hilaire Belloc (1870-1953). In merito allo stretto ambito di competenze, Chesterton era un giornalista e saggista con un diploma alla Scuola d’arte di Londra, mentre Belloc era uno storico di formazione, laureatosi al prestigioso Balliol College di Oxford, anche se, in quanto cattolico, gli era stato precluso l’insegnamento accademico. Erano divenuti famosi e amici al punto che il celebre drammaturgo George Bernard Shaw (1856-1950) li apostrofava, accomunandoli, il “Chesterbelloc”. Avevano come padre spirituale il teologo domenicano Vincent McNabb (1868-1943), anch’egli distributista e scrittore. I distributisti classici, pur non essendo economisti di studi e professione, avevano colto la situazione reale del conflitto capitale/lavoro e, rinfrancati dalla Rerum novarum del 1891 di Leone XIII, avevano indicato in modo vigoroso la distribuzione della piccola proprietà quale rimedio alla questione operaia. Alla concentrazione del capitale in poche mani sollecitavano una diffusa distribuzione della proprietà. Dal punto di vista storico rilevavano che il capitalismo, sorto in Inghilterra dopo la Riforma di Enrico VIII anche con l’esproprio dei beni della Chiesa cattolica e dei conventi degli ordini religiosi, era stato causa determinante della società industriale del 1700. Il loro obiettivo era quindi, nel restaurare la proprietà, riportarsi alla fase storica precedente il protestantesimo e guardavano con favore al modello delle corporazioni di arti e mestieri o delle gilde medievali.
Il cosiddetto “corporativismo” di Toniolo (da non confondersi con quello fascista, successivo alla sua morte) si rifaceva a un progetto più ampio, mutuato dalle indicazioni di Pio X (Instaurare omnia in Christo) e di Leone XIII, nel quadro di una ricomposizione organica della società e con l’auspicio di un ritorno alle leggi della giustizia e ai precetti della carità nelle relazioni tra le classi. Toniolo, come attestato da numerosi suoi studi, partiva dall’analisi storica della Repubblica fiorentina, in quanto individuava in essa un nesso causale tra dimensione spirituale e civilizzazione materiale (nel dettaglio si fa riferimento in particolare al saggio di Toniolo del 1886: “Scolastica e umanesimo nelle dottrine economiche al tempo del rinascimento in Toscana”). A questo modello si riferiva per cercare un assetto istituzionale che rendesse possibile la cooperazione differenziata e concorde delle parti sociali. La soluzione stava, secondo Toniolo, nelle corporazioni, che permettevano di affrontare la questione sociale senza affidarsi all’onnipotenza e invasività dello Stato. Nella consapevolezza che la concezione cristiana era stata deviata dall’umanesimo e dal razionalismo, Toniolo intendeva il tema corporativo come organizzazione libera e autonoma delle classi sociali. Il corporativismo di Toniolo si contrapponeva soprattutto all’individualismo liberale. Nella grandezza di Firenze, Toniolo intravedeva un modello antitetico alla società contemporanea, nella quale egli sottolineava uno squilibrio tra la dimensione economica e quella spirituale.
Il distributismo distingueva invece tra lavoro salariato e piccoli proprietari, insistendo sull’onore e la responsabilità della piccola proprietà privata. Ravvisando in modo drammatico l’esito del percorso liberal-capitalistico, piuttosto che preoccuparsi dell’armonia e concordia tra le classi, i distributisti propugnavano un’azione contrastante lo “Stato servile” (si veda il saggio omonimo di Belloc) verso cui stava conducendo il capitalismo o il socialismo (quest’ultimo inteso, mutuando dalla Rerum novarum, quale falsa reazione alla questione operaia). Ai distributisti non interessava tanto, come invece al Toniolo, una riforma del contratto di lavoro, un’organizzazione corporativa del proletariato, una legislazione più favorevole alla classe operaia, quanto piuttosto un pensiero e un’azione volti a mutare il proletario in piccolo proprietario. Il processo organico verso le corporazioni di classi contrapposte era invece sostenuto da Toniolo in quanto ritenuto, secondo le sue parole: “L’unico valevole a correggere in radice quell’individualismo…che è la fonte permanente dei conflitti di classe e della rivoluzione sociale”. A Toniolo interessava l’ordinamento corporativo in quanto ritenuto capace di spostare il conflitto tra capitale e lavoro dalla prevalenza dell’arbitrio a quella della tutela del diritto. Il punto cruciale del “corporativismo” di Toniolo era la ricomposizione organica del corpo sociale, intesa come organizzazione sociale ampia, gerarchica, compiuta (secondo le medesime parole di Toniolo), mentre nei distributisti era il superamento classista nell’allargamento auspicato di un sempre maggior numero di proprietari. Interessante in tal senso è notare nei distributisti come la “condizione del salariato” sia superata da quella del “piccolo proprietario”.
Fabio Trevisan
SOLIDARISMO E SOCIALISMO CRISTIANO A CONFRONTO
L’economista e sociologo tedesco Heinrich Pesch (1854-1926), teorizzatore del cosiddetto “solidarismo cristiano”, è stato ritenuto da molti studiosi colui che ha gettato un ponte tra l’enciclica Rerum novarum di Leone XIII del 1891 e la Quadragesimo anno di Pio XI del 1931. Per Thomas Storck, autorevole studioso statunitense contemporaneo di Dottrina sociale della Chiesa, Pesch, sacerdote gesuita esiliato in Inghilterra a causa della repressione della Kulturkampf di Bismarck, avrebbe svilupato il suo apostolato sociale avendo constatato le condizioni del proletariato a seguito della rivoluzione industriale inglese. Pesch riteneva infatti, come ebbe modo di scrivere, che l’uomo deve essere sempre soggetto e fine dell’economia e si scagliava, alla stregua del Magistero della Chiesa, contro l’egoismo del capitalismo e contro il collettivismo social-comunista (si veda, ad esempio, il suo saggio: “Liberalismo, socialismo e società cristiana”). Pesch desiderava ardentemente ricomporre il conflitto sociale, determinato dalla separazione tra capitale e lavoro, non solo rifacendosi ad una necessità di concordia tra le classi ma sviluppando il concetto di “naturale interdipendenza”, seguendo così le indicazioni accorate di Leone XIII: “Il capitale non può fare a mano del lavoro o il lavoro senza del capitale”.
Per quanto concerne il “socialismo cristiano”, espressione un po’ equivoca da non confondersi come ipotesi di mediazione tra l’ideologia socialista e la proposta cristiana, un altro padre gesuita, l’italiano Carlo Maria Curci (1809-1891) la intendeva, soprattutto con la sua opera del 1885: “Di un socialismo cristiano nella questione operaia e nel conserto selvaggio dei moderni Stati civili”, come antagonista al socialismo marxista. Il suo “socialismo cristiano” si innestava su ciò che Leone XIII espresse successivamente nella Rerum novarum come necessità delle ineguaglianze, ritenendo, al pari del magistero leoniano, inevitabili le disuguaglianze in seno alla società. Tali naturali disuguaglianze non comportavano affatto un’accettazione passiva delle iniquità e degli squilibri ma, anzi, dovevano costituire un auspicato cristiano e sociale intervento per sollevare le condizioni del proletariato non solo attraverso una più equa retribuzione (il “giusto salario” nel linguaggio di Leone XIII) ma insistendo affinché il lavoro diventasse sempre più umano. Curci, seguendo il pensiero del vescovo di Magonza Wilhelm Emmanuel Von Ketteler (1811-1877), denominato “Vescovo sociale” per il suo impegno apostolico nel sollevare le questioni sociali e morali del proletariato, suggeriva l’aiuto anche dello Stato, attraverso interventi di natura legislativa e amministrativa. Entrambi, data la situazione conflittuale drammatica tra capitalismo e proletariato, sentivano l’urgenza di appellarsi allo Stato per tutelare le classi operaie.
Nel pensiero cattolico anche precedente alla Rerum novarum, considerata giustamente la pietra miliare della Dottrina sociale della Chiesa, la questione operaia era analizzata attraverso proposte che superassero il conflitto sociale, la lotta di classe. La Dottrina sociale cristiana non era concepita solo come impegno caritativo-moralistico per alleviare le molte ingiuste sofferenze ma era orientata alla formulazione di proposte concrete, tutte tendenti a ciò che Carlo Maria Curci osservava: “Fuori delle verità cristiane non vi è che tirannide spirituale e materiale…”.