di Stefano Nitoglia
Il crollo del rial, la moneta iraniana, ha provocato in questi giorni violente proteste a Teheran. L’economia, anche a causa delle sanzioni internazionali contro il programma nucleare iraniano, è in grave crisi. I generi alimentari aumentano in continuazione e occorrono grosse somme in moneta locale per comperare qualsiasi cosa. Le contestazioni sono partite dagli universitari, che si sono visti tagliate le borse di studio, ed hanno coinvolto anche il Bazaar, che fu il motore della rivoluzione del 1979.
Questi avvenimenti, unitamente alla sempre presente questione del programma nucleare, hanno riportato d’attualità il tema Iran e ci pongono due domande. Il dissenso, fino ad ora, è stato sempre represso e non ha sortito alcun effetto pratico. Sarà così anche questa volta? E come è stato possibile che un popolo che vanta un’antichissima tradizione monarchica di oltre 2500 anni e una nazione in cui, fino alla rivoluzione khomeinista del 1979, non vi era una presenza diretta della gerarchia religiosa nelle cose del governo, siano improvvisamente sprofondati nel regime teocratico repubblicano degli Ayatollah, che dopo oltre trent’anni ancora dura?
Per rispondere ripercorriamo brevemente, per sommi capi, la storia dell’Iran, nome attribuito nel 1935 dallo scià Reza Pahlevi all’antica Persia.
Intorno al 1000 a.C. l’altopiano, che da allora è chiamato iranico (il nome Iran è, infatti, derivato dal genitivo plurale antico iranico aryânâm, cioè [terra] degli Arii), viene invaso da tribù indoeuropee provenienti dall’Asia centrale. Verso l’800 a.C. queste tribù si stabiliscono nel territorio attorno all’odierna Shiraz, nella regione che da allora sarà denominata ”Parsa”. In questa regione, attorno al 700 a.C., Achemenide fonda la omonima dinastia. Nel 550 a.C. l’achemenide Ciro II (558-528 a.C.), detto Ciro “il Grande”, conquista la capitale dei Medi, Ecbatana, dando inizio al primo impero universale della storia.
Compiamo un balzo di più di 1000 anni e andiamo al 651 d.C. nel momento in cui Yazgard III, l’ultimo re della dinastia Sassanide, viene assassinato mentre fugge dagli invasori arabi. La Persia diviene in quel tempo musulmana. Un balzo di altri 1000 anni ed arriviamo agli inizi del 1600 d.C. quando con lo scià Abbas I (1557-1629), della dinastia di lingua e cultura turco-azera dei Safavidi, scià di Persia dal 1587, l’Islam sciita duodecimano diviene religione di Stato.
L’imposizione dell’islamismo sciita duodecimano come religione ufficiale è un evento molto importante per la Persia e vediamo perché.
Grosso modo, l’Islam è diviso in due grandi gruppi: l’Islam sunnita e l’Islam sciita. La differenza tra sciismo e sunnismo è fondata oltre che sulle questioni legate alla legittimità o meno dei successori di Maometto, per come vedremo, anche su diverse interpretazioni della storia, della teologia e della legge islamiche e su un difforme elemento temperamentale di fede e devozione[1].
La rivalità tra sunniti e sciiti risale ai primissimi tempi dell’Islam e alla crisi di successione che seguì alla morte di Maometto.
Quando, nel 632 d. C., muore il fondatore dell’Islam, i suoi compagni scelgono come suo successore o califfo il suocero e intimo amico Abu Bakr. Un piccolo gruppo di compagni di Maometto ritiene, invece, che fosse più qualificato per la carica il cugino e genero Alì ibn Abi Talib, che ne aveva sposato la figlia Fàtima. Alla fine prevale la maggioranza e i dissidenti, Alì incluso, accettano la leadership di Abu Bakr.
Ad Abu Bakr succedono Omar, Othman e, infine, Alì. Questi quattro, secondo i sunniti, sono i cosiddetti “califfi ben guidati” o “Rashidun”, la cui epoca rappresenta, sempre per i sunniti, l’età d’oro dell’Islam, anche se di un oro macchiato dal sangue dato che, a parte Abu Bakr, essi morirono tutti di morte violenta per mano degli stessi musulmani.
Per farla breve, l’assassinio di Alì porta i suoi seguaci a contestare la scelta dei primi tre successori di Maometto, ritenendo che solo la nomina di Alì fosse legittima.
Nasce così il “partito di Alì”, in arabo “Shiite-Alì”, da cui la denominazione di sciismo e di sciiti.
Gli sciiti, da allora, riconoscono come califfi legittimi, chiamati “Imam”, soltanto i discendenti di Alì. All’interno della grande confessione sciita, gli sciiti detti “duodecimani” ritengono che il dodicesimo imam Mohammad al Muntasar, detto al-Mahdi (il Guidato), sia celato misteriosamente agli occhi degli uomini (in “occultamento minore” dall’874 e in “occultamento maggiore” dal 940) fino alla sua ricomparsa alla fine del mondo, quando tornerà per instaurare il regno della Giustizia e della Verità che precede il Giudizio.
Nascono, in tal modo, il movimento degli “sciiti dei dodici imam”, altrimenti detto “sciismo duodecimano” e la teologia dell’“Imam Nascosto”.
Se l’Imam è occultato ma presente, qualsiasi altro potere e illegittimo poiché usurpa la sola, autentica, autorità esistente. In assenza dell’Imam Nascosto ogni assunzione diretta del governo da parte delle gerarchie religiose è ritenuta inutile. La teologia imamita, che impone di fatto agli sciiti l’obbedienza al potere mondano sino al ritorno del Mahdi, finisce per relativizzare l’importanza del governante [2]. I religiosi non hanno alcun ruolo politico. La politica è lasciata alle autorità civili. Il sovrano deve essere ubbidito anche se ingiusto e non pio, purché non imponga ai fedeli la negazione della religione.
Questo fino all’avvento di Khomeini. Perché Khomeini, con la sua teoria della “tutela del giureconsulto” (velayat-e faqih) ha imposto una vera e propria rivoluzione nel mondo sciita.
In una serie di conferenze tenute nel 1971, quando era in esilio a Najaf (Iraq), raccolte in un libro intitolato Governo Islamico (Hufoumat-e Islami), la futura guida suprema dell’Islam sciita persiano propone un nuovo modello di governo sciita[3]. Ribaltando la tradizione fino allora imperante, Khomeini sostiene che la funzione propria degli Ulema, i dottori nella legge islamica, fossero Mullah o, meglio Ayatollah, poteva essere svolta nel modo appropriato solo se essi avessero governato.
Non tutti gli sciiti accettarono la nuova teoria. Tutt’altro. Il maggiore oppositore di essa fu il Grande Ayatollah (cioè il massimo esponente della gerarchia religiosa sciita persiana) Abol-Qasem al-Khoi, secondo cui il velayat-e faqih era un’innovazione senza alcun supporto teologico.
Con la presa del potere da parte di Khomeini, che assunse il titolo di “guida suprema della Rivoluzione Islamica”, e la feroce, sanguinosa, repressione di ogni movimento di dissidenza che ne seguì, la paura fece tacere la gerarchia religiosa contraria a tale nuovo indirizzo, soprattutto dopo che, con un gesto senza precedenti, il dittatore privò delle sue funzioni di Grande Ayatollah Muhammad Kazem Shariatmadari, un affronto che nessuno scià aveva mai neppure contemplato.
Sta di fatto che da allora, seppur con numerose resistenze, la teoria della “tutela del Giureconsulto” è divenuta, se così si può dire, il principio fondamentale della nuova costituzione iraniana e fino a quando essa resisterà alle critiche appare difficile, ad avviso di chi scrive, che la situazione politica dell’antica Persia possa cambiare.
[1] Vali Nasr, La rivincita sciita. Iran, Iraq, Libano. La nuova mezzaluna, Milano, 2007, p. 4.
[2] Renzo Guolo, La Via dell’Imam. L’Iran da Khomeini a Ahmadinejad, Roma-Bari 2007, pag. 20. “La credenza nell’Imam Nascosto, che ciascun fedele deve conoscere pena la morte nell’incoscienza di Dio, fonda, dunque, l’estraneità della tradizione sciita nei confronti del Politico”, scrive Guolo (op. cit., pag. 20).
[3] Hamid Enayat, Iran: Khumayni’s Concept of the “Guardianship of the Jurisconsult”, in James Piscatori, Islam in the Political Process, New York, Cambridge University Press, 1983, pp. 160-180.