Nella storia di Alì Babà e i quaranta ladroni, apriti/chiuditi Sesamo è la formula magica scoperta per entrare/uscire da una caverna ricolma di tesori. Anche Kasim, il fratello di Alì Babà venuto a conoscenza del segreto, divorato dalla brama di ricchezze al punto di confondersi con la formula, rimarrà, però, intrappolato nella caverna e, infine, ucciso dai ladroni che scoprono il ladro che sembrava più furbo di loro.
Alle Mille e una notte mi ha riportato la notizia dell’avvio di un percorso che dovrà sfociare in una legge che riconosca la morte volontaria medicalmente assistita, equiparandola alla morte naturale. Credo che ognuno senta (o dovrebbe sentire) la necessità di fermarsi a riflettere su una questione così delicata prima che gli schiamazzi e le manipolazioni intacchino la serenità e l’imparzialità del giudizio.
Ho fermi nella memoria due momenti in cui ho percepito l’imminenza della mia morte. È stato come tornare indietro nel tempo, in una sera di profonda quiete dopo aver bussato a un portale alto, pesante, scuro che aveva la stessa aria solitaria che portano in sé le vecchie porte in una giornata assolata e calda. Quel portale si era aperto infine, e mi ero trovato in un silenzioso vuoto nel buio, consolato da un abbraccio che aveva in sé l’effetto di un lungo sospiro della volontà così tesa nel cammino richiesto per giungere in quel luogo. E così nel momento in cui mi preparavo a morire mi pareva di sporgermi sul vuoto, in un silenzio che era mio, ma in cui intuivo che c’era dell’amicizia per me di là da quel buio, il mio luogo, la mia dimora, la mia Provvidenza. Lì sull’orlo, però, sono stato tratto indietro, perché non lo so.
Predisporre un percorso che sfoci nella morte volontaria non può che indurre l’animo a una rassegnazione tetra su qualcosa andato a male senza rimedio. Allo stato attuale della formazione culturale della nostra coscienza questa prospettiva risulta ancora carica di una certa innaturalità, e anche questo dovrebbe essere oggetto di meditazione.
Spesso siamo indotti a sostenere posizioni, all’apparenza misericordiose, che sfociano in norme che divelgono la coscienza profonda dell’uomo e, ironia della sorte, non risolvono il problema che vorrebbero affrontare, ma lo complicano rendendolo spesso drammatico.
L’esperienza di questi ultimi cinquant’anni ci ha fatto toccare con mano che queste leggi, presentate come “diritti”, sono sostenute e giustificate a partire sempre da situazioni obiettivamente “penose”. È ancora vivo il ricordo della “liberazione” che sarebbe intervenuta con la legge sul divorzio per le povere donne indifese vittime del matrimonio. A decenni di distanza si sono mai visti tanti femminicidi, omicidi e violenze familiari?
Il divorzio, con il relativo sfascio della famiglia, è divenuto un dogma indiscutibile di libertà; non è mai stato certamente voluto Il divorzio come un obbligo, ma è diventata l’opzione più facile. Approvare una legge è come seminare, solo nel procedere del tempo si è in grado di valutare la qualità del raccolto e la reale bontà delle intenzioni di chi vendeva quelle sementi.
Come sappiamo, la coscienza si può formare o sformare e in questi ultimi decenni su alcune questione di profondo impatto sociale abbiamo visto minoranze agguerrite e capaci di manipolazione raggiungere risultati in altri tempi impensabili, si pensi al divorzio, all’aborto o a quello che è successo con il Vaticano II con la conseguente strategia distruttiva del patrimonio della Fede.
Occorre grande prudenza e discernimento verso quanti offrono prospettive ammiccanti, talvolta l’apparente semplicità delle loro proposte nasconde una valenza autodistruttiva. Per molti, e per un qualche tempo ancora, il suicidio, anche medicalmente assistito, è innanzitutto un problema con la vita. Vita che, per una serie di circostanze, è percepita (e vissuta) come esperienza ormai solo più catastrofica.
In generale la prima tappa è far leva su situazioni limite e emotivamente molto coinvolgenti. Una legge che determini la morta assistita attacca il processo alla vita, spesso senza rendere chiaro che è la tecnicizzazione della medicina che determina, in casi numericamente assai contenuti, situazioni umane sull’orlo della disperazione. La seconda tappa è offrire la scelta della morte da parte di chi teme conseguenze nefaste della propria condizione fisica o psichica.
Tutti tacciono del possibile, ripeto: possibile, orizzonte ultimo. Un giorno ci potrebbe giungere una lettera da un ministero che recita più o meno così: da quanto emerge dalla sua tessera sanitaria non ci sono più le condizioni oggettive per continuare la sua vita. Entro trenta giorni si rivolga all’apposito reparto ospedaliero di riferimento per quanto di competenza.
Se si entra nel merito delle situazioni che sono presentate per giustificarne l’approvazione non possiamo che coglierne l’aspetto difensivo nei confronti, in primo luogo, della medicina, dalla quale pretendiamo il massimo dell’efficienza possibile e chiediamo la vita a qualunque costo.
Ma il meccanismo, talvolta, s’inceppa, e ci rendiamo conto di essere sprofondati nella confusione, non sappiamo più cosa fare se non considerare, improvvisamente, quell’alleato insostituibile – la medicina – come un «corpo estraneo» che entra dentro di noi, i pazienti [le parole hanno un’anima. Come si è dimenticata la lezione di san Vincenzo de’ Paoli! Non esisteva paziente per lui, ma il malato, più precisamente “il signor malato”].
La medicina che oggi preferisce presentarsi come erogatore di prestazioni, più che di cure; che ama riferirsi a disturbi più che a malattie è un sistema che a un certo punto si ritiene soffocante e da cui occorre prendere le distanze si vuole arrestare la frantumazione del funzionamento psichico e ripristinare uno status di non sofferenza, almeno così crediamo avendo perso il senso della vita – che altro non può essere che in Dio.
Il mistero di Dio è l’unico luogo in cui è possibile riuscire a capire il nostro essere inermi di fronte a ciò che non comprendiamo. Detto in termini secolari la vita, che credevamo di possedere a nostro piacimento, all’improvviso ci presenta il conto e noi, impreparati, ci sentiamo smarriti perché non riusciamo a conciliare razionalità e un oscuro senso del totalmente altro.
Abbiamo fondato la nostra forza sulle medicine che ci servono, ma scopriamo, però, amaramente che talvolta ci asserviscono. Crediamo come un dogma di fede che si possano vivere molte vite, dimenticando che l’unica che ha senso è la vita interiore.
l percorso che si sta facendo per una legge sul fine vita si presenta come una carta topografica dello sbandamento delle nostre anime, una mappa di un’esistenza (interna e esterna) che solo con fatica è colloquio, per lo più è somma di voci. Una presa di consapevolezza che la tecnica ci ha messo con le spalle al muro e ora sembra offrirci il modo per sopprimere l’uomo che ci ha fatto diventare.
Per il momento rimane (ancora) nella percezione comune considerare il nostro corpo come un organismo, un insieme armonioso di elementi che fanno parte integrante di noi e sono un po’ come il cuscino su cui si appoggia l’anima, l’atto creato di Dio, il nome che occupiamo dentro di Lui.
Non più però in modo così certo. Le nuove frontiere di sostituzione degli organi malati erodono questa consapevolezza dell’essere un organismo, un’armonia e noi ci troviamo in un qualche modo come disossati in pezzi intercambiabili (commerciabili?) e infatti al termine organismo si preferisce sostituire l’espressione corpo potenziato. Si dovrebbe osservare a fondo il ritratto che ne esce, il suo riflesso nello specchio; le espressioni e i segni che possiamo cogliere sono immagine della vita che viviamo dentro di noi.
L’imminenza della morte ci pone di fronte non solo a noi stessi, ma in primo luogo alla vita interiore, la vita dell’anima, che abbiamo condotto (o abortito) in cerca di libertà.
Quello che mi sembra l’equivoco di una legge sulla morte assistita è il suo estremo tentativo di razionalizzare, la necessità di mettere a posto ogni cosa che appare incerta e che quindi diventa un problema da risolvere. In realtà appare come uno smarrimento della capacità di dialogare con la morte e avendo perso questa sapienza preferiamo eliminare la morte, liberarcene come di fa con un ospite scomodo.
Il vero aiuto potrebbe giungere, invece, dall’accettazione della transitorietà della vita, come parte integrante del cammino verso la morte. Esiste una grande tradizione in tutte le culture d’invito a prepararsi alla morte, un invito non riservato agli ultimi momenti, ma trasversale a tutta la vita e che, per questo motivo, offre una luce particolare e più profonda all’esistenza.
Rispetto a questa tradizione che ci proviene dal passato oggi, il bisogno di legiferare (con tutte le ricadute e gli usi che se ne faranno, non bisogna dimenticarlo!) porta in sé un’istanza da prendere in considerazione e cioè la necessità di riconsiderare la nostra onnipotenza, riconoscere e tollerare il nostro limite.
L’uomo tecnico che siamo diventati sta spingendo l’essere umano in situazioni di vita impensabili un tempo. Qui, forse, c’è l’ombra da esplorare. Quando definisco la vita come “mia” l’aggettivo possessivo è tale solo in apparenza, quel “mia” è indicativo della vita che mi è stata affidata. Non l’ho creata, l’ho ricevuta.
Qui scopriamo l’ombra: la vera battaglia della tecnica è nei confronti di Dio e l’ultimo strumento che vogliamo usare per cancellarlo è appunto l’essere umano. Illudersi che non esiste la morte è il grande atto di fede contemporaneo nei confronti della tecnica.
Tutta quest’onnipotenza è scagliata contro ciò che la morte comporta: la resa.
La radice dell’odio nei confronti di Cristo, così profondamente inserito nell’inconscio della nostra cultura, e che la chiesa sta facendo proprio, poggia sull’umiliazione della resa, dell’offerta di sé che Cristo compie nei confronti della morte.
Un tempo la chiesa non si occupava di migranti, ma di anime pellegrine verso la patria celeste; oggi questo è scomparso e ognuno è chiamato a ricordarlo a sé stesso. Ho sempre trovato singolare che una delle preghiere più celebri del cristianesimo,l’Ave Maria, termini con queste parole (Maria) ora pro nobis … in hora mortis nostrae.
Maria è colei che si addormentata nel Signore, si è arresa a Dio così intimamente (fiat voluntas tua) che nel momento della morte il suo corpo si è trasfigurato in Dio. La saggezza dei cristiani ha compreso che in punto di morte la vera grazia da implorare a Maria non è in primo luogo un miracolo per la sopravvivenza – un fare -, ma l’essere presente alla resa, alla consegna di sé a Dio.
Non diversamente da Gesù che, al culmine dell’angoscia, consapevole che doveva morire, nel giardino di Getsemani, non agisce per eliminare l’ansia (sudava sangue), ma si mantiene fermo davanti al Padre in atteggiamento di resa (non la mia, ma la tua volontà sia fatta).
Come non pensare a quelle parole rivolte al profeta Elia (che non a caso verrà nominato sul Calvario) e mai sufficientemente meditate: Il Signore gli disse: «Esci e rimani sul monte alla presenza del Signore, perché il Signore sta per passare». Allora un vento grande e potente dilaniava i monti e frantumò le rocce davanti al Signore. Ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento c’era un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto è arrivato un incendio. Ma il Signore non era nel fuoco. E dopo il fuoco – una voce calma e sommessa. (I Re 19, 10-12).
La morte ci chiede un capovolgimento che ci spaventa perché, abituati come siamo a rapportarci all’esistere, in quel momento siamo inevitabilmente costretti a confrontarci con l’Essere. La morte, inoltre, è anche un problema, non irrilevante, di consuetudine con la solitudine. Passaggio arduo in un contesto come il nostro posto sotto l’insegna della frenesia che è la nostra modalità di contenimento della paura, dell’angoscia.
Occorre l’ascesi della riscoperta della lentezza, dei tempi normali dello sviluppo umano. Trovare il tempo per la riflessione al passo tranquillo di una passeggiata in prato che prima di essere esperienza pacificante è confronto con se stessi, cioè con ciò che oggi soprattutto è alienato e estraneo dentro di noi: Dio.
Intervenendo sulle modalità della vita (sia all’inizio che alla fine) ci pare di avere in mano la formula magica della vita. Ne entriamo e usciamo sempre più sicuri di noi stessi e del tutto spavaldi.
Voglia il cielo che non rimaniamo irretiti anche noi, come Kasim. Dimentichi della nostra creaturalità, corriamo il rischio di essere avvinghiati in una caverna scambiando per ricchezza quella che si rivela una morte ancora più crudele: il niente…