STORIA DI UN INFELICE
di Attilio Norcia
Sabino avrebbe potuto essere un uomo molto felice. Viveva in una graziosa cittadina dell’Italia meridionale, una provincia tranquilla dove l’esistenza è stata regolata da ritmi sempre uguali a se stessi. Il lavoro, la famiglia, la Messa domenicale, le partite di calcio. Una vita tutto sommato tranquilla anche se ripetitiva. In un’epoca in cui vengono esaltate la creatività e i ritmi frenetici non si può certo affermare che Sabino fosse un uomo di successo, ma si accontentava. Occupava una posizione sociale rispettabile, stimato professore di matematica della locale scuola media “Giovanni Pascoli”. Una bella famigliola, una moglie e quattro bambini, non gli avevano di certo mai fatto mancare affetto e comprensione. La sua era una famiglia monoreddito, come tantissime nel meridione, ma la casa di proprietà e il basso costo della vita avrebbero dovuto tranquillizzare Sabino e aiutarlo a condurre un’esistenza monotona, forse mediocre, tuttavia sicura. Tuttavia egli non trovava pace: sorrideva certo, anche troppo, mostrava un volto gentile, riusciva ad essere stimato nella vita e a scuola, ma un velo di malinconia affliggeva il suo animo. L’unica cosa che gli dava gioia era un piccolo segreto che coltivava nell’intimo. Cercava, infatti, sempre di mandare a letto presto la famiglia. Diceva alla moglie che i programmi televisivi erano diseducativi, che i bambini potevano rimanere scandalizzati da immagini violente e oscene, per le quali nutriva una sincera avversione. La moglie ascoltava tutto ciò che diceva il consorte; aveva ormai inconsciamente presa l’abitudine ad una cieca obbedienza.
Così Sabino poteva finalmente scatenare le sue passioni, viverle senza inibizioni nelle buie e piovose notti autunnali. Si chiudeva nel suo vecchio studio, donato al padre da un notaio amico di famiglia, apriva il cassetto centrale dello scrittoio, gelosamente chiuso a chiave, e iniziava a guardare un libricino in cui riportava, meticolosamente, ogni singola spesa giornaliera. Con suprema gioia constatava che, anno dopo anno, nonostante l’inflazione le sue uscite rimanevano costanti, anzi spesso diminuivano leggermente. Calcolare che alla fine del mese le spese erano state inferiori a quelle del mese precedente era una gioia, un piacere che diventava sempre più morboso e ossessivo. Sabino amava accumulare denaro, era l’uomo più tirchio del mondo. Elevava la sua avarizia a virtù, la chiamava parsimonia. Aveva inculcato ai suoi il senso del risparmio familiare, che serviva a mantenere in ordine il bilancio statale (e non mancava di leggere enfaticamente, quando comparivano, gli articoli di giornale che esaltavano tale funzione), censurando tutto ciò che invece incentivava i consumi. I familiari lo seguivano fiduciosi: non andavano al mare perché le donne in bikini, quelle sfacciate, avrebbero potuto corrompere la morale dei bambini, anime innocenti; evitavano gli spettacoli cinematografici, fonte di immoralità; meglio poi non comprare ai ragazzi alcun romanzo, ma farselo prestare da qualche amico che lo aveva già letto – ovviamente solo per sapere in anticipo se conteneva descrizione scabrose…
Insomma, nonostante un buon stipendio e una discreta quantità di lezioni private, Sabino piangeva miseria: «Quello non mangia per non defecare», ripeteva nel suo pittoresco idioma un anziano bidello che lo conosceva bene. Non aveva bisogno di quel denaro, non voleva acquistare nulla: non gli piacevano le belle automobili, i viaggi, gli abiti di buona qualità, gli arredi eleganti. Si considerava uno Spartano, ma a differenza degli antichi Lacedemoni, provava grande gioia nell’accumulare denaro. Era felice quando lo contava, quando lo versava in banca senza dare nell’occhio, quasi che nascondesse una relazione adulterina alla moglie.
Tuttavia non gli bastava mai, studiava sempre nuovi sistemi di “parsimonia” per tirare avanti, c’era l’inflazione, diceva alla moglie. Iniziò pertanto a chiedere qualche pacco dono alla Caritas, dove lavorava un suo amico di vecchia data, che da buon democristiano era sempre pronto ad aiutare gli amici, indipendentemente dal bisogno. Raccattava vestiti vecchi presso amici e conoscenti. Era riuscito a raggiungere la ragguardevole cifra di oltre cento cravatte. Ma per fare ciò doveva uscire sempre più allo scoperto, esporsi alle critiche di una pubblica opinione provinciale e pettegola. Sabino decise tuttavia di non farsi influenzare, aveva il sostegno della famiglia, e poi che gli importava di quelle convenzioni piccolo-borghesi, di quegli ammiccamenti umoristici, di quei risolini mal celati?
La prova del nove arrivò in occasione di una Prima Comunione, alla quale era stato invitato. Il banchetto conviviale fu molto abbondante e gli invitati, una ventina in tutto, gettarono la spugna dopo gli svariati antipasti ed il triplice primo piatto. All’arrivo dei secondi Sabino fu preso da un grande dilemma. Tutti quei vassoi intatti solleticavano la sua parsimonia, avrebbe evitato di comprare la carne per almeno tre settimane. E poi c’erano anche i contorni! Che peccato abbandonare tutta quella bella roba! Si alzò e facendo intendere che voleva portarlo ad una famiglia bisognosa di sua conoscenza, iniziò a raccogliere quelle delizie. Tutti compresero che quel cibo non sarebbe stato destinato ad altra mensa che la sua, ma Sabino volle ignorare le occhiate critiche e i pettegolezzi dei commensali. La moglie era con lui e questo lo faceva sentire forte.
Le cose andavano quindi bene, finché un bel giorno telefonò ad un suo vecchio compagno di scuola, un barone discendente da una antica famiglia del posto che viveva nella capitale. Gli rispose il fratello e seppe che l’amico di gioventù aveva preso i voti ed era andato a vivere in un monastero dopo aver donato tutti i suoi averi ai poveri. Sabino rimase scioccato, posò la cornetta del telefono senza nemmeno congedarsi. Non riuscì a dormire quella notte. Si interrogò sulla sua vita, stava forse sbagliando? La sera successiva, fredda (ormai risparmiava anche sul riscaldamento) e piovosa, mandò la famiglia a dormire ancora più presto. Si chiuse nello studio, aprì il cassetto con il cuore che gli balzava in gola. Era l’ultimo del mese: trasse le somme delle spese dei trascorsi trenta giorni e quando dalla contabilità risultò un notevole risparmio alla voce “cibo”, si rasserenò. Era tempo che non abbassava così tanto le proprie uscite! L’emozione fu grande: come aveva potuto dubitare! Calcolò l’ammontare presente sul proprio libretto di risparmio; con esso avrebbe potuto offrire ben più che una lauta cena a tutti i poveri della città – se lo avesse voluto! Si chiese se aveva fatto bene a portarsi via tutto quel cibo, alla festa della Prima Comunione, a trattenerlo per sé… Ma sì! Sarebbe stato sicuramente buttato via, se non lo avesse preteso per sé… Andò a letto più sereno e la mattina seguente si alzò fresco e riposato: iniziava un altro bel giorno di grettezza e di risparmio. In fondo, anche il suo collega di religione sosteneva che l’avarizia non era il peccato più grave, almeno in confronto con la lussuria. Ma Sabino fingeva di non ascoltarlo quando il docente proseguiva affermando che era altresì uno dei più difficili da sradicare dall’animo di chi la coltiva.