Sopravvivere al “secolo della solitudine”

Siamo nel “secolo della solitudine”? L’immagine indubbiamente suggestiva è di Noreena Hertz, economista e saggista inglese, autrice del libro The lonely Century: How Isolation Imperils Our Future, appena uscito in lingua inglese. In un’intervista su “Repubblica”, lla Hertz denuncia “le perversioni del capitalismo e dell’individualismo” e la perdita del senso di comunità e di aggregazione, come i partiti, i sindacati e i quartieri (oggi in preda al multiculturismo d’importazione) che favorirebbero il legame tra solitudine, populismi ed estrema destra, facendo loro guadagnare consensi. Secondo la Hertz il consenso a Jean-Marie Le Pen sarebbe molto alto tra le persone solitarie o abbandonate. Stesso discorso per i sostenitori del Pvv olandese, Donald Trump, Matteo Salvini.

“Buttarla in politica” rischia però di ingenerare qualche confusione. Così come confondere aspetti patologici, cause reali e possibili palliativi. La questione è evidentemente più complessa, con risvolti a dir poco inquietanti e non solo per la sanità americana e per quella britannica, dove le conseguenze fisiche e mentali della solitudine gravano sui rispettivi bilanci con importi miliardari.

A New York molti professionisti stanno dilapidando i loro patrimoni per affittare “amici a pagamento” (tariffa oraria quaranta dollari) in grado di alleviare lo stress da solitudine. Gli psicofarmaci vanno per la maggiore. In gran Bretagna il sessanta per cento degli impiegati non si rivolge la parola e tre quarti dei cittadini non conoscono il nome del proprio vicino. L’ex premier Theresa May, nel 2018, aveva creato perfino un sottosegretariato alla solitudine. Ma senza risultati.

Come ha notato Noreena Hertz, in un incontro con la stampa estera di Londra “Non basta una nuova istituzione per sconfiggere il problema. La solitudine fa parte di un ecosistema e deriva da cause strutturali. E’ inutile creare una posizione ad hoc se allo stesso tempo il governo decide di chiudere le biblioteche comunali e tagliare i centri ricreativi che forniscono un sostegno a molte persone”.

I numeri, del resto, delineano un fenomeno diffuso, che dai Paesi nordici ha invaso anche l’Italia. Nel Regno Unito oltre 1,2 milioni di persone soffre di solitudine cronica. Ma  secondo le rilevazioni Eurostat, il 13% degli italiani non ha nessuno a cui rivolgersi in un momento di difficoltà e il 12%  non sa con chi confidarsi. Sono numeri che l’emergenza Covid ha reso ancora più rilevanti.

La solitudine non è però solo figlia di questo nostro tempo, fatto di virus, di lockdown, di smart working. Essa appartiene piuttosto all’ideologia individualista che ha informato l’ultimo ventennio del Novecento, proiettando le sue ombre sul Terzo Millennio. È molto più di un sistema economico. È una mentalità che ha permeato i popoli, destrutturando le società e uccidendo la politica. I palliativi, come visto, servono a poco, laddove la questione ha i tratti di una crisi che richiede risposte complesse, in grado di articolare adeguate contromisure.

Non a caso Zygmunt Bauman, il teorico della modernità liquida, segnata dall’incertezza, dalla precarietà, dall’isolamento, ha evidenziato il riemergere della voglia di “communitas”, costruita sui rapporti interpersonali e sul contatto diretto tra le persone (così come teorizzato, alla fine del XIX secolo, da Ferdinand Tönnies) seppure declinata con la “societas”, strutturata sui rapporti a distanza.

In questo contesto, sottolineiamo noi, il “nemico principale” sono soprattutto i processi di disintermediazione attraverso i quali si è realizzato il depotenziamento dei corpi intermedi. Alla base di questi processi c’è l’idea che l’individuo sia il migliore giudice di se stesso e dunque non abbia bisogno di “intermediari”, sia in campo politico che sociale e culturale. Il singolo è così decontestualizzato rispetto alle appartenenze sociali (familiari, territoriali, aziendali, di categoria), diventando il figlio di una società in cui a dettare legge sono l’individualismo e lo sradicamento. Con il risultato di trasformare la solitudine in un tema politico, a tal punto significativo da spingere ad intitolare questo nostro secolo alla solitudine.

L’augurio ovviamente è che ciò non accada. Di ben altre suggestioni abbiamo bisogno e di ben altre speranze, per uscire da questo lockdown psicologico. Soprattutto di risposte a una domanda di appartenenza che va ricostruita in ragione di rinnovati valori fondanti, incardinati storicamente intorno all’idea di famiglia, di Patria, di solidarietà sociale. Più che di palliativi c’è insomma bisogno di esempi e di una nuova consapevolezza collettiva, intorno a cui “ritrovarsi”. E quindi, ben al di là della politica, di una nuova metapolitica, in grado di promuovere e rendere concreta una visione della vita e del mondo alternativa a quella corrente.

1 commento su “Sopravvivere al “secolo della solitudine””

  1. Sarà impossibile risolvere il problema con un progetto pianificato, facendo uso della ragione, con un ripensamento e un ravvedimento all’interno di ogni coscienza individuale. Il sistema dovrà innanzi tutto marcire completamente, solo dopo potrà sorgere una nuova era e solo allora ci sarà un ravvedimento e si comprenderanno gli errori del momento presente.

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