Soltanto chi crede in Dio non ha paura di morire

Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno risolto, per viver felici, di non pensarci…Se ne faccia la prova: si lasci un re completamente solo, senza nessuna soddisfazione dei sensi, senza nessuna occupazione della mente, senza compagnia, libero di pensare a sé a suo agio; e si vedrà che un re privo di distrazioni non è altro che un uomo pieno di miserie”. Così Blaise Pascal definisce quella malattia dell’anima che lui chiama noia, i Padri del deserto akedia, o inedia, e la dottrina cristiana il vizio capitale dell’accidia. Per sfuggirle gli uomini hanno deciso di volgere lo sguardo (de-vertere) altrove: il di-vertimento, la distrazione, la frivolezza, la spensieratezza, l’intrattenimento divengono così l’unico modo per riempire, o meglio, per non guardare nell’abisso del loro cuore. 

In effetti il pensiero della propria condizione umana, creaturale, mortale, impotente e bisognosa potrebbe diventare un efficace e potente mezzo per richiamare l’uomo a conversione (in greco metà-noia). Così infatti ce lo ricorda la Chiesa cospargendoci il capo di cenere al principio della Quaresima: “ricordati uomo, che polvere sei e polvere ritornerai” (Genesi 3,19). Tuttavia questo può avvenire a patto che egli non si “distragga” con l’attesa di una speranza redentiva in questa vita. Vale a dire, se la morte può essere “sconfitta”, o evitata, o anche solo ritardata in questa vita, mediante i “prodigi” della tecno-scienza, una tale possibilità (o miraggio) si trasformerebbe in impegno che assume i contorni di una “speranza escatologica immanente”. Un vero e proprio, direbbe Pascal, divertissement collettivo. 

Dopo più di un anno di ingegneria sociale esercitata su scala globale mediante chiusure improvvise, quarantene forzate, limitazioni delle libertà fondamentali, terrorismo psicologico, ricatti e minacce di nuove segregazioni a causa dei “disobbedienti” o della recrudescenza del “virus” provocata da coloro che rifiutano di accettare i “cambiamenti necessari”, la destrutturazione della scuola e dell’arte medica, la sospensione dello Stato di diritto, la negazione del soprannaturale mediante la chiusura delle chiese, il divieto della preghiera pubblica della Chiesa (la liturgia), il prosciugamento delle acquasantiere e la contestuale sostituzione del sacramentale con il sanificante, l’abolizione della relazionalità umana sublimata nel solipsismo digitale, il relitto umano che emerge dagli acquitrini paludosi di questa “noia indotta” appare uno shakespeariano  “Calibano” addestrato a chiedere il permesso per qualsiasi gesto o attività, la più banale ed essenziale come uscire di casa, invitare un amico, o visitare un ammalato. L’homo selvaticus del Nuovo Mondo post-umano si rivolge a un’entità superiore latrice di vita e dalle cui mani fluiscono benefici, grazie e sostegni, seppur vendicativa e pronta a castigare con giusto sdegno, ma non è Dio.

In questo caso la “noia” di questo tempo pandemonico è divenuta un potente mezzo di conversione alla rovescia. La paura della morte non è servita per pensare all’eterno, per meditare sul destino dell’anima difronte all’abisso del Giudizio Divino ma per appiattirsi ancora di più sul domani, sull’avvenire nel tempo. Quel domani, “giorno maledetto che non esiste – direbbe Kierkegaard – invenzione della chiacchiera e della disobbedienza” a Dio e alla sua legge. Il prodotto umano della pan-daimonìa è quindi un “servo buono e fedele” che essendo fedele nel poco (indossando la mascherina, evitando i contatti umani, isolando gli anziani nella loro vecchiaia, ungendosi le mani con il crisma sanificante per non perdere non l’unzione dello spirito ma l’elezione nel Nuovo Popolo) può legittimamente sperare di avere “parte alla gioia del suo padrone”. 

Un vero e proprio “credente”, dunque, plasmato a un nuovo “decalogo salvifico”, via e speranza di liberazione: se vuoi avere la vita e la libertà osserva le regole! La grande città di Ninive al passaggio di un diverso «Giona» ha fatto penitenza, sì, dai più grandi ai più piccoli, vestiti di sacco e ricoperti di cenere, ma non per convertirsi al suo Dio ma per stringersi ancora più saldamente alle catene del padrone di questo mondo. Per questo il suo destino è segnato: “ritornerà al paese d’Egitto, Assur sarà il suo re, perché non hanno voluto convertirsi. La spada farà strage nelle loro città, sterminerà i loro figli, demolirà le loro fortezze. Ma il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto nessuno sa sollevare lo sguardo” (Os 11,5-7). 

É proprio così. Nessuno sa sollevare lo sguardo. Neanche Pascal avrebbe saputo immaginare un divertissement così efficace per intrattenere l’uomo e distrarlo dal “pensiero” della morte, ovvero, la “paura” della morte. In tal modo la noia e il divertimento si sono fusi insieme tramutando il divertissement nella noia stessa. Il calibano post-umano infatti non sa pensare deve solo obbedire, è un “servo inutile”, eppure dalla sua partecipazione alla pubblica penitenza deriva la sorte e il destino (ecco l’escatologia immanente) dell’intera città. «Chissà – si dicono tra loro – forse così facendo il flagello di sventura che si è abbattuto su di noi ci lascerà in pace?». «Certo! – rispondono i loro compagni – è l’unico modo per uscirne! Ognuno deve obbedire, “convertirsi”, adattarsi e dimenticare la vecchia via, la vecchia vita». «L’avvenire – pensano – sarà ancor più radioso se dimostreremo coerenza, coesione e, soprattutto, obbedienza. Ma dobbiamo fare penitenza! Altrimenti il male non si allontanerà da noi!».

Ed è così che si realizza la migliore e più efficace delle schiavitù, quella interiore. Una prigione per la mente. Uno spettro alchemico capace di mutare la dolcezza in amarezza e l’annientamento in speranza. 

Termine fine corsa del treno. É dunque finito il tempo delle mezze misure. É finito il tempo dei compromessi. É finito il tempo degli accomodamenti teologici e dei gesuitismi etici. Si vanno sempre più e sempre meglio definendo gli schieramenti in campo: con Dio o contro Dio, e quindi, per l’uomo o contro l’uomo.

Un terzo delle stelle è già precipitato ma il dragone rosso infuriato adesso si dirigerà contro il resto della discendenza di Cristo, “contro quelli che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù” (Ap 12,17). E per chi non ha ancora ceduto al “nuovo paradigma” di vita una parola di fortezza risuona come il grido di re Thèoden sui campi del Pelennor: “Non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura!” (Rm 8,15). E il nostro Re, forte, saldo e glorioso “ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù!” (Gal 5,1).

Questa infatti è la vera schiavitù, questa è la vera noia, questa è la peggiore forma di akedia che richiede il sacrificio totale dell’uomo con la sua libertà, i suoi affetti, il suo lavoro e financo la sua fede. Tutto ti è tolto con la noi poiché l’attesa escatologica è irresistibile. E il bello è che molti non se ne sono neanche accorti, perché il divertissement – lo spettacolo – era talmente ben eseguito, i giochi di prestigio così ben confezionati e gli spettatori così poco avveduti che nessuno, o quasi, ha osato sbirciare dietro il sipario. Certamente per molti si è manifestato quel disagio di chi vorrebbe alzarsi di mezzo al teatro per uscire dalla sala ma per non affrontare il disappunto che provocherebbe il suo disturbo interferendo con la rappresentazione preferisce rimanere dov’è, seduto al suo posto, e non distinguersi dagli altri. Alla fine è anche una questione di rispetto.

Per cui adesso comincia a spuntare la qualità e la vera natura della semenza seminata in noi nel vento della “primavera del Concilio”. E come ogni primavera sparge il seme nell’aria, negli occhi e nella terra (cioè nel cuore) ora si farà verità, poiché “la verità germoglierà dalla terra – veritas de terra orta est” (Sal 85,12).

Ma consideriamo davvero la nostra semenza! Grano o loglio? Chi è colui che temiamo? É colui che può toglierci la vita, o “colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10,28)? Vale la pena chiederselo, in Spirito e Verità. É, con ogni probabilità, il miglior affare della nostra vita. Questo è il momento di chiederci in “chi” o in “cosa” crediamo. O in “chi” o “cosa” abbiamo sperato sinora. Poiché “se abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini” (1Cor 15,19). Il Figlio di Dio infatti è venuto “per distruggere, con la sua morte, colui che aveva il potere sulla morte, cioè il diavolo, e liberare tutti quelli che dal timore della morte erano tenuti schiavi per tutta la loro vita” (Eb 2,14-15).

Quid ergo? Noi cristiani dobbiamo forse tremare dinanzi alla morte come tutti gli altri uomini che non hanno conosciuto Dio? L’unica vera paura del cristiano, cioè di chi possiede Gesù Cristo e non ha niente di più caro di Cristo, è quella di perdere Cristo e la sua grazia, e di perderlo eternamente. Non quindi della morte del corpo – “da la quale nullu homo vivente pò scappare” – ma della “morte seconda”. 

É questo il momento per saggiare nel fuoco la qualità della fede: oro o piombo? Non ci vorrà molto perché il pensiero di tutti i cuori sia svelato, ma per il momento non siamo ancora arrivati al capitolo finale di questa saga. 

Una cosa è certa: soltanto chi crede in Dio non ha paura di morire, di perdere il lavoro, di perdere la salute o di perdere la libertà poiché la nostra speranza non è nelle cose di quaggiù ma nelle cose di lassù. Ubi fides ibi libertas. Questo era il motto episcopale scelto dal compianto card. Biffi tratto dagli insegnamenti del suo amato sant’Ambrogio, e la sua eredità resta per noi un faro di luce nella notte oscura delle coscienze: “solo la Fede ci dà la vera Libertà”.

Checché ne dicano i prudenti e gli “equilibrati”, più simili a dei buddisti che a dei cristiani, noi cavalchiamo “verso la rovina, e per la rossa aurora”. Il nostro desiderio infatti ci porta oltre queste miserie, oltre le menzogne e ci solleva nel seno del Padre. Tra noi, infatti, la morte non è una maledizione ma il salto del bimbo in braccio al Papà. “Se sei apostolo – scrive san Josemarìa Escrivà – la morte sarà per te una buona amica che ti facilita il cammino. Gli altri, la morte li blocca e li atterrisce. A noi, la morte – la Vita – dà coraggio e impulso. Per loro è la fine; per noi il principio”. E conclude: “Tu, se sei apostolo, non dovrai morire. Cambierai di casa, e nient’altro”. 

Avanti dunque. Non possiamo distrarci con queste “cosette”. Lasciamo la noia e il divertimento a chi non sa sollevare lo sguardo. Infatti nulla è cambiato, ieri come oggi, i morti seppelliscono i loro morti; ma, tu e io, andiamo a morire con Lui.

6 commenti su “Soltanto chi crede in Dio non ha paura di morire”

  1. Prima di morire con Lui devi vivere con Lui e Lui ti chiede di morire per Lui e non con il covid! Al pompiere non gli si chiede di entrare nelle fiamme senza la tuta e l’elmo! La Chiesa e’ sempre stata presente negli ospedali senza contrapporre ad essi la sola fiducia in Dio! Qualcuno mi dovra’ ancora dire come avrebbe affrontato l’ epidemia rscludendo le norme basilari della medicina: l’isolamento e la protezione! Contagio e contatto hanno la stessa radice!

    1. ALLORA IO DEVO ESSERE UN EXTRATERRESTRE se dopo non aver usato le norme del kgb sono ancora viva. Eescludendo un breve tempo di prudenza, chi ha cominciato a spiegare come stavano le cose è stato demonizzato. io soffro di insufficienza respiratoria e non mi sono mai messa lo scafandro e non ho avuto MAI niente di quello che hanno detto. Ma lei come altri avrà pensato che erano tutti complottisti e si è lasciato infinocchiare Ora che la gente cade per terra stecchita e la verità la sanno anche i sassi, ostinatamente difenderete gli assassini per non ammettere di essere stati usati e cosi essi escogiteranno nuovi modi per tenerci sotto controllo. Rafforzare il sistema immunitario é salute, ma loro non vogliono, ancora non ha capito che lei è malato anche quando non lo è? E cosi a parer mio sono le persone come lei, la vera calamità, megafoni di regime!! Dovete vedere con che espressioni se la raccontano sulla malattia . Io ho vissuto oltre un ventennio dentro gli ospedali, la malattia esiste è multiforme rassegnatevi. Non avete mai pensato che le diverse forme di corona visus ci veniva propinato ogni anno, con effetti diversi , che essi conoscevano prima ancora che si manfestassero? E non morivano anche allora? Qualcosa gli è sfugggito di mano e adesso sono senza controllo chi si fida più di questa gente? Cosa è diventata la sanità oggi? Un lager!! Continui a portare la ffp2 con 34 gradi sempre che sia ancora vivo, e la natura accetterà il suo no con immeno piacere. Il Signore ci salva , ma alcuni si ostineranno per non esere aiutati!! Pax

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