Qualche giorno fa su un giornale tra i più venduti è comparso un articolo che spiegava perché dire “carne sintetica” è sbagliato. Non l’ho letto, ma non metto in dubbio che buone ragioni ce ne saranno e che la scienza, per mezzo dei luminari che abbiamo imparato a conoscere in questi anni, saprà essere chiara a riguardo. Da parte mia, non so perché, sono convinto che dire “carne coltivata” sia peggio, un ossimoro che confonderà ancora di più la mente, già compromessa da anni di lotta feroce alla ragione umana, dei tanti che lo faranno proprio.
Gli addetti alle operazioni di costruzione della neolingua sono sempre al lavoro e bisogna riconoscere loro un’intelligenza funzionale che desta qualche forma di sconsolata ammirazione. Talvolta, però, il laboratorio riesuma vecchie parole che nessuno si sognerebbe più di fare emergere dal dimenticatoio se non servissero agli scopi eversivi di un pugno di plutocrati con la fissa innocente di distruggere la società per rifarne una nuova e che, a questo scopo, dedicano tutte le loro sovrabbondanti risorse.
In queste ultime settimane, ne è stata tirata fuori una che non vorrei nominare, perché non mi piace farmi dettare l’agenda, vorrei decidere io quali parole usare e in quali occasioni. Ma va bene, per questa unica volta: patriarcato.
In nome di questa parola, per condannare qualcosa che nei fatti non esiste più e di cui molti ignorano il significato, sono scesi in piazza migliaia di giovani. Oggi i ragazzi scendono in piazza non contro, ma a comando dei potenti. Vengono perfino esercitati ai due minuti d’odio di orwelliana memoria. Per ora è stato sperimentato “il minuto di rumore” con il pretesto di ricordare la povera vittima di un fatto di cronaca nera. Può essere che un giorno queste manifestazioni saranno prescritte per legge. Oggi contro il maschio cattivo, domani di nuovo contro il no vax, dopodomani contro il negazionista climatico, chissà.
Questo minuto di rumore fa il paio con l’usanza degli applausi ai funerali in voga ormai da anni, solo uno dei molti modi in cui si manifesta il rovesciamento delle norme di rispetto del dolore e della morte, di decenza, di normale convivenza umana che sono state in vigore per secoli fino ai tempi bizzarri che oggi viviamo.
Insomma il mondo al contrario, per richiamare il titolo di un libro che ha avuto recentemente tanto inaspettata quanto ingiustificata fortuna se dovessimo giudicare solo in base alla scarsa qualità della scrittura e alla rozzezza dei concetti lì espressi. L’autore, così ho sentito, non esclude di entrare in politica. Per intanto si è limitato ad apparire nella prima pagina di un noto periodico popolare e in qualche trasmissione televisiva.
Apparire. Uno dei verbi più significativi per capire questo nostro spirito dei tempi. Se non appari non sei. È un’ansia che si manifesta in tanti modi, che il mondo della rete contribuisce a causare e allo stesso tempo placa, attraverso i cosiddetti “social” che consentono di mostrare le foto più belle e i momenti migliori della vita privata, qualche volta voluti migliori proprio in vista della pubblicazione su internet. Le virgolette sono ben messe perché questi luoghi virtuali di sociale hanno ben poco, e costituiscono invece formidabili potenziali mezzi di separazione fisica e mentale, in definitiva di alienazione.
Insieme ai social, la televisione è ancora oggi uno strumento potente per condizionare il modo di sentire, per ricreare la realtà mentre sembrerebbe limitarsi a documentarla.
Non vi è sentimento umano, rabbia, amore, dolore che la telecamera posta di fronte a una faccia d’uomo non riesca a distorcere. Che non porti invariabilmente il soggetto inquadrato dall’implacabile occhio a fingere, straniarsi da sé , in altri termini a recitare. Può accadere perfino in quei programmi dove si pretenderebbe di filmare la vita in diretta, come quando si entra nella casa di un indigente per mostrare come vive, si intervistano giovani ladri impuniti, oppure si chiede cosa provano ai parenti dell’ucciso a cadavere ancora caldo. Talvolta questo viene chiamato impropriamente diritto di cronaca.
Sebbene le possibilità di manipolazione offerte dai moderni strumenti di comunicazione di massa siano state studiate a fondo fin dal secolo scorso e gli studiosi più avveduti ce ne avessero avvertiti, credo che neppure loro avessero previsto la vera e propria mutazione antropologica che ne è derivata, che va ben oltre la strategia per lanciare un nuovo prodotto, o convincere la popolazione a schierarsi per un partito od un altro.
In un suo raccontino, “Papà va in televisione”, incluso nella raccolta L’ultima lacrima, Stefano Benni aveva già colto trent’anni fa la prevaricazione che esercita la telecamera, mostrandoci in chiave grottesca gli effetti provocati in un condannato alla sedia elettrica e nei famigliari e amici che assistono all’ esecuzione in diretta:
“La signora Lea ha pulito lo schermo del televisore con l’alcol, c’ha messo sopra la foto del matrimonio, ha tolto la fodera al divano che ora splende in un vortice di girasoli… i tre figli la guardano mentre controlla se tutto è in ordine, si tormenta i riccioli della permanente e becchetta coi tacchi sul pavimento tirato a cera. Non l’avevano mai vista in casa senza pantofole.”
Quando il condannato, il signor Augusto, compare in televisione, i familiari e gli amici applaudono e si commuovono:
“guarda com’è tranquillo – dice la Mariella – sembra che non abbia fatto altro tutta la vita. È persino bello. – Mi sa che riceverà un sacco di lettere di ammiratrici – dice Mario. La moglie lo rimprovera con lo sguardo. – Ecco, si siede. Guarda che bel primo piano. – Vecchio Augusto! – dice Mario un po’ commosso -chi l’avrebbe mai pensato! – Oh no – dice la Mariella – la pubblicità proprio adesso.”
I tecnici della tv restano impassibili testimoni, è il loro lavoro, consigliano al condannato la giusta inquadratura. Il signor Augusto si preoccupa di non essersi lavato i denti, i politici e i commentatori televisivi litigano in studio:
“- Io – dice il senatore – vorrei dire come prima cosa che sono contrario a quest’uso della diretta. – E allora cosa ci fa qui sepolcro imbiancato? – urla Schizzo. – Come al solito lei e quei porci parassiti del suo partito vi attaccate agli avvenimenti, ma non volete pagar dazio…”
Finché non arriva il momento dell’esecuzione:
“Siamo al momento tanto atteso. Schizzo e Carretti, silenzio per favore, qualcuno li separi! Vedete il volto del condannato. Un volto mediterraneo. Il volto di uno come noi. Si è rasato. Ha cenato un’ultima volta: risotto col tartufo e vino bianco. E ora è qui, davanti alla sua e alla nostra coscienza. Il tecnico sta avviando il conto alla rovescia. Potete vedere i secondi scorrere in alto sul video. Siamo a meno quindici secondi. Ricordiamo che, chi vuole, fa ancora in tempo a spegnere il televisore. È vostra facoltà assistere o no: questa è la democrazia. Siamo a otto secondi… Osservate bene le luci sopra la sedia. Quando si accenderanno tutte e tre vorrà dire che la scossa è partita. Meno tre secondi… due… uno.”
Poi la tv chiama a casa della famiglia del condannato, risponde la figlia:
“Mio fratello sta facendo dei salti sul divano, il signor Mario sta bevendo il whisky, la mamma piange con la testa sulle ginocchia della signora Mariella. Molto? Sì, mi sembra che pianga molto. Io? Io sto al telefono con lei, no? Sì, mi chiamo Lucilla, mi raccomando con due elle, non Lucia, che a scuola si sbagliano sempre…”.
Benni ci scherza su, ma per il momento conserviamo ancora la libertà di dire no a certi spettacoli, di spegnere il televisore se vogliamo. Non è facile sfuggire al bombardamento mediatico, ma almeno proviamoci.