Sindrome di Peter Pan, tecnicamente nanotenia psichica, è la condizione di chi è incapace di crescere, diventare adulto e assumere le responsabilità della vita, e si rifugia in comportamenti tipici della fanciullezza.
di Roberto Pecchioli
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“Seconda stella a destra: / questo è il cammino / e poi dritto/ fino al mattino. Non ti puoi sbagliare perché / quella è l’isola che non c’è”. E’ l’incipit della bella canzone di Edoardo Bennato, L’isola che non c’è, Neverland, la terra di fantasia dove vive la sua eterna infanzia Peter Pan, il fanciullo che non vuole crescere, a capo della banda dei Bimbi Sperduti. Sindrome di Peter Pan, tecnicamente nanotenia psichica, è la condizione di chi è incapace di crescere, diventare adulto e assumere le responsabilità della vita, e si rifugia in comportamenti tipici della fanciullezza. Non vi è dubbio che la definizione calzi perfettamente al tipo umano più diffuso nelle generazioni formatesi nell’ultimo mezzo secolo, un eterno adolescente collettivo che sembra interrompere bruscamente il normale sviluppo interiore all’età in cui si lascia la condizione di ragazzi e si assume quella di adulti: un’eterna adolescenza, la vita come gioco, vacanza, una ricreazione illimitata, un programma Erasmus lungo quanto l’esistenza.
Un tipo umano, l’odierno Peter Pan, che banalizza anche la profonda intuizione di Johann Huizinga sull’Homo ludens e sul gioco come fondamento dell’organizzazione sociale. Anche gli animali giocano, afferma Huizinga, dunque la dimensione ludica rappresenta un fattore preculturale comune a tutti gli esseri senzienti. L’animale, tuttavia, privo di pensiero astratto, gioca dopo aver risolto autonomamente il problema quotidiano della sopravvivenza ed aver procurato il cibo per sé e per la prole, né pretende di rimanere cucciolo per sempre. L’uomo contemporaneo, al contrario, fa dell’adolescenza, tempo della crescita e della formazione psichica, fisica e comportamentale all’età adulta (bildung), l’unica dimensione esistenziale sopportabile. Il resto è fastidio, noia, obbligo.
Secondo lo scrittore e saggista americano Joseph Epstein, in un momento determinato della storia la società ha smesso di considerare la giovinezza come un fase transitoria della vita, una tappa che ciascuno era destinato a lasciarsi alle spalle. Si cominciò a idolatrare la gioventù, a conferirle un elevato statuto morale. Iniziò così il trionfo dell’adolescenza, trasformandola in una condizione permanente. Questo cambiamento critico della psicologia sociale viene generalmente situato tra gli anni 60 e 70 del Novecento, ma c’è anche chi va molto più indietro nel tempo, e ritiene che il processo di trasformazione risalga al dopo prima guerra mondiale. Stefan Zweig, sensibilissimo scrittore austriaco di fine impero descrisse così nel “Mondo di ieri” l’improvviso cambio di mentalità – Thomas Kuhn direbbe il mutamento di paradigma – che ebbe luogo nel decisivo periodo tra le due guerre.
“La generazione intera decise di farsi più giovanile, tutto il mondo, al contrario dei miei padri, era orgoglioso di essere giovane. Prestissimo scomparvero le barbe, prima tra i più giovani e dopo tra gli anziani, che imitavano i primi per non apparire vecchi. La consegna era essere giovane e vigoroso, farla finita con apparenze dignitose e venerabili. Le donne gettarono nella spazzatura i corsetti che stringevano i loro petti, rinunciarono a cappellini e velette, poiché adesso non temevano l’aria e il sole, si accorciarono le sottane per poter muovere meglio le gambe quando giocavano a tennis e ormai non si vergognavano di lasciarle allo scoperto e esibirle. Gli uomini indossarono calzoncini, le donne osarono montare a cavallo come gli uomini, nessuno si copriva o nascondeva agli altri. Il mondo si era fatto non solo più bello, ma anche più libero”.
Non vi è dubbio che, qualunque sia la data d’inizio del fenomeno, il cambiamento si è ormai consumato da tempo. All’inizio, come lo visse Zweig al suo tempo, esso suppose un aumento della libertà. Gente di ogni condizione si liberò dei vecchi tabù che avevano condizionato le generazioni precedenti. E gli uni e gli altri lo fecero, in buona misura, in quanto incolpavano della catastrofe della Grande Guerra le antiche tradizioni e le rigide idee del passato. Velocemente, tutto il vecchio fu scartato, rifiutato, obliterato. Le nuove generazioni, con il loro incontenibile entusiasmo liberatore, trascinarono con sé padri e nonni.
Lo stesso Zweig, in un certo modo, si vide trascinato dall’ottimismo di quella forza trasformatrice. Dall’ingenuità della sua visione allucinata di artista, e privato della prospettiva del tempo, si lasciò sedurre dalla tempesta della postmodernità, convinto che quel cambio sarebbe stato la garanzia che l’Europa non avrebbe più commesso gli errori che condussero alla mattanza su scala industriale iniziata nel 1914 e finita con la distruzione degli imperi. Come lui, le nuove generazioni credettero che, sradicato il vecchio principio di autorità (Dio, Re, padre) avrebbero evitato ogni pericolo di autoritarismo. Come sappiamo, si equivocavano tutti. Per disgrazia, il futuro avrebbe presto chiarito che quell’eccesso di ottimismo era stato un grave errore. L’insorgenza dei totalitarismi a partire della rivoluzione bolscevica del 1917 era infatti intimamente legata alla demolizione del vecchio ordine morale e politico.
Anni dopo il suicidio di Stefan Zweig, fu Hannah Arendt a far luce sull’enigma, spiegando che l’autorità dei genitori, ovvero della famiglia tradizionale, era storicamente servita come modello per svariate forme di gerarchia e di governo. Pertanto, rimuovendo con la forza il vecchio ordine e stigmatizzando tutto il passato, fu posta in questione e revocata anche questa forma di autorità ancestrale. La sua decadenza determinò la perdita del valore di tutte le metafore e convenzioni accettate nelle relazioni di autorità. Per questo, secondo la Arendt, oggi non siamo più in condizione di sapere che cosa è davvero l’autorità.
Molti dei fatti sociologici che ci sorprendono affondano le radici molto al di là della politica, caratterizzandosi per una forte componente di infantilismo che ha pervaso l’intera società, a partire, appunto, dalla perdita del senso dell’autorità. Una delle più strane espressioni del nuovo pensiero post moderno è il cosiddetto “diritto a decidere”. Nel tempo corrente, nessuno sembra disposto ad accettare che la sua vita sia condizionata oltre i suoi stretti desideri. Per quanto bizzarri o capricciosi, ciascuno di essi, individualmente o collettivamente, può e deve essere scelto come atto di volontà. Ciò anche se quella volontà va contro l’evidenza. Milioni di Peter Pan interpretano ogni rifiuto opposto ai loro desideri come autoritarismo intollerabile.
Nel fondo c’è forse un miraggio, un specie di fonte della gioventù disponibile gratuitamente per tutti che ha tolto di mezzo, ridicolizzato, la figura dei saggi, titolari di quella autorevolezza (quindi autorità implicita) che tutta la comunità, a partire dalla famiglia, riconosceva tacitamente, senza violenza, obbligo, coazione. Oggi, in realtà, molti vedono nuove imposizioni, o, peggio ancora, aggressioni al loro benessere o tranquillità, ma si limitano a cercare consiglio a pagamento presso i mezzi di comunicazione, gli psicologi, i libri di auto aiuto, gli esperti di varia umanità a tariffa oraria. Tuttavia, ben difficilmente la pletora di esperti può sostituire i genitori e i nonni, la saggezza comunitaria. Anche per questo il mondo diventa ogni giorno più immaturo, adolescente, timoroso di crescere, dipendente.
Adolescenti perenni, i novelli Peter Pan vivono con navigatore esistenziale GPS incorporato, ma sono del tutto privi del vecchio coraggio della giovinezza. La generazione Erasmus con il trolley in mano, la guida turistica dei locali della movida e l’app dei voli low cost, banalmente cosmopolita, sovreccitata, spesso viziata e comicamente emotiva, e prima di essa i fragili genitori, non è disposta a nulla per una causa. Tanto meno a rischiare non diciamo la vita, ma neppure il suo denaro per qualcosa.
Un esempio recente: nella grave crisi catalana un elemento colpisce: l’assoluta indisponibilità dei fautori dell’indipendenza della regione di Barcellona ad andare fino in fondo. I capi dell’indipendentismo hanno compiuto precipitose marce indietro su atti e convinzioni appena hanno realizzato che ci sarebbe stata la reazione dello Stato, tanto sul versante penale che su quello patrimoniale. Le folle oceaniche delle manifestazioni si sono ritirate in buon ordine per identici motivi. Per un verso meglio così, certo, lo spargimento di sangue è sempre terribile, ma quale nobiltà o forza ha una causa in nome della quale nessuno è disposto non diciamo a morire, ma nemmeno a rischiare il conto corrente, e quale senso hanno vite indisponibile a lottare per qualcosa?
Nella società adolescente è possibile vivere così, giacché le conseguenze non sono tollerate e neppure contemplate. I graffitari delle strade si indignano se qualcuno pretende di cancellare i loro scarabocchi facendo pagare il conto ai responsabili. Alcuni giovani, ahimè, sono arrivati all’autolesionismo e persino al suicidio, negli ultimi tempi della leva militare obbligatoria, in quanto incapaci di sopportare la disciplina e l’assenza dei genitori. Quei genitori che si lasciano comandare dai figli per non inibirli con l’autorità. Poi si è ragazzi anche a quarant’anni, e gli altri imitano pietosamente i giovani in atteggiamenti, condotta, abbigliamento, linguaggio. Fu Platone ad accorgersi per primo, quasi duemila cinquecento anni fa, dei guasti prodotti dalla perdita dell’autorità e dell’inversione delle scale gerarchiche.
A scuola, da decenni si evita l’apprendere a memoria in quanto fastidioso, noioso ed addirittura inutile, ma è al contrario la capacità di concentrazione e di memorizzazione di passaggi fondamentali di ogni materia quella che permette alla semplice conoscenza di diventare istruzione e poi cultura, così come la disponibilità ad affrontare il sacrificio, il differimento delle sensazioni piacevoli è la chiave per ottenere qualcosa di forte e duraturo. No, tutto deve essere facile, concentrato in sbrigativi appunti, mille Bignami e libretti di istruzioni di cui, a forza di ignorare i fondamenti della lingua e l’Abc dei lessici tecnici scientifici delle varie discipline si finisce per non capire nulla.
Ogni comportamento, anche quelli più gravi e degni di riprovazione e castigo è attenuato, derubricato a ragazzata da comprendere, inserire “nel contesto”. Nessun crimine, nessuna pena, solo la promessa da marinaio di non farlo più, tranne, ovviamente, se si tratta dei comportamenti che il pensiero dominante ha elevato a nuovi tabù. Pensiamo al sessismo, alle “molestie” su cui si sta edificando una campagna che tutto è fuorché il giusto rispetto per le vittime, alle parole, alle idee considerate insindacabilmente discriminazione a carico di qualcuna delle nuove minoranze emarginate, all’imposizione del politicamente corretto.
Sì, anche la famigerata “politically correctness” può essere letta come una forma di regressione adolescenziale imposta. La corrispondenza pensiero-linguaggio è infatti pressoché automatica, per cui l’obbligo di introiettare un sistema di giudizio non corrispondente alla realtà come viene percepita è un lavaggio del cervello, oltreché un potente impedimento alla crescita interiore, un incentivo ad aderire a verità (o narrazioni…) precostituite, dunque un ostacolo enorme alla formazione personale e collettiva.
L’autorità, poi, è screditata in nome della libertà – concetto che non viene mai definito, se non come assenza di vincoli o limiti – ma anche perché ci precede, viene prima, è anteriore a noi, alla nostra presenza nel mondo, quindi ci costringe a riflettere e accettare i limiti, la caducità, l’imperfezione della nostra condizione. Il potere conosce assai bene queste debolezze di massa, su di esse lavora e tesse la sua tela di controllo e condizionamento. I nobili francesi del Settecento crollarono sotto i colpi della rivoluzione anzitutto perché erano debosciati inabili a tutto, una generazione concentrata a Versailles, la Disneyland dell’epoca, tutta giardini, feste, mascherature, belletti e allontanamento dalla realtà.
Oggi, il mondo adolescente assomiglia d un quadro inglese di caccia alla volpe, una folla di eleganti cavalieri all’inseguimento, coadiuvati da una muta di cani, gli unici che sembrano credere all’evento. Nel mondo incantato scoperto da Alice nella tana del Bianconiglio, la volpe è finta – abbiamo orrore del sangue e più ancora della morte – e tutto finisce come in uno spettacolo televisivo. Sorridi, sei su scherzi a parte!
Siamo vivendo ormai da troppo tempo un sogno narcotico, siamo passati al bosco, non come il ribelle di Junger, ma in una specie di fondale di un permanente Sogno di una notte di mezza estate, il mondo fantastico popolato da tanti Oberon, il re degli elfi e da folletti dispettosi come Puck. L’isola che non c’è priva degli affanni, libera dai doveri, esonera: un eterno presente infantile e lineare come quello immaginato da Barrie per il suo Peter Pan, o, con intenti morali, da Collodi per Lucignolo nel paese dei balocchi.
Ci sono naturalmente dei responsabili maggiori di questo stato di spirito cose che ha interrotto, di fatto, la ruota della vita in nome di una realtà parallela. Ricordiamo il famoso dottor Spock, il medico britannico che si improvvisò pediatra e pedagogista, imponendo, dopo l’immenso successo del suo libro sull’educazione e cura infantile, un’educazione permissiva, i cui effetti devastanti indussero lo stesso autore a rivedere drasticamente le sue convinzioni. Troppo tardi, il danno era fatto, travestito da scienza, rivestito dall’aura del nuovo verbo degli esperti – paradossalmente la nuova autorità, il moderno ipse dixit.
L’impianto teorico più devastante, tuttavia, resta quello organizzato da Adorno e dai francofortesi. In particolare, resta impressionante l’influenza della ricerca che divenne opera collettiva con il titolo La personalità autoritaria. La tesi di fondo di Adorno e dei suoi collaboratori fu che l’autorità produce “tendenze antidemocratiche”, chiamate fascismo potenziale, le quali si manifestano attraverso un complesso di disvalori, atteggiamenti, opinioni provenienti da strati profondi della personalità. Evidente è il debito con il peggio del freudismo. Sradicare queste tendenze della personalità avrebbe consentito, nella tesi dei proponenti, non solo scongiurare l’antisemitismo, ma abbattere per sempre qualunque tendenza al fascismo, all’etnocentrismo ed al conservatorismo, economico e religioso, i nuovi nemici assoluti del “mondo di oggi”. Tutte queste istruite panzane smentite dai fatti sono state rivestite da Adorno – diventato una star delle università americane – da una patina di scientificità centrata sulla costruzione di scale atte a rilevare per estirpare alla radici tali sistemi di credenze ideologiche.
In sostanza, dietro lo schermo di un lavoro scientifico, tendenzialmente neutro, Adorno ha costruito la trama ideologica su cui si regge il progressismo trionfante, all’ombra dei padroni della società di mercato. La demonizzata personalità autoritaria non era che la normale capacità di trasmettere informazioni, giudizi, comportamenti alla base della riproduzione sociale e della stessa civiltà.
L’esito è disastroso: nuovi autoritarismi incombono, ma l’opera di dissoluzione del passato, l’annullamento sino alla negazione del “mondo di ieri” ha prodotto una nuova personalità, più fragile, insicura, affezionata all’apparenza della libertà, nemica di tutto ciò che è permanente, stabile, impegnata in un gioco senza inizio e senza fine. Ragazzi di ogni età che non crescono mai, estenuati da interminabili dispute sul nulla, la cui fine è invariabilmente l’assenza di decisione, l’orrore per la responsabilità, il respingere tutto ciò che rende consapevoli. E pensare che, etimologicamente, adolescente significa colui che cresce e si fa adulto. Uomini e donne incompiuti, poiché l’adolescenza, come la giovinezza, è una fase dell’esistenza, una condizione spesso felice ma temporanea, una scena nel film della vita.
La pellicola si è interrotta, crescita è solo una parola d’ordine dell’economia, Peter Pan è diventato davvero il capo della banda dei bimbi sperduti. Sperduti, nell’Isola che non c’è e non ci sarà mai. Un motto “alto” può forse essere attribuito all’insignificante generazione di adolescenti a cui apparteniamo, insieme con i nostri pochi figli, un verso celebre della Vita è sogno: nada me parece justo, en siendo contra mi gusto.
1 commento su “Sindrome di Peter Pan. Verso un mondo di eterni adolescenti – di Roberto Pecchioli”
Come si evince dagli autori citati il fenomeno ha origini antiche ma ritengo che sia stato nel ’68 che sia esploso e prima fra le donne che fra i maschi. Molte donne era dispostissime ad avere relazioni stabili e monogame ma non a sposarsi. Chiedere ad una ragazza con cui stavi da tempo di sposarti era il sistema più veloce perché ti lasciasse. I maschi invece avevano ancora l’idea di avere delle tappe nella vita da superare: finire gli studi, fare il militare, trovare un lavoro. Ora però sono stati costretti a non darsi più degli obiettivi: a studiare non si impara più niente e comunque non serve per trovare un buon lavoro ed il lavoro non lo si trova ed anche se lo si trova si viene solo sfruttati e presi in giro.
Molta colpa di ciò l’ha la sinistra: con suo voler liberare tutti, ha reso tutti schiavi. Anche i sindacati hanno fatto la loro parte: guardate com’era il contratto dei lavori pubblici quando esisteva ancora il parametro e come è adesso. Dopo anni di lotte il divario fra i capi e tutti gli altri è aumentato a dismisura e lo stesso succede nel settore privato,