di Lino Di Stefano
Questo, all’incirca, il titolo di un articolo, a firma di Galli Della Loggia, apparso il 18 agosto di quest’anno, sulle colonne de ‘Il Corriere della sera’ quale recensione ad un libro di Adolfo Scotto di Luzio – dal significativo titolo, ‘La scuola che vorrei’ (2013); da una parte, il giornalista esprime, infatti, un caldo apprezzamento al volume e, dall’altra – pur con qualche titubanza circa la reale volontà degli addetti ai lavori di leggerlo – lo raccomanda al Ministro dell’Istruzione, Carrozza, e alle due Commissioni costituite, ‘ad hoc’, nel Parlamento.
E il libro, da quanto ne dice Della Loggia, dev’essere certamente valido visto che egli ritiene l’Autore del saggio dotato di “un’acuta sensibilità intellettuale”, non senza aggiungere, subito dopo, “secondo un costume che in Italia ha avuto il suo fulcro nella grande tradizione della pedagogia idealistica ahimé da tempo sbriciolatasi”. Al riguardo lo storico romano avrebbe dovuto, per coerenza, menzionare la feconda lezione speculativa facente capo al maggior filosofo italiano del XX secolo, Giovanni Gentile, e al più grande pedagogista nostrano del Novecento, Giuseppe Lombardo-Radice.
Dopo aver definito il lavoro “un libro nuovo e importante”, il recensore entra immediatamente “in medias res” affermando, senza ambagi, che il succo del volume di A. S. di Luzio ha come centro d’interesse l’antitesi ‘scuola democratica-scuola d’élite’, in altre parole, ‘scuola di massa-‘scuola di cultura’. La prima, secondo l’Autore, ha sbagliato a ritenere di poter fare a meno della scuola di cultura e, in merito, lo storico aggiunge che “fu un errore, frutto innanzitutto di una clamorosa miopia storiografica, gettare al mare la tradizione dello Stato nazionale e della sua cultura nella quale affondava per l’appunto le radici la scuola per le ‘élite’ di matrice ottocentesca”.
Assodato che per le masse quella tradizione raffigurava un “ferrovecchio” – così la chiama il recensore – la scuola cosiddetta democratica si è trovata inerme al cospetto della forte avanzata di una visione della scuola burocratizzata, sindacalizzata e ‘privata’, e alla fine, ha fallito i suoi scopi. Ragion per cui la ripulsa della tradizione letterario-filosofico-artistica ha nuociuto alla scuola di massa col corollario che essa ha, altresì, rinunziato proprio a quel ‘noi’, “premessa indispensabile – per lo storico – di ogni civica ‘egalité o ‘fraternité’”.
E, qui, facciamo notare a Galli Della Loggia che egli adopera il linguaggio del neo-idealismo italiano visto che Gentile – e subito dopo Ugo Spirito – pone al centro dell’indagine speculativa precisamente il ‘noi’ che, in tale dottrina, invera i due termini del nesso dialettico ‘io-tu’, ‘alter-ipse’. La categoria del ‘noi’, o individuo universale, difatti, è sempre presente nel sistema del padre dell’attualismo e ciò fin dagli esordi del sistema.
Vale a dire, in quasi tutte le opere ad iniziare dal ‘Sistema di pedagogia come scienza filosofica’ (1912), dai ‘Fondamenti della filosofia del diritto (1916) e da ‘Genesi e struttura della società’ (scritta nel 1943, pubblicata postuma nel 1946), per rammentarne solo alcune. Scrive, infatti, il pensatore, nel primo saggio citato, che “l’uomo vive in relazione con gli altri uomini e con tutta quella che diciamo natura, vive in relazione col tutto”. Conferma eloquente, quest’ultima, sempre secondo il filosofo, che “l’uomo vive di tutto, o tutto raccoglie nel ritmo della propria vita, che è il suo essere” (Ivi).
E si potrebbe continuare. Nulla di tutto ciò nella scuola di massa o democratica, a detta dello storico, visto che in essa si corre anche il rischio di cadere dall’autoreferenzialità “al più frigido orpello della ‘cultura della Costituzione’”. Chiarito, con l’Autore e col recensore, che il fulcro della scuola si è spostato, per gli insegnanti, dalla sfera della norma – il programma identico per tutti – al piano della valutazione degli studenti, è giocoforza aggiungere che anche questi ultimi sono stati indotti sempre più a concepire l’istruzione come un particolare percorso aperto a diverse e multiforme esperienze di cui essi restano i soli interpreti.
L’articolista conclude la sua disamina, d’accordo con l’Autore del saggio, rilevando, per un verso, che la crisi della scuola rappresenta – anche penalizzando gli studenti meno abbienti – la causa principale della decadenza del’Italia e chiedendosi, alla fine, se non sia il caso di promuovere “una grande discussione politico-pubblica, come e perché è accaduto questo disastro. E dunque come porvi rimedio”.
E noi, già uomini di scuola, ci meravigliamo della meraviglia dello storico. Basti, infatti, tornare agli inizi degli anni Settanta per avere la percezione precisa del disegno perseguito, con pervicacia, da bene individuabili e individuate forze politiche che in nome di sedicenti princìpi egualitari e in forza di non meno false convinzioni democratiche, hanno distrutto le istituzioni scolastiche lasciandole nello stato i cui ancora si trovano.
I famigerati ‘Decreti Malfatti’ – è il caso di sottolinearlo – costituiscono solo un aspetto della decadenza della scuola in mano, in quel momento storico, ai Sindacati più politicizzati e più estremisti, con le conseguenze dinanzi agli occhi di tutti. Al riguardo, Ugo Spirito, filosofo e pedagogista – un esperto che alla scuola ha dedicato tanta parte di sé e tanti volumi quali, ad esempio,’La riforma della scuola’ (1956) e ‘Il fallimento della scuola italiana’ (1971), per limitarci a qualcuno. – qualche anno prima di morire, in un lucido saggio dal significativo titolo, ‘L’educazione permissiva’ (1975), ha scritto quanto segue.
Innanzitutto, che “il processo verso la incompetenza della classe dirigente è un processo che sta toccando dei limiti estremi. Ed i limiti estremi che si stanno toccando oggi sono appunto quelli dei cosiddetti ‘decreti delegati’” e, in secondo luogo che la politica non deve entrare nella scuola.
Questa, l’eziologia – per usare un termine scientifico – del fallimento delle nostre strutture educative che un uomo come Galli Della Loggia fa finta di ignorare rifugiandosi nel: “Come e perché è accaduto questo disastro? E dunque come porvi rimedio?”.
Solo il recupero – assai arduo, dati i tempi – degli autentici valori umanistici, non scevri, naturalmente, da quelli tecnico-scientifici, di cui proprio il recensore lamenta la mancanza, potrà in futuro ridare credibilità alla scuola italiana unitamente a quel patrimonio gettato a mare, egli scrive, consistente nella “tradizione dello Stato nazionale e della cultura nella quale affondava per l’appunto le radici la scuola per le ‘élite’ di matrice ottocentesca”.
Il menzionato recupero dei valori “ab imis fundamentis”, per dirla con Bacone, o una riforma “in capite et in membris” delle strutture scolastiche, per dirla col Concilio di Trento, rappresenta, oggi, stando così le cose, una palingenesi quasi disperata perché i guasti procurati restano delle ferite mortali. Ma la speranza è l’ultima a morire, come sostiene lo stesso storico, all’inizio del suo articolo.