Santa Rita è riferimento cristiano dell’essere donna: dolcezza, fortezza, rigore, vigore, amorevolezza, slancio e proprio per tale ragione modello della concezione familiare cristiana: non Amoris laetitia, l’esortazione apostolica di Francesco del 2016 che tanta confusione ha creato e crea in chi ha fede. Pubblichiamo l’introduzione alla seconda edizione di Rita da Cascia. La Santa degli impossibili, di Cristina Siccardi (ed. La Fontana di Siloe-Lindau)
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Santa Rita da Cascia non conosce tempo. Passano i secoli, ma la sua figura non si sbiadisce mai, né viene meno l’attenzione nei suoi confronti, né il suo culto. Ed ecco che questo lavoro storico-spirituale, Rita da Cascia. La santa degli impossibili, è alla sua seconda edizione. Generazioni e generazioni di donne l’hanno invocata e supplicata per essere soccorse nelle loro difficoltà, in particolare come mogli e come madri. Transitano usi e costumi, le mode si rincorrono… Ma Rita è Rita. E non importa che sia vissuta nel Medioevo, non importa che sia stata donna sottomessa; neppure la donna della contemporaneità, emancipata, ma piena zeppa di problemi, divisa com’è fra affetti e lavoro, fra i suoi spazi e quelli degli altri, mette in dubbio la levatura di Rita da Cascia. Rita non è mai stata legata a fazioni (lei pacificava i dissidi sociali, una dote ereditata dai suoi genitori) e non è neppure possibile strumentalizzarla. Qualcuno, nel postconcilio, ha tentato di modernizzarne la fisionomia, ma i risultati sono stati pressoché nulli. Rita è intoccabile. Anche le femministe non possono corrompere la sua solida e compatta immagine, non soggetta a manipolazioni ed ermeneutiche hegeliane e relativiste.
Nell’età in cui il tessuto sociale era profondamente cristiano e nel quale lei visse, non esisteva antagonismo fra uomini e donne: ognuno era chiamato a seguire la volontà del Creatore in qualità di battezzata e di battezzato, ovvero di figlia e figlio di Dio; perciò il ruolo della donna era determinante tanto quello dell’uomo, seppure di diversa natura. L’egualitarismo, che porterà discordia e sregolatezza, arriverà molto tempo dopo, nel XVIII secolo, con l’Illuminismo e la Rivoluzione Francese, passando attraverso l’Umanesimo e il Rinascimento, la Riforma protestante e l’antropocentrismo sempre più invasivo, fino ad arrivare all’annientamento di Dio di Nietzsche, alla religione come oppio dei popoli di Marx, al soffocamento dell’anima con la psiche per opera di Freud. Rita, come molte altre sue consimili medioevali, di fronte a tutto ciò è l’incarnazione della vera libertà. Ella rappresenta la completezza perfetta della femminilità: ha vissuto e assaporato ogni alto grado della muliebrità, nobilitando l’essere donna e agendo a livello pubblico, ma senza rivendicazioni, perché le sue lotte e le sue vittorie sono sempre state al servizio della verità e della giustizia di stampo biblico. Non rivoluzionaria, ma di profonda stabilità ella, pur avendo sperimentato tempeste e travagli indicibili, non si è mai ribellata, perseguendo con determinazione propositi e obiettivi, che trovarono in Cristo il pieno compimento.
Nessuna competizione con il sesso maschile, sentimento inesistente nel Cristianesimo, ma consapevolezza di prendere l’esistenza sul serio e nella sua interezza: dal concepimento alla vita oltre la morte terrena. La cultura cristiana medioevale è quella che non conosce impulso di rivalsa della donna sull’uomo, in una gara esacerbante di uguaglianza biologicamente, spiritualmente, ontologicamente inesistente, ma che cerca di condurre un cammino di complementarietà fra maschio e femmina, seguendo le leggi di natura e divine, nel tentativo di edificare una civiltà equilibrata e non schizofrenica, con famiglie che costituiscono una società dove al centro non c’è l’individuo, con tutti i suoi limiti, ma Cristo.
Santa Rita è riferimento cristiano dell’essere donna: dolcezza, fortezza, rigore, vigore, amorevolezza, slancio e proprio per tale ragione modello della concezione familiare cristiana: non Amoris laetitia, l’esortazione apostolica di Francesco del 2016 che tanta confusione ha creato e crea in chi ha fede, dove le fragilità sentimentali sono ben accette, tanto da mettere in crisi l’indissolubilità matrimoniale, uno dei pilastri della dottrina cattolica. La famiglia, per santa Rita da Cascia, è un’istituzione sacra, dove Cristo occupa il posto d’onore e dove la donna assume una funzione basilare e di enorme responsabilità, non solo per la coesione dei membri interni, ma anche per il rinsavimento di essi, qualora diano manifestazioni di non coerenza alle regole divine e ai consequenziali principi etici.
Innumerevoli sono le mogli e le madri di famiglia che sono riuscite a ricucire strappi coniugali di impensabile successo: grazie all’intercessione di santa Rita non si sono rassegnate e, vivendo in grazia di Dio, con pazienza e costanza, hanno ottenuto prodigi e miracoli. La colta e lungimirante Rita ha ben compreso l’Incarnazione del Redentore e il ruolo corredentivo della Madre di Dio, tanto da divenire anima sacrificata per la redenzione di molte anime, andate incontro serenamente al Giudizio eterno (una mansione tipica di gran parte dei mistici: da san Francesco alla venerabile Marthe Robin, da santa Gemma Galgani a san Pio da Pietrelcina), Giudizio di cui fa memento il poeta e drammaturgo Paul Claudel (1868-1955), che si convertì entrando nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi, mentre un coro intonava il Magnificat: «Ogni cosa è fissata, ogni cosa è consumata nel suo frutto. Ogni semente è giudicata dalla semente che ha prodotto. È il giorno del Giudizio, in cui il Signore esamina tutta la terra. È quando l’intendente deve mostrare i suoi conti al proprietario. […] Verrà presto il nostro turno di essere riuniti nel Tuo granaio e sulla Tua aia. […] Così il Figlio dell’uomo quando apparirà sulle nubi per giudicare i morti e i vivi. Egli collocherà i buoni alla sua destra, collocherà i capri alla sua sinistra. Signore, fa’ che io sia posto alla Tua destra e non alla Tua sinistra!» (Paul Claudel, Opere poetiche. Antologia di testi religiosi, Cantagalli, Siena 2009, pp. 55-56).
Poesia e immagine ritiana si confanno particolarmente; il genere lirico, infatti, trova armonico connubio con l’incantevole Rita, i cui simboli stessi rimandano ad un mondo onirico: api, rose, uva, spina in fronte. Mariassunta Nebiolo (1935-1911), autrice di raccolte poetiche come Armonie silenti (Book Editore 1990), E corre l’ora (Viemme-Morra Editore 1992), In abissi di dolcezza (Edizioni «Il Richiamo» 1995), riuscì a far rivivere in versi la protagonista della Valnerina, come dimostra Santa Rita e la spina: «Nell’ombra e nel silenzio/d’una antica chiesa/s’odono aneliti d’angoscia/forse cercano una pace/dove indugiano le stelle./E l’attesa si fa muta/quando a tratti s’apre/il sorriso della Santa./Respira Santa Rita/l’ansietà di queste voci/fra il tacito frusciare delle foglie./Nella notte s’alza un lume/quasi a confortar/consunta e opaca solitudine/fatta d’echi ancor oranti/come se l’Infinito/ricamasse dolci suoni/sull’azzurra volta/d’un cielo ormai sereno./Forse altro tempo/che par nuovo/si fa spazio fra Rita e la spina/chiamata Santa degli impossibili/nel mistero di prodigi/sì che anche la luna/forma si fa/della sua stessa forma»[1].
La presenza di Rita è un dato di fatto, non solo nelle chiese e nelle cappelle, ma in una tradizione che non conosce stanchezze, così si continua ancora a rimembrare la sua vita faticosa sì, ma piena di amore inesausto e di sapore senza noie. La Croce, indispensabile per la sequela Christi, aveva per lei un posto di assoluto privilegio e il Crocifisso fu il suo acceso scopo di vita, fu l’indirizzo a cui trasmise tutto l’amore che conteneva, amore peraltro ricambiato da un pegno che nessun’altro santo ha mai ricevuto: una spina, conficcata sulla sua fronte, partita dalla corona del crocifisso di fronte al quale pregava. Dalla spina, che la isolò dal mondo (persino dalle consorelle in monastero), al sorriso di un’esistenza consumata nell’Imitatione Christi, come ci ricordano ancora i versi della poetessa subalpina, che fa menzione di quando fu miracolosamente vista, già nell’urna della morte, muovere la bocca e aprire gli occhi, come si legge in Santa Rita sorride: «Da questo velo d’aria/avverrà l’inatteso sogno/che scoprirà l’infinito vivere/del Cielo. Nulla trema./E Santa Rita si fa luce/anche nel buio della notte./Ecco d’improvviso la visione:/muove la bocca/apre gli occhi/la Santa che fuga ogni pena./Non resta che la preghiera/donde sorse ogni sospiro/altro non è: in questo ondare/di stagioni nell’alterno/loro mistero./Già vince il profumo intenerito/già Santa Rita gli occhi posa/sulle stelle e sui cuori/mentre vuole contemplare/dell’ape la dolcezza/e fra sole e cielo/brilla e s’annulla/ogni stanco petalo di rose./Subito nel tremito prodigio/vibra l’anima felice/per adorare della Santa/il suo sguardo inconsumabile»[2].
Non esistono solo smartphone e tablet di ultima generazione, già vecchi domani; né solo centri commerciali, con valanghe di cose perlopiù inutili; né solo passerelle di splendente, e talvolta infima, alta moda; né solo palestre e centri benessere… molte donne oggi, perdendo ciò che davvero vale per dare spazio a disvalori, vivono di caducità per non tormentarsi nei meandri di riflessioni esistenziali sugli anni che passano in un lampo. Rita parla anche a loro, come pure a quelle che piangono o gridano la propria incontentabilità, pensando che sia una questione di “pari opportunità” negate o non ancora soddisfacenti o che sia indispensabile – scordandosi della sana prudenza (ottima amica per farsi rispettare!) – vestirsi volgarmente per sentirsi libere, facendo finta che gli uomini non abbiano normali e naturali istinti. Il vuoto che sentono non è colmabile passando da un letto ad un altro o aspirando a ruoli ideologicamente impostati a tavolino, incompatibili sia per la donna che per l’uomo, bensì colmabile con ragioni di vita che vanno ben al di là del Pil e dei sistemi economico-finanziari dettati dal mondo, riguardano la piena realizzazione di se stesse e grazie a santa Rita, emblema di fedeltà, che seppe affrontare solo ciò che una donna è in grado di sfidare, molte potrebbero riscoprire l’insostituibile gioia di vivere sensatamente: non più Lolite adolescenti ad libitum, ma spose e madri senza isterismi e frustrazioni. E proprio per questo indispensabili, desiderate, rispettate, amate.
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[1] In «Dalle Api alle Rose», n. 4, maggio 2007, p. 2 (Il titolo della lirica, tradotta in cinque lingue per lo stesso periodico, è stato stampato Santa Rita della spina, mentre nell’originale l’autrice scrisse di suo pugno: Santa Rita e la spina).
[2] In «Dalle Api alle Rose», n. 3, aprile 2008, p. 2.
1 commento su “Scriptorium – Recensioni. Rubrica quindicinale di Cristina Siccardi”
Molto bello e dirò di più…
Molto edificante!
Grazie