Ai più, al vasto pubblico della popolazione scolastica e universitaria, della stampa pubblicistica e militante (ma esiste ancora l’intellettuale “militante”?), il nome di Rodolfo Quadrelli suona come un flatus vocis. O, peggio, un Carneade. Eppure non è, o è destinata a non più essere, “voce di uno che grida nel deserto”: una figura, la sua, davvero imponente (e non solo per la corporatura) di amico, di poeta, di pensatore e critico letterario e del costume morale, di maestro – tratti o lati di una personalità unitaria, non scomponibile –, la cui integralità viene riemergendo di anno in anno, di decennio in decennio. Il suo canto e il suo grido, buoni e severi, benefici e urtanti, comunque “fuori ordinanza”, anziché cessare di risonare la sera di quel giorno fatale (l’anno venturo, al 1° di aprile, saranno passati otto lustri), quando all’età di quarantacinque anni la morte lo colse immatura, riprendono corpo, identico e trasfigurato. L’inesauribile energia che con impeto generoso Quadrelli comunicava, e cui era impossibile sottrarsi, torna a diffondersi e a persuadere, sicché veramente appare come la fine terrena di un intellettuale divenga crinale tra l’opinione intorno a lui e la verità di lui.
Stiamo parlando di un autentico, raro, uomo di cultura, a tutto tondo, poeta e critico dei più alti, testimone acuto e sofferto di un’epoca, il dopoguerra avanzato, detta del boom economico, durante il quale l’Europa, e soprattutto l’Italia, hanno subito la più vistosa e travolgente metamorfosi dell’umano e delle forme di vita che per vastità e capillarità si ricordi nei secoli moderni. Una metamorfosi della quale l’attuale “cambiamento d’epoca” – mi permetto di osservare – non è che la terminale, ruinosa, accelerazione di quel processo, fattosi ormai precipitoso: detto nel latino della formula aristotelica, motus in fine velocior, di cui sempre più palesemente avvertiamo l’incombere, fuori e dentro di noi. Negli stessi anni in cui si esercitava l’occhio clinico di Pasolini denunciatore della barbarie televisiva e industriale, Quadrelli vide ben presto e argomentò da molti segni, nei “potenti della letteratura” come nei prodotti di massa e nella schiavitù della tecnica e dell’economia, la degenerazione del popolo italiano in volgo, dello sradicamento del cattolicesimo e del senso religioso dai cuori e dalle menti.
E Quadrelli, anche più di Pasolini, con meno compromessi e minor fortuna pubblica, antivedeva la traiettoria dello scadimento in quella che negli anni Settanta era “filosofia implicita” e ipocrita di certo moderatismo liberale e cattolico, non ancora esplicitamente radicale ma già arreso e prono ai primi “diritti” individuali – il divorzio, l’aborto – che aprivano la strada alla sfacciata società opulenta, ipersessualista e vuota d’ideali che non fossero ideologie violente. In sintesi, la traiettoria, descritta da Romano Guardini e definita da Augusto Del Noce, che dal secolarismo conduceva all’empietà e preludeva a crudele cinismo, fino all’insensatezza del nulla dei nostri tempi. E mi piace ricordare un libro, Nel nome del niente – uscito il 1° gennaio del 1982 con introduzione di Giovanni Testori nella collana da questi diretta per Rizzoli, “I libri della speranza” –, di un altro giornalista e scrittore, anch’egli prematuramente scomparso, Luigi Amicone.
Quale la vicenda della macrostoria, tale è non di frequente, bensì sempre il destino degli scrittori, un destino “ironico”, avrebbe detto Quadrelli, ovvero la misura individuale ma rappresentativa di una vicenda storica che la supera, detta, nella felice enunciazione vichiana ricuperata dallo stesso Del Noce, “eterogenesi dei fini”, ossia rovesciamento, lungo i tortuosi sentieri del tempo, dei disegni degli uomini, massime dei potenti e degli utopisti, entro il dominio della storia. Ma l’ironia della storia – o Provvidenza – è destinata a palesarsi in maniera tanto più vistosa e sofferta nell’epoca moderna, inaugurata dai “lumi” della geometrica raison, etica, scientifica, umanitaria, e conclusa nelle tenebre della bestialità, ora brutalmente distruttiva ora massicciamente becera. Perché diciamo queste cose a proposito di un grande misconosciuto come Quadrelli? Non soltanto per rendere il dovuto riconoscimento, e la riconoscenza, a colui che anche in morte ci è maestro di giudizio, ma soprattutto per esigenza di verità: per molti decenni l’intelligencija che ha spadroneggiato da ogni cattedra e tribuna ha occultato fatti decisivi, a cominciare dalle malefatte belliche e politiche delle avanguardie illuminate che, per restare al nostro Paese, hanno “fatto l’Italia” facendo il risorgimento, il fascismo, la resistenza, l’antifascismo – e valorosi (sparuti) storici si sono dati la briga di rivedere, sempre dopo, la vulgata fallace della storia patria ed europea. Il guaio è che, dal secondo dopoguerra fino a oggi, gl’intellettuali che han tenuto banco in università, case editrici, quotidiani, ministeri… hanno impedito al pubblico italiano di sapere di altri autori, ignoti al pubblico o ignorati dai critici, che dentro e fuori d’Italia, a Milano o a Palermo, in Siberia o in Alabama, davano voce a mondi, a comunità, a vicende personali connotati da ragioni diverse che non fossero quelle della trionfale marcia del progresso. È sufficiente un nome: Eugenio Corti di Besana in Brianza, scrittore unico e maestoso, che con la storia ha saputo fare i conti facendo memoria della guerra e del dopoguerra, cioè dando a questi, e agli uomini che ne furono attori, un senso e un significato, immettendo l’esperienza comunitaria in una più larga tradizione. Non fosse stato per il fedele editore Cesare Cavalleri e gli sterminati, genuini lettori del Cavallo rosso (un fenomeno editoriale transnazionale), non se ne sarebbe certo avuta notizia nei dibattiti, nelle pagine o nei supplementi “culturali” delle testate illustri, nelle accademie (con la lodevole eccezione del Dipartimento d’italianistica dell’ateneo cattolico milanese).
L’occasione per tornare a parlare di Quadrelli è offerta da un paio di freschi articoli usciti in contemporanea il 15 ottobre scorso dalla penna di Filippo La Porta, su “la Repubblica”, e di Marcello Veneziani, su “La Verità”. Critico letterario il primo (meritevole il suo denso saggio dantesco Il bene e gli altri, Bompiani 2018), noto pubblicista il secondo, filosofo e critico del costume con netta propensione a esplorare e interrogare i maggiori autori della nostra letteratura (proficue le belle antologie dantesca e manzoniana, nonché la recentissima biografia di G.B. Vico). È un segno curioso e felice che si legga di Rodolfo Quadrelli su quotidiani di opposte vedute, e ciò è merito e riprova della sovrana, provocatoria ma retta, libertà del linguaggio quadrelliano, rivolto mai a una parte precostituita di pubblico, bensì a chiunque volesse e voglia ascoltare una parola lucida e leale e, magari, rispondervi, paragonarvisi. Entrambe le firme ne danno conto e gliene danno atto.
Così, sull’onda di queste rievocazioni – che confidiamo avviino un più largo dibattito –, ho ripreso in mano un volumetto, agile e denso come quelli editi in vita, di prose scelte vergate dal Nostro autore nel suo stile mirabile, denso e nitido, di una concretezza che s’impone. Un’antologia di scritti radunati da Andrea Sciffo, anch’egli scrittore, poeta e insegnante di vaglia e di veglia, già comparsi tra la fine degli anni Sessanta e i primissimi Ottanta in libri o riviste importanti, arricchiti poi da un prezioso stralcio inedito di una lettera indirizzata ad Augusto Del Noce nel ’79, sulla quale torneremo. Il volume – pubblicato nel 2001 dalla casa editrice riminese Il Cerchio – reca il titolo Lo studio della letteratura europea, in un itinerario, come recita il sottotitolo, che va da Dante a Solženicyn.
La sua destinazione naturale (ma non certo esclusiva) è la scuola superiore, i docenti non meno dei discenti, più ancora i primi anzi, sovente ingabbiati negli schemi “critici” della sociologia o dello strutturalismo, dell’ermeneutica o del marxismo di ritorno, ecc., la cui comune matrice filosofica risale allo storicismo hegeliano più o meno ammesso. Questi saggi sono estranei a qualunque accademismo, per natura specialistico, e infatti trascorrono dal confronto tra Dante e Petrarca nell’interpretazione – che ha fatto scuola! – del De Sanctis all’appetitoso esame del Don Chisciotte, a un lungo e sorprendente percorso di letteratura lombarda che culmina nell’amato Manzoni (utile sarebbe accostarlo al Manzoni teatrale testoriano), fino ai confronti a viso aperto con autori decisivi del Novecento: Noventa, Eliot, Pasolini, Solženicyn. Sono scritture contraddistinte dalla brevitas, che qui non è sinonimo né di oscurità od opacità (al contrario: Prezzolini ebbe a definire “eccezionale” lo stile della prosa quadrelliana, un giudizio che fa il paio con quello di Geno Pampaloni sulle poesie del Nostro: “le rime petrose del nostro tempo”) né tanto meno di genericità: basta leggere per sospettare, se non cogliere, l’abbondanza dei rimandi filosofici almeno quanto letterarii. Siamo di fronte a un autore che in quasi totale solitudine (come Guido Morselli) e in anni plumbei, specie i Settanta, si propose l’opera immane di ristabilire una continuità non strumentale, non artificiale, tra gli operai della terra e gli operai dell’intelletto, di ricostituire un linguaggio sensato fatto di parole che escano dal labirinto ozioso, verboso, perverso delle élites dominanti e tornino a denominare le cose, a loro volta sottratte alla cupa maledizione del materialismo, alla allegra irresponsabilità dello scientismo, all’empietà della mercificazione industriale.
Rodolfo Quadrelli definiva sé stesso “cattolico di desiderio”, un giudizio che – personalmente, mi ci è voluto del tempo per capirlo – si prenderebbe un grosso abbaglio a scambiare per condizione psichica orgogliosa. Era piuttosto l’aspirazione dichiarata o, meglio, l’invocazione a ritrovare un terreno condiviso, “umido”, nel quale tornare a parlare il “linguaggio della verità”, ben distinto dal prevalente “linguaggio dell’errore”: locuzioni, queste, che appartengono alla tradizione teologica e dogmatica della Chiesa cattolica, coraggiosamente rievocate in quella stagione postconciliare di irenismo fremente di “dialogo” col mondo moderno. Soltanto mi rammarico dell’assenza, nell’antologia, del pregnante saggio che apre il primo dei suoi libri, Il linguaggio della poesia, edito da Vallecchi nel ’69, saggio dedicato a poesia e religione, a quanto l’una sia all’altra necessaria in un’epoca di galoppante mondanizzazione della Chiesa. Ecco, l’opera di Quadrelli si qualifica senza timidi mezzi termini come forte e umile servizio a ciò che sta o che resta oltre il fuggevole istante; come paziente attestazione di solida unità di esistenza e di ragione; come fedele consegna agli amici, attuali o possibili, e agli allievi di Liceo di un insegnamento che, irriducibile alle mode e alle sirene soavi dell’industria culturale, abbia per oggetto, in ossequio al magistero di Dante, di Manzoni, di Eliot, l’unità infrangibile, mai separabile, di ciò che è vero e bello e buono e, per tanto, per la natura stessa dell’oggetto, affermi negli studi letterarii un metodo diverso da quello “scientifico”.
E però, con tutto lo sforzo che uno ci metta, non si riesce né a ridare il sapore o il sentore della presa che ha la sua prosa né a spiegare il perché della sua estromissione dai “giri giusti” della cultura italiana: occorre ascoltare la sua penna. «Si ricava, come avviene per le scienze della natura, che ogni studioso porta il proprio contributo a un lavoro collettivo, che egli non può non tener conto dei contributi precedenti, che tutta questa attività è un “progresso”. Lo studio della letteratura appare come un mosaico nel quale ognuno inserisca la propria piccola tessera. Lo studio della letteratura appare dunque come esauribile… finché non accada qualcosa di determinante che obblighi a ricominciare da capo. È il metodo stesso che lo impone. Ma è immediatamente evidente una clamorosa contraddizione: è proprio la potenziale esauribilità dell’argomento letterario che invita a ricominciare da capo. […] Se lo studio della letteratura non è esauribile, vuol dire che non è scientifico, che non stabilisce o non accerta proprio niente, che i contributi non contribuiscono a niente, che il lavoro non è collettivo, che non è un progresso. […] Ho la netta impressione che sia inevitabile ricominciare da capo, più o meno come avviene in campo ecologico per l’esaurimento delle risorse, ma non semplicemente cambiando stile nell’ambito dello stesso metodo, bensì rifiutando radicalmente quel metodo, che è semplicemente il metodo critico moderno». Viene alla mente uno dei folgoranti detti del suo apprezzato, e corrisposto, Flaiano: “Scrivo per non essere incluso”, replicava a chi una volta gli chiese quali fossero le ragioni del suo scrivere, con ciò intendendo il rifiuto (eravamo negli anni della mitica “ricostruzione” postbellica) di venire assimilato al parnaso einaudiano o “cattolico” o laico azionista, che ha tenuto banco, in tutte le accezioni del vocabolo, nella seconda metà del xx secolo.
È chiaro invece come Quadrelli è stato un intellettuale di rango, magnanimo, di quelli cioè che non si specializzano in uno sperduto hortus conclusus né si accontentano di fare dell’estetica illusoria e ininfluente, e nemmeno prendono le lettere come salvacondotto per accedere alle sale del potere, per guadagnarsi il ruolo di maître à penser, magari col disinvolto sussiego di Umberto Eco. Un Eco, influente dirigente editoriale del conte Valentino Bompiani, che dalle colonne dell’“Espresso” diede perentorio ostracismo agli autori non allineati che pubblicavano nella gloriosa collana di saggi della Rusconi, diretta da Alfredo Cattabiani. Fra questi v’erano autori che perdurano, che grandeggiano o sono per risorgere dalle nebbie cimmerie, e rispondono al nome di Cristina Campo, di Hans Sedlmayr, di Augusto Del Noce, di Augustin Cochin – lo storico-sociologo della Rivoluzione francese dal quale Furet tanto ha imparato –, di Eric Voegelin – formidabile pensatore che ha visto nella gnosi anticristiana (in ciò seguito più tardi dal povero, geniale, Samek Lodovici) la cifra ricorrente dei sistemi filosofici e dei movimenti politici dell’età moderna –, di Quirino Principe – filosofo della musica, il curatore della versione italiana del Lord Of the Rings di J.R.R. Tolkien, stretto amico di Rodolfo, all’epoca con lui testimone e giudice implacabile dei disegni degl’ideologi piombati sulla scuola per “okkuparla” –, di Simone Weil… e di Quadrelli. Il cui nome, come del resto gli altri menzionati o sottaciuti, non ambisce e non merita alcuna “riabilitazione” – sinistro istituto staliniano ben radicato nel democratico Occidente – post mortem; è una voce che pretende di essere ascoltata, che esige di esser “presa in parola”, come egli appunto prendeva in parola gli scrittori e i critici, da qualunque sponda provenissero, per stanarli, argomentarli e svelarne le segrete intenzioni.
In tutti i suoi libri e in diversi interventi Quadrelli intrattiene un colloquio serrato, talora implicito ma più spesso aperto, con autori precisi, del passato come del presente, rappresentanti della scena culturale italiana ed europea, assunti come interlocutori in merito a questioni ogni volta cogenti e per tutti decisive, e invitati a pronunciarsi sul destino intero del popolo o del Paese cui appartengono. Un problema, questo della condizione del nostro Paese, che egli avvertiva dolorosamente e che si ritrova nei carteggi con vari corrispondenti: p.es. con Flaiano (nelle lettere di questi pubblicate nel 1995 da Bompiani: Soltanto le parole. Lettere di e a Ennio Flaiano [1933-1972]), ma eminentemente con Del Noce, fra i massimi pensatori del Novecento. In una missiva di risposta inviata l’8 gennaio 1984 a Quadrelli (che pochi mesi dopo sarebbe deceduto) il filosofo torinese scriveva: «Ma il nichilismo oggi corrente è il nichilismo gaio [corsivo nostro], nei due sensi che è senza inquietudine (forse si potrebbe addirittura definirlo per la soppressione dell’inquietum cor meum agostiniano) e che ha il suo simbolo nell’omosessualità (si può infatti dire che intende sempre l’amore omosessualmente, anche quando mantiene il rapporto uomo-donna). Non per nulla trova i suoi rappresentanti in ex-cattolici, corteggiati ancora da cattolici che riconoscono in loro qualcosa che trovano sul loro fondo. Tale nichilismo è esattamente la riduzione di ogni valore a “valore di scambio”; l’esito borghese massimo, nel peggiore dei sensi, del processo che comincia con la Prima Guerra mondiale».
In chiusura della raccolta di scritti quadrelliani Sciffo ha proprio trascelto un ampio stralcio da una delle lettere – a tutt’oggi inedite nel loro corpus – intercorse tra i due. È Quadrelli che scrive, il 19 x 1979: «[…] Ci troviamo di fronte al tradimento o al cedimento di una generazione: la generazione crociana e gentiliana, con le sue appendici gobettiane e gramsciane. Stanno venendo al pettine pratico, etico, politico, le aporie trascinate per cinquanta o cento anni dalla cultura italiana. Tutto lo dimostra, e la via pare senza uscita immediata. La sola via è una ricostruzione della cultura italiana, alla quale ho lavorato finora, ormai da quindici anni, e alla quale tu lavori da sempre. Dobbiamo continuare nella più assoluta intransigenza. Sai che il mio rovello è soprattutto la letteratura; mi sembra che attraverso di essa, attraverso cioè lo stile allusivo, delusivo, ambiguo, generico sempre ma brutale quando fa comodo, sia penetrata nel senso comune un’attitudine estetica di tipo kirkegaardiano. E io vorrei che tu, anche tu, vi affisassi lo sguardo, indugiando di più e più clinicamente sul linguaggio, poniamo della critica letteraria dei giornali, per vedere dove siamo arrivati col costume […]».
Di questa pasta e di questo tenore è la scrittura di Quadrelli, di un auctor che ha inteso lo stile quale strumento e forma di conoscenza, e di responsabilità sì verso i maestri autentici che lo hanno allattato, quelli che non deflettono né vengono meno, ma parimenti verso un Paese umiliato e offeso, un grande popolo, l’italiano, prossimo a imbarbarirsi, ancorché dotato di insospettabili risorse di umanità circolanti nella linfa e nel sangue dalle profondità dei secoli. Le seguenti parole egli pronunciava nel ’73 in un grande libretto rusconiano, Il Paese umiliato (ripubblicato nel ’95 nel citato La tradizione tradita), un’acuta difesa della tradizione cattolica dell’Italia e insieme un’amara ma inattesa, profetica diagnosi, affiancabile a quella del Pasolini corsaro, della mutazione antropologica degl’italiani: «L’Italia che ci troviamo davanti è un Paese che non si riconosce più. L’assimilazione forzata di realtà e principii estranei alla sua tradizione le ha fatto conoscere l’ignominia già nota ad altri Paesi, compendiabile in un tratto: l’indifferenza verso la cosa pubblica, la chiusura nel privato». Giudizio esatto: il tarlo, il verme, il virus dell’individualismo (la riduzione della persona a individuo anonimo, senza volto) è premessa e condizione dell’assoggettamento massificante, della manipolazione del popolo compiuta da élites incuranti del bene comune. Un Paese nel quale, fatta fuori la presenza viva e autorevole della Chiesa (anche per autoesclusione di essa, per un venir meno della sua forte presenza critica), pure l’inestimabile patrimonio di cultura orale contadina e civile, della gratuità e della genuinità autentica, aliena da illuminismo e industrialismo, è stato soppiantato dalla tronfia, ideologica, sottocultura dell’istruzione statale obbligatoria utilitaria e asservita alla società dei consumi e all’agenda dei “diritti”. Ed è ipocrita piangerci sopra o illudersi d’ingaggiare crociate ecologiche inesorabili per riscattare l’ambiente alla verginità della natura: «[…] ma bisogna dire che l’ecologia è nulla, assolutamente nulla, se non è in rapporto alla cultura… Infatti, se ecologia è la definizione dei modi e dei mezzi di sopravvivenza, cultura è definizione dei fini per i quali vale la pena vivere». E, per non essere ambiguo, così soggiunge: «È chiaro che la cultura, per essere tale, deve avere un rapporto con la religione, anche quando i dogmi di questa siano caduti o divengano incredibili. Poiché è certo che se viene tolta la parte del mistero, nulla più può fermare l’uomo dal far saccheggio di ciò che si trova davanti, e dal far calcolo del tempo che impiega per farlo» (Come si distrugge una cultura, 1973). E si potrebbe – si dovrà – continuare, a ogni pagina, a ogni paragrafo, con stupefacente efficacia, e con beneficio di chi legge.
La citata lettera a Del Noce reca in fine la cosciente ammissione dell’enormità del “franamento” e di quanto occorra per provvedervi: «Il compito che ci attende è immane, e questo è il motivo per il quale non riusciamo a metterci d’accordo. Molti s’illudono che basti poco o pochissimo. E che non ci voglia la revisione totale della cultura italiana». Si tratta invece, nell’epoca della post-verità e dell’abiura del logos cristiano che ha fatto l’Occidente, di un compito simile a quello che si assunse San Benedetto da Norcia, il fondatore e patrono dell’Europa, con infinita speranza, devota e lunga abnegazione, e giudizio certo e affilato. Per questo sentiamo le parole di Quadrelli, non dissimili da quelle dell’Eliot dei Choruses From the Rock, come un appello, una chiamata, a ricostituire un tessuto umano di ragioni, significati e affetti condivisi, un’opera tenace nel presente offerta per un futuro possibile.
Speranza ardua, dunque, spes contra spem, la quale, come insegna Vaclav Havel, è “dimensione dell’anima… il contrario dell’ottimismo”: un’opera, appunto, una fabbrica. Ovvero, detto nei versi sublimi di Charles Péguy, la “virtù bambina” di Dio, quella che “sta in mezzo” alle due sorelle maggiori:
«È lei, quella piccina, che trascina tutto.
Perché la Fede non vede che quello che è.
E lei vede quello che sarà.
La Carità non ama che quello che è.
E lei, lei ama quello che sarà».