Dies nostri quasi umbra super terram
A V.
La vita è come un romanzo noir (non giallo!): si scopre il colpevole, nei confronti del quale si prova tuttavia, ultimamente e in senso etimologico, compassione. Questa è una verità esistenziale e metafisica: per comprendere la vita contemporanea, è forse più utile leggere Chandler che Guénon. Per accumulo di astenia e sofferenza – che induce la conoscenza, se filtrata da una acconcia “equazione personale” – prevale la comprensione che deriva da una “agnizione interiore”: il colpevole è in noi, possiamo riconoscerlo se scendiamo nel fondo del nostro cuore. Una verità che, ovviamente, nulla ha a che vedere col perdonismo straccione degli attuali preti, sociologi e psicologi, massa indistinta che abbassa la vita interiore al mondano, producendo la somma incomprensione che ha generato tutte le rivoluzioni dalla seconda metà del ‘700 in poi: l’applicazione delle verità cristiane al piano “naturale” (anche politico) tramite un lessico volutamente equivoco e spesso incongruo.
D’altronde, la riduzione del vocabolario mistico-ascetico a linguaggio della sociologia e della psicologia costituisce uno “scivolamento”, un guasto esiziale nella storia “culturale” di Occidente, un gigantesco misunderstanding di “piani dell’essere” cui forse non è estranea la natura virtualmente “esistenziale” del Vangelo e la cui causa storica è stata probabilmente il passaggio dalla mistica alla psicologia (M. Vannini, La morte dell’anima: dalla mistica alla psicologia, 2003), che ha causato la “profanazione” del cattolicesimo. Dal punto di vista del rito, la “fissazione”, pure dottrinalmente necessaria, della Messa romana ne ha determinato la “teatralizzazione” (finanche una certa “musealizzazione”), anche per usura storica: e dove ha inizio la trasformazione del rito da actio realmente e profondamente interiorizzata e “vissuta” dal celebrante (e dal popolo) in automatismo o teatro estetizzante (o antiquario), lì si possono individuare i primi germi dell’inesorabile, inarrestabile movimento di decadenza.
Posto che il rito è una successione ordinata di atti (una forma) che tendono a un fine, allora dal rito, pubblico e solo pubblico (Messa, processo, prima tragedia greca che sono, o accompagnano, actiones rituali fondate su formule pronunciate da personae–actores che dispongono di una certa autorità) si è passati quindi alla sua teatralizzazione e poi al parallelo, coevo spettacolo “gnosticheggiante” – che li ha “fagocitati”: il pensiero ha fagocitato il mondo” (Ortega y Gasset) –, caratterizzato da due livelli di “operatività” in cui il secondo trascende il primo, negandolo; la parola e il gesto, performativamente integrati in vista di un fine specifico e “trascendente” all’interno di un contesto “sacro” (la balaustra ha la funzione di separare l’azione rituale dal “profano”), sono stati sostituiti dalla visione dell’immanenza assoluta delle immagini autoreferenziali: un guardare passivo (e desiderare, poiché si desidera ciò che si vede) “enti fittizi” (phantásmata) prodotti da “rappresentazioni” (phantasíai), nell’ambito del quale le immagini-chimere prendono consistenza di iperrealtà fine a se stessa, mentre l’osservatore è come ipnotizzato da una fascinosa “estetica della superficie” (sul guardare come attività patologica, con annessa critica alla tv, v. il celeberrimo “La finestra sul cortile”, di A. Hitchcock, del 1954).
***
Sommariamente, e schematicamente, si può dire che la nostra epoca terminale è caratterizzata da:
- ipertrofia degli oggetti e dei servizi, che determina la velocizzazione delle attività, anche ordinarie, ed il fenomeno del “multitasking”. Gli oggetti, utilizzati in teoria per comodità e talora trasformati in “feticci” dall’estetica funzionale ma senza autentico (o razionale) uso, sono in realtà latori di angoscia; la comodità maschera e determina angoscia, che si “carica” proprio sui medesimi oggetti, come portato del nichilismo (consapevolezza, più o meno “attiva” a seconda delle sensibilità, dell’abbandono/nullificazione di una società/realtà fondata su ni-ente, ossia sull’heideggeriano “oblio dell’essere”);
- ipertrofia del pensiero strumentale (si pensa non più in termini di vizi/virtù, ma di profitti/perdite), che provoca dissipazione, scissione tra intelligenza e volontà, derealizzazione e vuoto-noia, in cui si inseriscono con facilità patologie psichiche e squilibri i più vari;
- vita come “puro automatismo” (Pio XII) in cui “ogni cosa sacra sarà sconsacrata” (Marx), dapprima nell’ambito dell’“imperialismo internazionale del denaro” (Pio XI): prevalgono le alchimie e le astrazioni della finanza, i bombardamenti a tappeto delle “guerre per la democrazia”, della chemioterapia, dell’infodemia (di “notizie”, ma soprattutto di immagini), la ricerca dei dati da parte dell’informatica in una società che ha eretto a proprio idolo (di cartapesta), tra gli altri, la cd. “privacy”;
- spettacolo come intrattenimento, divertimento (in senso etimologico) e informazione-deformazione; e dove c’è intrattenimento c’è noia, riempita coi “vuoti iconici” del potere onnipervasivo;
- malinconia-depressione come “sentimento della fine” ed effetto del disincanto del mondo (per l’isolamento della monade liberaloide), cui si cerca di rispondere con psicoterapie, nuove spiritualità e psicofarmaci; in particolare, questi ultimi ottundono l’intelligenza e deviano la volontà, a volte con esiti tragici; la depressione costituisce per l’appunto un “incantamento della volontà”, che si manifesta sia sul piano individuale che su quello sociale, svelando i rapporti organicamente “funzionali” tra i due livelli (ed una certa “sociogenesi” della depressione: A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi, tr. it. 1999);
- sproporzione, quindi, in ogni ambito, in contrasto con la virtù geometrica e con la proporzione sul piano macrocosmico e su quello microcosmico (corpo-anima): “ogni eccesso è un difetto”, e “la verità sta nel mezzo”. La mensura è difatti operazione “discriminante” propria della mens;
- inversione parodica (non trasmutazione!) dei valori: dall’operaio si è passati al debosciato senza arte né parte, ombra “marginale” del radical chic, che vi si specchia compiaciuto dopo che le teorizzazioni della sinistra sono state sconfitte dalla storia; dal cittadino lavoratore si è passati al consumatore (che è consumato da ciò che consuma passivamente senza posa, ossia le immagini “chimeriche” dello “spettacolo” ubiquo): i diritti umani rivelano la loro natura di doveri del consumatore, nel momento in cui ai primi non corrispondono reali doveri delle controparti.
***
Allo squilibrio che si manifesta anche per l’irrisolta dialettica azione-reazione operante in Occidente è succeduta quindi una autentica “inversione”, pratica (ascetica e morale) e teologico-metafisica. Vi è chi ha rappresentato la civiltà postmoderna come fondata su una sorta di “triade invertita”: idolatria, usura e sodomia (M.E. Jones, Logos Rising, 2020), attività sterili e autoreferenziali che danno luogo a “chimere”, ni-enti che si autonomizzano e si riproducono esponenzialmente senza essere fondati su referenti reali: “the autonomous reproduction of financial signs, once known as ‘usury’, removes the guarantor that appearances are meaningful. It assumes that money is a sign that breeds independently, without any reference to the external, natural world” (D. Hawkes, A ‘Cultural Marxist’ Critique of Logos Rising).
In questo senso, il capitale finanziario (che è prodotto da un capitale “culturale”) è il nemico ultimo, in senso teologico, del Logos; d’altra parte, il “capitale in noi” costituisce il dominio della brama e dell’accumulazione nella mente (motivata dalla paura della mancanza, che genera una esiziale distorsione cognitiva), ove in primis avviene la “rivoluzione”, ossia il processo di attribuzione di funzione performativa ad una rappresentazione (il segno diventa cosa che “opera” nel mondo, che ha un valore riconosciuto perché imposto o reiterato senza posa, e quindi cessa di essere segno, divenendo autonomo dal referente: si pensi al denaro ed alle immagini della pubblicità) (ibidem).
L’accumulo, non solo di capitali ma anche di desideri e affetti (si pensi alle “amicizie” su Facebook), è attività senza fine né soddisfazione ultima e genera, insieme all’antropocentrismo “assolto”, isolamento: “l’avaro non è mai soddisfatto di ciò che ha acquisito perché ciò che accumula sono sostituti e non realtà tangibili. Questa tesaurizzazione può riguardare anche le relazioni umane: accumulare legami, al fine di essere riconosciuti, è quando il bisogno di riconoscimento sostituisce quello di affetto” (J. Camatte, Sostituzione e estinzione); di ciò, la fase ultima è una sorta di solipsistico “cannibalismo relazionale” (cfr. il caso di J. Dahmer, che non uccideva come altri suoi colleghi per il gusto di uccidere, ma per non sentirsi solo). In ultima analisi, oggi siamo tutti sessantottini, apolidi anime in pena che ripetono senza posa slogan eterodiretti: la mente, e la stessa coscienza, sono state mediatizzate.
La nostra è una società di primitivi digitalizzati: la regressione a uno stadio “barbarico” di civiltà è dimostrata, oltre che dal ruolo egemonico delle “pulsioni” erette a sistema, anche dal largo uso del tatuaggio, una volta di esclusivo dominio dei “selvaggi”, dei marinai e dei galeotti, ed ora, del tutto decontestualizzato, eseguito per solo fine estetico, per moda o per espressione di identità (per essere “riconosciuti”). L’uomo postmoderno è stato in larga parte convinto del carattere letale del Covid attraverso la sua “teatralizzazione” e “militarizzazione” che, in particolare attraverso immagini “spettacolari” (il camion militare di Bergamo), hanno effetti emotivamente profondi: la cd. “pandemia” ha poi costituito uno straordinario pretesto per una operazione di “ingegneria sociale” su larga scala. Si tratta, a ben vedere, di una psicopatologia preternaturale mascherata da “scienza” (che sarebbe oggettiva, quando in realtà è quanto di più volatile ed effimero vi sia): una autentica possessione ideologica eterodiretta e indotta dai media.
Con riferimento alla sopra citata “triade invertita”, i “peccati che gridano vendetta verso il cielo”, formalizzati da San Pio X, sono: il sangue di Abele (Gen 4,10); il peccato dei Sodomiti (Gen 18,20; Gen 19,13); il lamento del popolo oppresso in Egitto (Es 3,7-10): il lamento del forestiero, della vedova e dell’orfano (Es 22,20-22); l’ingiustizia verso il salariato (Dt 24,14-15; Gc 5,4). Tutto ciò può essere reso con una parola: capitalesimo, che non è solo un modo di produzione e di consumo, ma anche e soprattutto un modo di vita onnicomprensivo ed onnipervasivo.
La teologia del capitalesimo, sebbene del tutto immanentistica e nullificante, si fonda su alcuni dogmi desacralizzati, mai formalizzati dalle potentissime cattedre di iniquità dominanti, vaghi e per ciò stesso più pervasivi (sia per la loro capacità di “incantare” le menti e i cuori, sia per il loro potere reale di ingiunzione, anche in assenza di norma giuridica), anche per il carattere sloganistico delle inviolabili asserzioni. Tra queste (con addentellati, estensioni e tutto ciò che ne consegue) possiamo citarne alcune:
- “l’olocausto non è soggetto a discussione”;
- “uomo e donna sono eguali”;
- “la donna ha il diritto di abortire”;
- “omosessualità e transessualità sono orientamenti sessuali naturali” (ovvero “scelte”, come se il dato biologico fosse mutabile in base a una effimera “impressione”).
Dal primo “postulato” discende il “diritto all’esistenza” di Israele, per il quale un altro postulato (la laicità) non vale, in quanto esso è un “luogo teologico” (contraddittorio, ma ben corroborato, oltre che dalle portaerei statunitensi, anche dal beota servilismo occidentale) cui è concessa la facoltà della “doppia verità”. Pure, “Olocausto”, “donna”, “omosessualità”, “democrazia”, “diritti”, “fascismo”, “mercato”, “aborto” non sono più parole dotate di senso (che rimandano a una realtà verificabile: nomina sunt consequentia rerum), ma rappresentazioni performative e strumenti retorici per sospendere ogni dibattito.
Lo ricordava Bordiga, dal punto di vista “ideologico”: l’errore fondamentale del gramscismo, tutto teso alla “liberazione del subalterno”, è stato quello di aver sostituito all’opposizione capitalismo-proletariato quella fascismo-antifascismo, facendo così proprio il gioco del capitale: inserendo poi la dicotomia, tra il morale e il metafisico, nel talk show, che non è altro che la prosecuzione della chiacchiera parlamentare all’interno del contenitore televisivo, ove l’apparente dibattito non è prova di pluralismo, ma di spettacolo (le tesi realmente eversive essendo escluse o, nella migliore delle ipotesi, ridicolizzate o criminalizzate). In questo senso, la forma religiosa dell’intrattenimento capitalistico è il “dialogo interreligioso” (che infatti non ha prodotto nulla).
Il capitalesimo, fuori dalla sua dottrina “fluida” e tuttavia inflessibile sul piano dell’applicazione, si può oggi osservare facilmente in action: esso ha ad es. i suoi apostoli e i suoi martiri, tra cui i lavoratori di McDonald’s, costretti dalla necessità delle circostanze a latrare interminabili litanie di numeri a velocità supersonica, mentre le turbe mediatizzate attendono il cibo dell’apocalisse. Ora, McDonald’s ha prodotto, via Vaticano II e ’68 (che sono più connessi tra loro di quanto si possa credere), “McMondo”, un universo entropico che è una copia invertita del reale, ove domina la mano invisibile del mercato, un Dio ozioso di ascendenza massonico-calvinista.
“Democrazia, democrazia”, ululano senza posa le torme belluine di Occidente, ricolme di avidità e di solipsismi beoti, ormai satolle di apericena di poke al tamarindo del Congo belga, mentre sono del tutto ignare del proprio assenso alla schiavitù ed alla barbarie più subdola della storia. I pupazzi che ogni tanto vengono colti sul fallo in terra straniera, ovvero i timonieri dei vascelli delle ONG, sono prodotti tipici del mondialismo in provetta, spesso allevati in prestigiose università occidentali, la cui “immagine rovesciata” è il terrorismo (anche i terroristi spesso hanno studiato lì!), fenomeno per definizione spettacolare (esso quasi non esisterebbe senza la TV; si pensi anche alla cd. “opinione pubblica”, che determina l’esito di molti processi). Essi non hanno altro ruolo che quello dei preti di strada sessantotteschi: contribuire alla distruzione di quel poco di buono che resta dell’edificio culturale di Occidente, passando pure per santi ed invitando le masse ad una forma voluttuosa di autocompiacimento suicida.
Le Rachete, gli Zaki, i Regeni, in teoria timonieri di vascelli o “ricercatori” in vista del Bene, sovrabbondanti di spirito francescano ma ben sovvenzionati da precise entità globaliste, sono in realtà affari e affaristi: merce mediatica che persegue la sua missione di mercificare e mediatizzare l’intero esistente (anche immateriale), contribuendo ad una deteriore “colonizzazione delle anime”. Qui la regola è la doppia verità del giudeo-massonismo, per cui ci si finge (o si crede di essere) attivisti del Bene, in realtà essendo agenti del nemico o spie. Lo schema è sempre il medesimo: le parole sono roboanti e inattaccabili. Chi può essere contro i “diritti umani”? Chi può opporsi al “salvataggio di vite”? E i “diritti dei bambini”?
L’“ideologia gender” (https://www.maurizioblondet.it/gender-arma-della-nuova-oppressione-libertaria/), come l’“ecoansia”, il “femminicidio”, il “matrimonio” omosessuale e l’utero in affitto sono astrazioni create dalla convergenza tra noia, ideologia, capriccio e lucrose affabulazioni. Peraltro, il confine tra ricerca, filantropia e spionaggio è spesso molto labile, poiché le tre attività sono necessariamente correlate. A ogni modo, oggi la doppia verità è la norma: viviamo in un mondo ove non dissimulare è peccato (forse “il” peccato), e il fine è il caos. La posizione del valore ha determinato la reazione del controvalore, che è divenuto legge. Gravior est inimicus qui latet in pectore…
***
La cd. “liberazione sessuale” asseconda l’ordinato movimento di antropomorfizzazione del capitale (si pensi alla pornografia, diffusa nel contesto di “liberazione della donna”, che in realtà è una merce da usare, degradare e vendere, per lo più ai maschi), che richiede sempre nuova “mercanzia umana à la page”, valorizzando e creando devianze” (G. Collu); tutt’altro che rare, peraltro, risultano le connessioni tra pedopornografia, servizi e satanismo (https://cosco-giuseppe.tripod.com/tendenze/pedofilia.htm; si pensi anche al caso dei “Finders”, a suo tempo definito “affare interno della CIA”). Nel “supermercato dell’amore realizzato dal capitale […] l’acquirente […] non ha più che da programmare la propria combinatoria […] Ora, il più grande produttore di possibili è il capitale stesso, il cui motto distintivo potrebbe essere: tutto è possibile!” (J. Camatte).
Ancor più radicalmente, “essendo una forma senza contenuto, esso [il capitale] può autonomizzarsi e adattarsi a qualsiasi cosa. Cosí ogni essere umano diventa supporto per una forma di capitale che permette la
piena realizzazione della sua antropomorfizzazione […] Dato che il capitale si manifesta e si realizza nella modalità dell’incremento — esiste solo se produce continuamente un incremento — può essere il supporto sostitutivo dell’insaziabilità umana” (J. Camatte, Sostituzione e estinzione).
Il “possibile pensato”, senza referente reale (o norma morale cogente perché interiorizzata o, al peggio, imposta), è supremo artificio. Spettacolo e consumo (al tempo stesso obbligo sociale e coazione “psicologica” individuale) sono le categorie “simboliche” e “sociali” attraverso cui si possono disvelare gli abissi del nichilismo occidentale, fuori dalle pastoie dell’economicismo e del sociologismo. Ciò che aliena è lo spettacolo, inteso come la somma mistificazione, un diuturno discorso del potere su se stesso; in esso, l’immagine si separa dalla vita divenendo feticcio (si pensi al brand o, in altro contesto, alla creazione ex nihilo della moneta da parte del sistema bancario, che il premio Nobel A. Allais ha equiparato all’attività dei falsari), producendo un sistema “iconico” di rappresentazioni autoreferenziali, destituito di fondamento ontologico (esso è però “reale” come ”inversione del reale”!), ma efficacissimo sul piano della conservazione dei rapporti sociali (un po’ come una sentenza giudiziaria errata).
“Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini”, una “visione del mondo che si è oggettivata. Lo spettacolo è sia il mezzo, sia il fine del modo di produzione vigente” (G. Debord, La società dello spettacolo, 1967, IV tesi). La garanzia della conservazione dello spettacolo sta nell’isolamento dell’individuo (e delle masse): l’atomo della società dello spettacolo è anche automa, servo sciocco della saturazione delle immagini.
In altre parole, “lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine”: pubblicità nel mondo “libero”, propaganda presso le dittature (ibidem [corsivo nostro]; ma, nella realtà attuale, la distinzione teoretica e storica tra democrazie e dittature è spesso fallace). In particolare, l’anima del capitalesimo è per l’appunto la pubblicità, il cui messaggio profondo è costituito dall’immagine (“il mezzo è il messaggio” [M. McLuhan], che ad ogni modo trova la sua perfetta espressione in Gesù Cristo, in cui solo forma-persona e contenuto coincidono), che penetra e si “fissa” quasi indelebilmente nell’inconscio dello “spettatore”, testimone passivo ed alienato dell’incessante e autoreferenziale “spettacolo”.
***
Strettamente correlati al consumo sono gli oggetti, fondamentali per costruire una storia materiale che è anche (soprattutto) una storia della mentalità (di ciò che spesso non è detto, perché ineffabile o perché semplicemente vissuto senza sovrastrutture intellettuali), dello zeitgeist. Con il ’68, la parola d’ordine diventa, su scala onnicomprensiva, “liberazione”, con un significativo paradigm shift: “la trafila della produzione porta dal lavoro al sesso, ma cambiando di binario: dall’economia politica al libidinale (ultima acquisizione del ’68) vi è la sostituzione di un modello di socializzazione violento e arcaico (il lavoro) con un modello di socializzazione piú sottile, piú fluido, a un tempo piú psichico e piú vicino al corpo (il sessuale e il libidinale). Metamorfosi e svolta dalla forza lavoro alla pulsione, […] Ormai non si dice neppur piú: ‘tu hai un’anima e bisogna salvarla’, ma ‘tu hai un sesso e devi trovarne il buon uso’, ‘tu hai un inconscio e bisogna saperne godere’, ‘tu hai un corpo e bisogna saperne godere’, ‘tu hai una libido e bisogna saperla spendere’, ecc. ecc.”, che è la forma della realizzazione attuale del valore, la “forma del capitale”, e la sessualità è “il modo della sua epifania […] al livello dei corpi” (J. Baudrillard, Dimenticare Foucault, 1977).
Come il lavoro è stato svincolato dalla produzione, il sesso è oggi svincolato dall’amore (dalla procreazione), serializzato (tendenzialmente uniformato a una norma ritenuta sempre più “trasgressiva), “pubblicizzato”; e in questa temperie culturale tutto è spettacolo, visto che anche in momenti “drammatici” quali le esequie non si sa neppure tacere, ma dominano il patetico lancio dei palloncini, i ricordi artificiosi dei convenuti dal pulpito e l’applauso, inopportuno e irrazionale, mutuato dallo show televisivo. Come ha ben rilevato Iannaccone in merito alla diuturna “rappresentazione” della morte in Occidente, “lo spettacolo della morte […] acquista importanza proprio nel momento in cui la società ‘occidentale’ […] si secolarizza e deve sostituire il sacrificio eucaristico con qualcos’altro perché viene a mancare il capro espiatorio” (Meglio regnare all’inferno. Perché i serial killer popolano il cinema, la letteratura e la televisione, Torino 2017, p. 309; corsivo nostro).
Come la morte, il sesso è quindi l’oggetto di uno spettacolo che si riproduce nelle camere da letto (ma spesso, prima, sui pc e chissà dove) di Occidente, in cui pertanto l’attore è prima di tutto spettatore passivo (guarda, ma non “vede”): un desiderio di “trasgressione” mai pienamente soddisfatto lo penetra, dando luogo ad un progressivo abbassamento del “comune senso del pudore” (del limite, che fu oltrepassato “paradigmaticamente” dai progenitori nell’Eden, quando essi peccarono non riconoscendo il limite della loro creaturalità) ed alla invenzione di artifici i più vari per contrastare la noia della “normalità”.
Per l’appunto, “la separazione dalla natura si esprime al meglio nella questione della riproduzione, come si constata nella rivendicazione di
procreazione medicalmente assistita per lesbiche, gay, transessuali e bisessuali, con il desiderio di realizzare l’uomo aumentato, ma si tratta pur sempre di una dinamica umana, patologica. Verrà quindi sostituita, per quanto riguarda la sessualità, dall’utero artificiale, che permette di produrre in serie bambini perfetti, e da multiple relazioni sessuali variate grazie alla cybersessualità” (J. Camatte, Sostituzione e estinzione).
La natura profonda del potere è simbolica, fondata su quei simulacri che Baudrillard stesso sosteneva essere oggetto di adorazione della società postmoderna, che è fondamentalmente una società “di simulazione” retta dal quinto potere. La forza motrice dello sviluppo del capitale è quindi il desiderio (consistenza “reale” dell’immaginario), e l’uomo non sarebbe altro che una macchina desiderante. Il desiderio, però, non può essere mai pienamente soddisfatto (Aristotele): tutte le brame più strampalate o propalate al volgo come “anticonformiste” sono in realtà funzionali alla “forma del capitale”, che non conosce limite (e per questo è destinato alla autoconsunzione).
Qui si vede come il ’68 fu l’espressione “apicale” (e “vincente”, oltre che totalitaria) del capitalesimo, mascherata da rivoluzione “comunista”: due suoi slogan intimamente connessi, “vietato vietare” e “l’immaginazione al potere”, avevano appunto lo scopo di liberare le fantasie e le pulsioni infere, elevandole a norma (dove c’è divieto c’è desiderio). Inoltre, l’asimmetria ideale-reale, già strutturale al desiderio ma qui pervicacemente e artificiosamente sperimentata, determina negli individui-monadi rabbia e senso di “vacuità”, insignificanza, in cui si infiltra la depressione. Pure, l’omosessualità costituisce l’immagine “privata”, settaria, del capitalesimo, di cui riproduce i rapporti “metasociali” schiavo-padrone (oggi non necessariamente legati al contesto di fabbrica, o anche semplicemente relativo alla proprietà dei mezzi di produzione) sul piano “intimo”, in cui l’altro è reificato come mezzo di piacere (di dominio e di controllo), con esiti spesso luttuosi: “Chi vive dello stesso perirà dello stesso […] Noi siamo in una società incestuosa. E il fatto che l’AIDS ha toccato prima gli ambienti omosessuali o drogati attiene a questa incestuosità dei gruppi che funzionano in circuiti chiusi” (J. Baudrillard). Come è noto, la divaricazione del ’77 portò Baudrillard e Camatte (e Collu) a liberarsi delle ipoteche proprie della teoresi di Foucault, Mieli e Negri, che postulavano una sorta di radicalismo sincretico in cui potere e sessualità erano integrati (tale integrazione, lo ripetiamo, essendo del tutto funzionale al potere che essi sostenevano di combattere).
***
Tutto ciò, in Occidente, è detto libertà, ma in realtà costituisce la più sottile forma di schiavitù mai escogitata, cui sono sottoposti servi più o meno mediatizzati e consenzienti. Ma ci sono agenti consapevoli, da non confondere banalmente con il (presunto) “grande vecchio” che muove le fila delle marionette, sottoposte più o meno consapevolmente ai valori ed alla prassi della necrocultura. Giustamente, si è voluto sostituire l’abusato termine “complotto” con quello più elaborato (e realistico) di “strategia culturale” (D. Fabbroni), che ha per fine quello di diffondere “nell’aria” idee attraverso il metodo della “finestra di Overton” (o della rana cotta a fuoco lento) (M. Blondet, Gli Adelphi della dissoluzione, 1994).
Come sempre, domina chi possiede il monopolio delle idee, oltre che, in particolare oggi, quello delle immagini. In questo finissimo lavorio psichico un ruolo centrale ha il linguaggio (cfr. A. Tonelli, I Greci in noi, Sesto San Giovanni [Mi]), 2013): “lavoro”, oggi, spesso sta per schiavitù o alienazione, nel contesto di una società ad alto grado di progresso tecnologico e di miseria interiore (ad alto grado di progresso tecnologico perché miserabile dal punto di vista interiore?). La civiltà tardocapitalista ha difatti variamente nobilitato le sue intenzioni, ad es. attribuendo al lavoro femminile la funzione di “liberazione” delle donne: che si emanciperebbero con il lavoro fuori casa, mentre è ben noto che il lavoro di segreteria fu necessità lucrosa delle grandi corporation.
***
L’epoca postideologica e ipermoderna in cui viviamo costituisce dunque il trionfo dell’artificio supremo: del merceologico, del sessuologico, dell’immaginifico che penetra e rimane nel fondo dell’anima delle monadi liberali (nell’inconscio), senza quella “barriera” forte una volta costituita dagli Stati, dalla comunità, dalla Chiesa: ossia, dal radicamento “culturale”. Dal lavoro come fatto oggettivo, funzionale alla produzione di beni servibili e in qualche modo socialmente orientato, l’asse “culturale” della civiltà occidentale è passata alle astrazioni del sesso e dell’immagine (si pensi al ruolo e all’impatto della pornografia sulle menti e sulle vite di miliardi di persone), funzionali al consumo omologato ed al simmetrico dominio di una classe di “eletti”.
Cruciali, nella anglosassone “new left” e nel nostro “movimento studentesco”, sono state le abbondanti iniezioni della teoresi della “Scuola di Francoforte”, autentica scuola di sovversione in cui la cultura, per lo più riferita agli ambiti della sociologia e della filosofia, non è stata concepita come ricerca disinteressata del vero, del bello, del buono, ma come mezzo atto a costruire la base di una radicale ristrutturazione tecno-elitista dell’Occidente: presso cui il libertarismo costituisce una utile concessione, funzionale alla soggezione (alienazione) delle masse, il cui portato psicopatologico è, inevitabilmente, la ciclotimia generalizzata. Il neomarxismo dell’Istituto per la Ricerca Sociale, coniugato col freudismo di Reich e con l’Heidegger più “addomesticabile”, costituisce la “teoria critica”, di cui sono stati maestri Fromm, Marcuse, Horkheimer, Adorno: un individualismo, a parole anticonformista e antiaccademico, che individua nel libertarismo la sua stella polare.
La distruzione dei valori tradizionali (anche borghesi) è quindi funzionale all’instaurazione del totalitarismo liberal, tecnocratico (neoborghese: la “borghesia allo stato puro”) (per il contesto tedesco si può vedere R. Kosiek, Il ‘68 al potere. La scuola di Francoforte e la sua azione distruttiva sulla Germania di oggi). In ultima analisi, l’homo ludens di Marcuse, una sorta di selvaggio, infantile, umorale e capriccioso, non solo non costituisce la soluzione del problema dell’alienazione, ma, attraverso la piena disinibizione dagli istinti, realizza la creatura neoborghese dell’affarista, dell’usurocrate del tutto privo di scrupoli che non siano il proprio “piacere” (la sua attività, peraltro, non si limita al solo ambito “lavorativo”, ma costituisce un autentico stile di vita, ufficialmente rispettabile di giorno).
Dio ha creato il mondo giocando, per amore: e per amore lascia sempre libere le sue creature. L’ultimo uomo è il broker di Wall Street, il cui aspetto “notturno” è compendiato nel serial killing, epitome conclusa del capitalesimo, con cui condivide la deregulation malvagia ed assoluta. Egli uccide, a ben vedere, non solo di notte: e, con un grado di perfidia e di “nonsense” che ha del preternaturale, il cerchio si chiude. Egli sacrifica vite innocenti, spesso, con motivazioni materialmente “futili” ma pregnanti: per sperimentare cosa si prova a farlo (potere “privato”) e per il “thrill of it all” (potere “pubblico”, consistente nella sfida nei confronti dell’istituzione, delle forze dell’ordine e dei media, che si vogliono tenere sotto scacco), di cui una espressione significativa è la fama: quindi, ultimamente, per noia. Il suo gioco, ad ogni buon conto, è un ferale rituale sperimentale, spesso sessualmente connotato (ci sono degli omicidi seriali che uccidendo raggiungono l’orgasmo!), di morte e distruzione senza senso (senza destinazione né significato “estrinseci”), che illustra alla perfezione la natura del potere – del gioco e dei “poteri” – della società tardocapitalistica, di cui costituisce il “negativo complementare”.