dal sito della Fraternità San Pio X
La Fraternità San Pio X ritiene opportuno rispondere alle obiezioni teologiche mosse nei suoi confronti da Padre Cavalcoli, in merito alle questioni aperte relative al Concilio Vaticano II.
Peraltro il padre domenicano si è fatto da tempo portavoce di un’area di pensiero “conservatrice” che esclude, accanto alle interpretazioni ultraprogressiste, qualunque tipo di critica al Concilo, alla sua autorità, alla sua indiscutibile infallibilità. Pertanto le obiezioni del padre acquistano una valenza del tutto particolare nel quadro degli ultimi sviluppi del dibattito che si è aperto sul Concilio. Attraverso la presente risposta la Fraternità intende precisare la propria posizione rispondendo complessivamente ad obiezioni vecchie e nuove sul tema in questione.
Ringraziamo sinceramente il padre domenicano per l’interesse che dimostra verso questo tema e per l’opportunità che ci offre per approfondirlo.
FRATERNITA’ SACERDOTALE SAN PIO X
DISTRETTO D’ITALIA
Risposta al Rev. Padre Cavalcoli O.P.
Albano Laziale, 05-04-2011
Le critiche di Padre Cavalcoli
Padre Giovanni Cavalcoli, sacerdote e teologo domenicano, in un suo articolo del 28 febbraio 2011, «La Tradizione contro il Papa» (pubblicato da www.riscossacristiana.it ) tenta di dimostrare come l’atteggiamento dei cosiddetti “lefebvriani” sia incompatibile con un atteggiamento autenticamente cattolico. I “lefebvriani” avrebbero, secondo il Padre, ceduto a una tentazione, tentazione alla quale hanno ceduto anche protestanti e modernisti (ed ecco che gli estremi opposti sembrerebbero incontrarsi), e cioé «quella di crearsi la convinzione gratuita ed infondata che per sapere infallibilmente che cosa Cristo ci ha insegnato non c’è bisogno di stare agli insegnamenti o all’interpretazione del Magistero vivente ed attuale- per esempio quello di un Concilio-, ma è sufficiente porsi a contatto diretto e personale o con la Scrittura o con la Tradizione. Il primo è stato l’errore di Lutero ed oggi dei modernisti, soprattutto in campo esegetico; il secondo è l’errore dei lefebvriani». I “lefebvriani” non si renderebbero conto che «ogni Concilio è testimone della Tradizione, ma di un suo stato più avanzato, in base al quale si giudicano le fasi precedenti e non viceversa. (…) Avviene così che come i protestanti pretendono di giudicare l’insegnamento dei Papi alla luce di un contatto diretto e soggettivo con la Scrittura, trovando nei Papi un’infinità di errori, similmente i lefebvriani pretendono di giudicare gli insegnamenti del Magistero posteriore al 1962 (come ha osservato lo stesso Benedetto XVI) alla luce di un contatto immediato e parimenti soggettivo con la Tradizione, essi pure credendo di trovare nel Concilio e nei Papi del postConcilio una falsificazione di certi dati della Tradizione». Ma non è tutto: «i protestanti, i modernisti ed i lefebvriani non si accorgono che con questo loro atteggiamento, per quanto si annoverino tra di loro teologi dotti e dottissimi, finiscono con la pretesa di avocare a sé quel dono di infallibilità che Cristo non ha assicurato né ai teologi né agli esegeti né agli storici della Chiesa, ma ai soli Vescovi, successori degli Apostoli, uniti al Papa e sotto la guida del Papa».
Padre Cavalcoli poi risponde ai «pretesti speciosi quanto inconsistenti» a cui i “lefebvriani” si appigliano per sottrarsi al «dovere di accettare le dottrine del Concilio». I pretesti sarebbero soprattutto due: «1. si dice che il Concilio è solo pastorale e non dottrinale; 2. si afferma che nel Concilio non sono stati definiti nuovi dogmi e che quindi le sue dottrine non sono infallibili. Quindi, conclusione,- essi dicono- possiamo correggere il Papa e il Concilio in base alla “Tradizione”». Ecco la risposta del Padre: «non è vero che gli insegnamenti del Concilio sono solo pastorali, ma si danno, come hanno affermato più volte i Papi del postConcilio, anche insegnamenti dottrinali, come tali infallibili, giacché perché si dia dottrina infallibile – ossia assolutamente e perennemente vera – non è necessario, come la Chiesa stessa insegna (Vedi Istruzione “Ad tuendam fidem” della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1998), che il Magistero dichiari esplicitamente o solennemente che una data proposizione è di fede, ma è sufficiente che di fatto si tratti di materia di fede. Questo pronunciamento viene qualificato dalla detta Istruzione come “definitivo” ed “irreformabile”, il che è come dire infallibile».
La conclusione di Padre Cavalcoli appare abbastanza chiara: i lefebvriani non si possono dire veramente cattolici, visto che il loro atteggiamento è analogo a quello dei protestanti e che rifiutano il Magistero attuale del Papa e dei Vescovi, regola immediata di fede, nonché gli insegnamenti irreformabili dunque infallibili dell’ultimo Concilio. Solo che, se la conclusione gode di qualche apparenza di verità, sembra dovuto al fatto che Padre Cavalcoli faccia una grande economia delle distinzioni: distinzioni che però sono necessarie per capire la posizione di Mons. Lefebvre e di quelli che lo seguono, i cosiddetti “tradizionalisti”. Riprendiamo allora le critiche mosse dal Padre.
I lefebvriani: inconsapevolmente protestanti?
In primo luogo i “lefebvriani” commetterebbero un errore nei confronti della Tradizione della Chiesa e del Magistero attuale analogo a quello dei protestanti nei confronti della Scrittura. L’analogia si può esprimere con l’equazione: il protestantesimo sta alla Scrittura come i lefebvriani stanno alla Tradizione. Certo, trovare punti di incontro tra le posizioni più disparate non è cosa difficile, ma l’analogia potrebbe essere interessante in quanto effettivamente evidenzia una difficoltà, qualcosa di “anormale”: il fatto che delle persone che si dicono cattoliche si oppongano a un “magistero attuale e vivente” come hanno fatto gli eretici, in special modo i protestanti. Solo che questo “come” su cui si fonda l’analogia può essere preso in sensi diversi: “come” può indicare la semplice somiglianza del “fatto”, oppure anche la somiglianza nel modo e nel valore dei fatti. In quest’ultimo caso il comportamento dei lefebvriani tenderebbe all’eresia, ma la somiglianza nel primo caso non prova niente necessariamente: se il fatto di opporsi a un “magistero attuale” è un atto la cui liceità è in assoluto possibile anche se in circostanze straordinarie, l’analogia non ci può dire se i lefebvriani si trovino o no effettivamente in queste circostanze. Per sapere oggettivamente quale valore dare all’analogia si dovevano fare delle distinzioni che il Padre non ha fatto. La prima importante distinzione è che rifiutare ogni insegnamento della Chiesa docente in quanto tale, come fanno i protestanti, è evidentemente e in ogni caso illecito, mentre rifiutare qualche insegnamento di un vescovo o persino di un Papa per ragioni gravissime, come vedremo, può essere lecito. Altra distinzione: per i protestanti, ricorrere alla Scrittura senza la Tradizione e la mediazione del Magistero è una questione di principio, principio che costituisce un punto di partenza “a priori”. Per i tradizionalisti invece, ricorrere al Magistero passato senza o contro il Magistero1 attuale è una questione di fatto e non di principio. I tradizionalisti riconoscono come cattolici che la regola di fede per i membri della Chiesa di un’epoca determinata è “di norma” e prima di tutto l’insegnamento “vivente” dei pastori della Chiesa. In questo la fede e dottrina dei tradizionalisti concorda con quella di Padre Cavalcoli. Se i tradizionalisti fanno opposizione all’insegnamento attuale, è solo “a posteriori” e a causa di una serie di circostanze eccezionali. Per questo, prendendo l’analogia qualitativamente e non secondo una somiglianza superficiale, risponde di più al vero negare l’analogia tra protestanti e lefebvriani visto che il rapporto tra protestanti e Scrittura (regola immediata di fede per principio, a-priori e in ogni caso) non è come il rapporto tra lefebvriani e Magistero passato (regola immediata che non esclude l’insegnamento attuale per principio e in ogni caso, ma solo “a posteriori” e in circostanze di gravità eccezionale).
La somiglianza superficiale notata da Padre Cavalcoli nasconde un’altra differenza essenziale tra l’atteggiamento dei lefebvriani e quello protestante: prendere la Scrittura come regola immediata di fede non è come prendere il Magistero passato come regola di fede. La ragione è che tra Scrittura e “Magistero regola immediata” c’è una differenza essenziale (la Scrittura è insufficiente rispetto all’oggetto totale della fede e richiede in ogni caso la mediazione della Chiesa, il Magistero passato no), mentre tra Magistero passato e “Magistero regola immediata” la differenza è al massimo accidentale: tra Magistero attuale in quanto tale e Magistero passato in quanto tale la differenza è cronologica e non sostanziale. Il Magistero passato è stato attuale e l’attuale sarà passato. Perciò, come vedremo, il periodo di tempo che separa l’atto di fede del fedele dal Magistero passato non impedisce di per sé la funzione regolativa di quest’ultimo in materia di fede e costumi. Evidentemente questo non prova ancora che i tradizionalisti facciano bene, ma almeno impedisce di classificarli frettolosamente nel rango degli eretici o quasi-eretici.
Se ci limitassimo dunque alla sola analogia del “fatto”, la somiglianza dei rapporti perde il suo valore. Potremmo pure dire, per esempio, che Lutero è stato condannato da Papa Leone X come Sant’Atanasio è stato condannato da Papa Liberio. Ma quale valore ha questa analogia? Quale rapporto tra l’eresiarca e il grande difensore della Tradizione? Lo stesso vale per l’analogia tra protestanti e “lefebvriani”: è un’analogia superficiale che poggia sul solo “fatto”, nascondendo le differenze essenziali che permetterebbero di distinguere tra posizione illecita e posizione lecita.
Il Magistero passato e la regola immediata della fede
Il Padre poi obietta che secondo la dottrina cattolica per sapere infallibilmente che cosa Cristo ci ha insegnato c’è bisogno di stare agli insegnamenti del Magistero attuale e che non è sufficiente porsi a contatto diretto e personale con la Scrittura o la Tradizione o col Magistero passato. Come abbiamo detto, l’obiezione sarebbe efficace se per i tradizionalisti l’opposizione all’insegnamento attuale fosse una questione di principio come lo è per i protestanti e se il rapporto avesse lo stesso valore nei due casi. Ma il problema è un altro e il Padre sembra non voler affrontarlo rifuggendo le distinzioni: posto che di norma2 l’insegnamento attuale del Papa e dei vescovi è regola immediata per la fede (perché è il più adatto ad indicare in modo perfettamente chiaro e comprensibile il contenuto della fede ai fedeli di una data epoca storica), ci si chiede se questo principio sia assoluto oppure se soffra delle eccezioni. Se l’insegnamento del Papa o dei vescovi fosse sempre infallibile, il principio sarebbe assoluto. Ma non è così. Il Padre non può negare che non ogni insegnamento uscito dalla bocca del Papa e dei vescovi è infallibile (lo vedremo chiaramente parlando delle condizioni dell’infallibilità). Quindi l’errore nell’insegnamento attuale è possibile. Non si può negare almeno in linea teorica questa possibilità. Ora è evidente che, in questa ipotesi teoricamente possibile, quell’insegnamento attuale erroneo non potrebbe essere “per sé” regola immediata di fede. Potrebbe essere regola per i fedeli al limite solo “per accidens” se i fedeli, non avendo la certezza di essere di fronte ad un errore, per prudenza e per rispetto, aderissero comunque a quell’insegnamento.
Ma ecco che interviene un’altra possibilità che il Padre non può scartare “a priori”: la possibilità che i membri della Chiesa, nella eventualità rarissima di un insegnamento attuale erroneo, si rendano conto con certezza di questo errore, ricorrendo al Magistero passato o alla Tradizione. Padre Cavalcoli non può pretendere che il ricorso al Magistero strettamente attuale sia l’unico mezzo per sapere infallibilmente la vera dottrina. Preso in modo strettissimo e quasi “matematico”, questo principio porterebbe all’assurdo: infatti l’insegnamento che il Papa ha dato due giorni fa non è più “attuale” in senso stretto, ancor di meno quello di un Concilio che ha avuto luogo 50 anni fa. Ad essere precisi, la verità è che per un atto di fede attuale di un membro della Chiesa, la regola prossima è sempre un insegnamento passato (almeno di qualche istante). Perciò, sebbene sia vero che l’insegnamento “attuale” come lo intende il Padre, sia “di norma” la regola più certa e immediata (in quanto più capace di adattarsi alle situazioni ed esigenze di comprensione dei fedeli ad un dato momento storico), un Magistero un pochino anteriore a quello “attuale” (ma anche uno lontano nel passato) può essere regola immediata di fede, visto che, grazie a una ricerca storica qualche volta anche abbastanza facile, un membro della Chiesa può sapere con certezza morale ciò che in passato la Chiesa ha voluto insegnare.
Anzi non si può escludere che in certi casi l’insegnamento di un Magistero anteriore a quello attuale sia più chiaro di quello del Magistero presente. In questo senso, quando il Padre dice che “ogni Concilio è testimone della Tradizione, ma di un suo stato più avanzato, in base al quale si giudicano le fasi precedenti e non viceversa”, la frase potrebbe essere giusta come norma generale, ma non si può escludere in assoluto che, in tempi di crisi, le affermazioni chiare del passato possano chiarire o giudicare le affermazioni ambigue o errate di un insegnamento presente: è questo il senso del famoso “Commonitorium” di San Vincenzo di Lérins (V secolo), grande difensore della Tradizione. In esso si legge: «Cosa farà il cristiano cattolico se qualche piccola parte della Chiesa si staccherà dalla comunione, dalla fede universale? Quale altra decisione prendere, se non preferire alla parte cancrenosa e corrotta il corpo nel suo insieme che è sano? E se qualche altro nuovo contagio cerca di avvelenare non più una piccola parte della Chiesa, ma tutta quanta, allora sarà sua massima cura attenersi all’antico, che evidentemente non può essere sedotto da alcuna novità menzognera». E la storia sta a mostrare che questa non è una supposizione puramente teorica ma che, in tempi appunto di crisi (pensiamo alle ambiguità di papa Liberio durante la crisi Ariana, oppure le ambiguità di Papa Onorio I che favorirono l’eresia monotelita, come affermò il suo successore nel primato Leone II) si possa realmente dare questa situazione: contra factum non fit argumentum. La crisi che viviamo da 50 anni è un altro “factum” che mostra che questa possibilità può divenire realtà. La stessa «ermeneutica della continuità» cara a Benedetto XVI è una confessione palese di questa possibilità: ci si riferisce direttamente alla Tradizione e al Magistero passato per comprendere “correttamente” gli insegnamenti del Concilio, suscettibili di interpretazioni “progressiste”: in questo caso la regola immediata e determinante è il Magistero anteriore, ciò che è regolato o determinato è l’interpretazione di un insegnamento conciliare posteriore. È assurdo pretendere che l’insegnamento dei Papi precedenti non possa essere per noi regola immediata di fede: basta poter conoscere con certezza il contenuto della fede mediante l’espressione della Chiesa docente. L’insegnamento del Concilio Vaticano II non è più un insegnamento attuale in senso stretto eppure il Padre non sembra negargli lo statuto di «regola immediata della fede». E il Concilio Vaticano I sarebbe troppo lontano perché i membri della Chiesa possano riferirvisi direttamente? Le definizioni del Concilio di Trento non sarebbero più comprensibili per noi? No anzi: si può dire in tutta verità che quei due grandi Concili, grazie anche al ricorso che fecero alla “rigida” terminologia e dottrina scolastica, siano più adatti ad essere compresi dai tempi posteriore rispetto al Concilio Vaticano II che ha cercato di sposare la terminologia e i modi di pensiero di un’epoca particolare. I fatti lo mostrano in modo eloquente: quale di questi Concili ha posto più problemi e difficoltà di interpretazione cioè di “ermeneutica”? La risposta è ovvia. Il Concilio Vaticano I o quello di Trento sono dunque meglio qualificati per assumere il ruolo di regola della fede.
Bisogna allora concludere che non è impossibile ricorrere direttamente al Magistero passato, alla Tradizione, e in tempi di crisi dell’autorità, rendersi conto di una eventuale ambiguità o persino di una contraddizione tra gli insegnamenti dell’autorità attuale e l’insegnamento perenne ed infallibile della Chiesa.
Sembra che Padre Cavalcoli sia rimasto indietro nel dibattito attuale: invece di negare “a priori” la posizione dei tradizionalisti negandone la possibilità, è molto più ragionevole discutere sul fatto se si dia o no la situazione eccezionale che invocano. Ma il Padre non riesce comunque a capire questa opposizione dei tradizionalisti per un altro e forse più importante motivo: un’opposizione persino rarissima e straordinaria è comunque illecita poiché le dottrine del Concilio e del Magistero attuale che sono in gioco sarebbero irreformabili e infallibili. Riducendo le condizioni richieste per l’esercizio dell’infallibilità, Padre Cavalcoli vede la presenza di questo privilegio nell’esercizio di un magistero che i tradizionalisti contestano. Evidentemente, se le cose stessero come dice il Padre, l’atteggiamento dei lefebvriani sarebbe inammissibile. Ritorneremo su questo problema dopo aver chiarito un altro punto: quello del significato preciso dell’infallibilità.
I lefebvriani sono infallibili?
Illustriamo il punto esaminando un’ulteriore obiezione che Padre Cavalcoli rivolge ai lefebvriani. Potrebbe infatti dire ai tradizionalisti: «anche qualora questo Magistero attuale non fosse infallibile, sembra che per opporsi prudentemente bisognerebbe essere dotati di quell’infallibilità che negate agli unici che sono in grado di possederla». In altre parole il Padre chiede ai tradizionalisti: siete o no infallibili? (la risposta sarebbe «no naturalmente»). Allora se non lo siete vi potete sbagliare e quindi avete il dovere di dare il beneficio del dubbio all’autorità suprema sopratutto dal momento che gode o almeno può godere dell’infallibilità.
L’obiezione riposa in realtà su un’altra ambiguità. Somiglia molto a una vecchia obiezione degli scettici che pretendevano grazie ad essa che fosse impossibile avere delle certezze assolute: se possiamo sempre sbagliarci, perché l’infallibilità non è un privilegio naturale dell’uomo, come essere veramente in possesso di una verità assoluta, visto che affermandola dobbiamo essere coscienti che cadere in errore non è mai impossibile per noi?
Per rispondere pienamente, bisogna servirsi di una distinzione logica forse un po’ sottile, sulla quale si passa velocemente nei corsi di logica, ma che risolve la difficoltà. Si tratta di chiarire una ambiguità nel concetto di «infallibilità». L’infallibilità di un soggetto si può esprimere con quello che in logica si chiama una proposizione modale: «è impossibile che questa persona si sbagli». In una modale si distingue tra il “dictum” («questa persona si sbaglia») e il “modus” («è impossibile che»). Ora in questo tipo di modale il “modus” può dare due significati differenti alla proposizione. Infatti la proposizione modale può essere presa “in sensu composito” (il “dictum” è preso come soggetto e il “modus” come “predicato”) oppure “in sensu diviso” (i termini del “dictum” si trovano divisi tra soggetto e predicato e il “modus” è preso avverbialmente rispetto alla copula). Per chiarire il concetto ecco un esempio classico: prendiamo la modale «possibile est sedentem stare» («è possibile che colui che è seduto stia in piedi»). “In sensu composito” il “dictum” è preso in modo unitario e il “modus” come predicato. Il senso è: “sedentem stare est possibile” cioè “che colui che è seduto stia in piedi è possibile”. In questo caso la proposizione è falsa perché lo stato di chi è seduto è incompossibile con lo stato di chi sta in piedi. “In sensu diviso” il dictum rappresenta il soggetto e il predicato, il modo invece è preso avverbialmente. Il senso è «sedens possibiliter stat» cioè «è possibile per chi è seduto stare in piedi». In questo secondo caso la proposizione è vera perché colui che è seduto conserva nello stesso momento la possibilità di cambiare stato, sta in piedi “in potenza”.
Se applichiamo la distinzione all’infallibilità, «l’impossibilità di sbagliarsi» assume due valori fondamentalmente diversi. L’uno è un privilegio soprannaturale, l’altro è la semplice condizione di chi, dicendo la verità, si trova in uno stato di incompossibilità con la condizione di chi dice un errore. La frase: «è impossibile che un bambino che recita bene il Credo si sbagli», “in sensu composito” significa «che un bambino nell’atto di recitare effettivamente il Credo si sbagli al tempo stesso, è impossibile», dire il Credo e dire un errore sono stati incompossibili. La proposizione in questo caso è vera e il bambino in un certo senso è infallibile (“in sensu composito” appunto). Non si tratta di un privilegio straordinario ma del semplice fatto che la contraddizione è irrealizzabile. Invece in “sensu diviso” significa «che un bambino che recita il Credo non ha la possibilità o potenza di sbagliarsi» e allora la proposizione è falsa poiché il bambino persino nel momento di dire il Credo conserva la “potenza” di sbagliarsi, ed effettivamente successivamente potrebbe cadere in errore. In questo senso (“diviso”) l’infallibilità è privilegio del Papa in quanto, quando sono riunite le condizioni richieste, cioè quando il Papa ha intenzione di obbligare la Chiesa intera e di utilizzare la sua potestà nella sua pienezza in materia di fede, grazie all’assistenza estrinseca, ma reale ed efficace dello Spirito Santo, il Papa non ha quella possibilità, quella “potenza” di cadere in errore. Notiamo che tra i due casi (“sensu diviso” e “composito”) di “infallibilità”, nella conseguenza tra la verità di una affermazione e l’impossibilità di sbagliarsi, esiste un rapporto inverso: nel caso di infallibilità “in sensu diviso”, privilegio soprannaturale del Papa, la verità di una sua affermazione è conseguenza dell’infallibilità, mentre nell’infallibilità “in sensu composito” accade il contrario: “l’infallibilità” è conseguenza della verità dell’affermazione.
Ritornando ai “lefebvriani”: non c’è nessuna pretesa di essere infallibili per privilegio soprannaturale (“in sensu diviso”). Ogni tradizionalista conserva sempre la potenza di cadere in errore. Ma il Padre Cavalcoli non può negare a nessuno la possibilità di arrivare a delle conclusioni certe mediante ragionamenti rigorosi, ricorrendo ai dati evidenti della Tradizione e agli insegnamenti certi del Magistero passato, e di essere coscienti di questa certezza. Nella misura in cui aderiamo a una conclusione certa, o a una verità contenuta chiaramente nella Tradizione, “non ci possiamo sbagliare” (“in sensu composito”). È in gioco l’oggettività della ragione e la sua capacità di cogliere il vero, come anche di sottomettersi a una regola più certa e più alta. Se diciamo la verità, il nostro stato è incompossibile con quello di chi afferma un errore: siamo, in un certo senso, “infallibili” (“infallibilità” che è conseguenza della verità della proposizione e non l’inverso, come invece accade nel privilegio di infallibilità papale). Nessun bisogno di un’assistenza particolare e straordinaria dello Spirito Santo.
Il Concilio Vaticano II: un Concilio fallibile
Certo, per opporsi all’insegnamento di un Papa o anche dei vescovi, ci vogliono delle cause gravissime, una certezza almeno morale che l’autorità nella Chiesa è nell’errore e che lavora contro il bene comune della Chiesa stessa. Il Padre Cavalcoli ci dice che questo è impossibile ma, se gli insegnamenti del Papa e dei vescovi in materia di fede non sono sempre infallibili, vuol dire che in linea di principio, seppure eccezionalmente e in epoche di crisi gravissima, non è impossibile che cadano in errore persino in materia di fede, e allora non è difficile che quest’insegnamento vada anche contro il bene comune della Chiesa.
Tuttavia il Padre sembra escludere questa possibilità visto che «perché sia dottrina infallibile – ossia assolutamente e perennemente vera3– non è necessario… che il Magistero dichiari… solennemente che una data proposizione è di fede, ma è sufficiente che di fatto si tratti di materia di fede». Così quello che per il Concilio Vaticano I e per i teologi era una condizione necessaria ma non sufficiente (perché ci vogliono altre tre condizioni) per il Padre diventa una condizione sufficiente anche da sola. Ricordiamo la definizione data dal Concilio Vaticano I dell’infallibilità papale: «Proclamiamo e definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi, vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell’infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse, e non per il consenso della Chiesa» (DS 3074). Conseguentemente a tale definizione, i teologi hanno sempre sostenuto la necessità del verificarsi di quattro condizioni per poter avere pronunciamento infallibile straordinario: 1. da parte della persona stessa del Papa, che parli come Dottore e Pastore di tutti i Cristiani (così non è infallibile come persona privata, come Vescovo della città di Roma o in quanto “principe temporale” dello Stato della Chiesa); 2. da parte del modo in cui parla è necessario che faccia sapere chiaramente l’intenzione di definire con la sua suprema autorità un punto del dogma (quindi non esercita l’infallibilità se, anche rivolgendosi a tutti i cristiani, insegna la dottrina in modo espositivo o esortativo, oppure persino quando vuole obbligare, ma senza chiedere un assenso interno di fede); 3. da parte dell’oggetto della definizione, bisogna che sia una dottrina riguardante la fede o i costumi (l’infallibilità non si estende alle materie scientifiche per esempio, e persino nel testo stesso della definizione, l’infallibilità non si estende ai punti storici, filosofici o dogmatici che precedono o seguono la proposizione definita); 4. da parte del termine della definizione (cioè il soggetto a cui è indirizzata), è necessario che obblighi tutta la Chiesa come dottrina da credersi e che questo obbligo risulti con certezza (cosa che può sapersi grazie alle formule che accompagnano la definizione come: «dottrina tutti i fedeli devono credere o professare», oppure se i negatori della definizione sono dichiarati «scomunicati» o «estranei alla fede»).
Queste condizioni sono richieste non solo quando il Papa si pronuncia da solo, ma anche quando è riunito in Concilio con i vescovi4. Infatti tutti i teologi ammettono che non tutte le proposizioni (anche a contenuto dogmatico) contenute negli atti di un Concilio Ecumenico godono dell’infallibilità, ma solo quelle per le quali risulti chiara e indubitabile la volontà di definire e obbligare la Chiesa Universale in materia di fede e costumi. Il criterio dell’infallibilità deve essere preso in un senso piuttosto ristretto ed è questo senza dubbio il pensiero della Chiesa, manifestatoci dal Codice di Diritto Canonico (1917) can. 1323 §3: «Declarata seu definita dogmatice res nulla intelligitur, nisi id manifeste constiterit» («Nulla deve essere ritenuto dogmaticamente dichiarato o definito se ciò non risulti in modo manifesto»).
Perciò, per quanto riguarda la “materia di fede” che secondo Padre Cavalcoli basterebbe ad assicurare l’infallibilità, se si intende la stessa cosa di “verità di fede”, evidentemente ogni insegnamento del Papa o dei vescovi “in materia di fede” sarebbe infallibile almeno “in sensu composito” (solo che in questo caso dovremmo negare che si tratti effettivamente di “materia di fede” in quei punti nei quali l’insegnamento conciliare dice cose “nuove”). Ma questa concezione della condizione richiesta per l’infallibilità non è di molto aiuto poiché, se questa fosse una delle condizioni date dal Concilio Vaticano I che rendono visibile l’infallibilità, i fedeli dovrebbero anzitutto rendersi conto della verità della dottrina prima di sapere di trovarsi di fronte all’esercizio dell’infallibilità. Ma allora questo privilegio del Magistero perderebbe la sua funzione di “regola della fede” e tutta la sua utilità che è appunto quella di indicare la verità e non di presupporne la conoscenza. Bisogna allora intendere per “materia di fede” semplicemente e in modo generale “ciò che riguarda la fede”5. Chiunque può allora rendersi facilmente conto se il Papa o i vescovi parlano di “ciò che riguarda la fede”, costituendo così un buon criterio di visibilità. Soltanto che, giustamente, non essendo in questo senso una condizione sufficiente per l’infallibilità, il Papa o un Concilio potrebbero parlare “in materia di fede” e (se non ci sono le altre condizioni espressamente menzionate nel Concilio Vat. I) non essere infallibili, cioè potersi sbagliare “in materia di fede” (poiché “i contrari appartengono allo stesso genere”, “l’errore nella fede” e “la verità di fede” sono entrambi in questo senso “materia di fede”).
È vero, come dice Cavalcoli, che gli insegnamenti del Concilio Vaticano II non sono solo pastorali, ci sono molti insegnamenti dottrinali: anche la libertà religiosa, la collegialità e l’ecumenismo sono insegnamenti che non hanno il valore di disposizioni pastorali, bensì hanno valore di principio, effettivamente riguardano la fede. Ma ciò non è sufficiente per l’infallibilità: il Padre trasforma una condizione necessaria ma non sufficiente in una condizione necessaria e sufficiente. Invece è necessaria inoltre l’intenzione di dare un insegnamento definitivo che obblighi in maniera assoluta la Chiesa Universale. Ora “la pastoralità” del Concilio non esclude pronunciamenti in materia di fede (anzi ogni pastorale deve essere fondata su principi dottrinali), ma di fatto ha escluso l’intenzione di esercitare l’infallibilità, di imporre un insegnamento definitivo obbligante tutta la Chiesa (e una successiva dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede non cambia il valore che l’intenzione del Papa e dei vescovi ebbe al momento del Concilio). Di solito l’esercizio dell’infallibilità è presente in un Concilio Ecumenico poiché non manca mai l’intenzione definitoria, ma il Concilio Vaticano II, si sa, ha voluto essere diverso dagli altri proprio nel suo rapporto con il resto della Chiesa e il mondo, senza imporre dottrine e condannare errori (due aspetti necessari della volontà definitoria) e sta in questo la sua “pastoralità”: più nella sua “forma” che nella sua “materia” insomma. Così nessun insegnamento del Concilio Vaticano II può essere definito “infallibile” (“in sensu diviso”): né a titolo di una definizione solenne e straordinaria (mancando l’intenzione espressa), né a titolo del Magistero Universale Ordinario (perché nel caso di un Concilio la Chiesa docente non è “dispersa” in tutto il mondo, caratteristica specifica del MOU, e sopratutto le novità professate nel Concilio mancano dell’universalità verticale cioè temporale necessaria a un vero Magistero ordinario che non è altro che un’eco della Tradizione), e neanche nei punti in cui riprende gli insegnamenti degli altri Concili o della Tradizione (in questo caso gli insegnamenti sono “assolutamente e definitivamente veri”, ma non “infallibili” se non “in sensu composito”).
Conclusione
Tenendo conto di tutte queste considerazioni, bisogna concludere che: in teoria e “a priori”,
- è possibile che, quando non ci siano le condizioni necessarie e sufficienti all’infallibilità, ci sia un errore nell’insegnamento del Papa o dei vescovi in casi peraltro rari ed eccezionali;
- che questo errore minacci gravemente il bene comune della Chiesa;
- che altri vescovi, sacerdoti e fedeli si rendano conto con certezza di questo errore;
- che dunque sia lecito opporsi, con il dovuto rispetto, ma fermamente.
Concretamente è possibile: - che vi siano degli errori del genere nei testi del Concilio e nel “Magistero” successivo visto che non è stato esercitato il privilegio d’infallibilità non essendo presenti tutte le condizioni richieste;
- che dei vescovi, sacerdoti e fedeli si rendano conto di questi errori ricorrendo a un Magistero “più o meno anteriore a quello attuale”, chiaro, costante e infallibile;
- che si oppongano con il dovuto rispetto ma fermamente agli insegnamenti attuali per il bene comune della Chiesa e la professione integrale della fede.
Quanto a sapere se sia effettivamente così, le prove certe abbondano in 50 anni di crisi e non rientra nelle intenzioni di quest’articolo esporle, ma al limite è questo che il Padre doveva contestare, qui sta «il discorso da fare»: il vero dibattito attuale deve discutere la situazione concreta e non escludere aprioristicamente delle possibilità che appaiono evidenti.
Note
1. Utilizzando il termine “Magistero” lo prendiamo nel senso che sembra dargli il Padre Cavalcoli cioè in senso puramente soggettivo. Per il Padre sembra che sia degno del nome di “Magistero” ogni insegnamento proveniente dai soggetti della Chiesa docente: il Papa e i vescovi. Si potrebbe però discutere se sia sufficiente l’attività del soggetto insegnante per qualificare il Magistero e se non sia pure necessaria una condizione da parte dell’oggetto dell’insegnamento, cioè che si tratti di un oggetto effettivamente in continuità con la Tradizione divino-apostolica. In questo caso, l’insegnamento erroneo di un Papa o di un vescovo non meriterebbe il titolo di “Magistero”; nel caso opposto, potrebbe darsi un “Magistero” effettivamente erroneo. Faremo astrazione di questo dibattito interessante e quando parliamo di “Magistero attuale” prenderemo il termine nel senso puramente soggettivo che abbiamo detto, preferendo tuttavia la semplice espressione di “insegnamento attuale del Papa e dei vescovi” per evitare ambiguità.
2. Si può avvicinare questa norma a quella generale dell’obbedienza dovuta ai superiori ecclesiastici: è chiaro che “di norma” gli inferiori devono obbedire ai loro superiori, ma, come nel caso dell’insegnamento, se appare un’opposizione evidente con una regola superiore e certa, non solo è lecito, ma può anche essere doveroso “disobbedire”.
3. Notiamo anche che la definizione data dell’infallibilità dal Padre non è esatta: il fatto che un soggetto pronunci una dottrina assolutamente vera non lo rende infallibile nel senso del privilegio d’infallibilità presa “in sensu diviso”: sarebbe solo “infallibile in sensu composito”.
4. L’opinione più comune dei teologi è che il Concilio Ecumenico e il Papa non sono due soggetti adeguatamente distinti, quindi l’infallibilità di un Concilio sarebbe la stessa infallibilità del Papa, solo con una maggiore estensione soggettiva (cioè un più grande numero di soggetti partecipano ad essa). In ogni caso il Concilio Ecumenico non gode della suprema potestà se non in quanto le sue definizioni e i suoi decreti sono “informati” dalla stessa potestà del Papa. Si tratterebbe dunque della stessa infallibilità papale che si esercita quando il Papa è da solo, come nel Magistero pontificio straordinario, oppure quando il Papa è riunito con i Vescovi nel quadro di un Concilio Ecumenico.
5. Ovviamente, in una definizione dottrinale che è di fatto infallibile, l’oggetto è per forza di cose una verità rivelata o connessa alla rivelazione. In questo senso i teologi parlano dell’oggetto primario dell’infallibilità (le verità formalmente rivelate) e l’oggetto secondario dell’infallibilità (le verità che non sono in sé contenute nella rivelazione ma che sono connesse alle verità formalmente rivelate in modo da risultare necessarie alla custodia dell’integrità del “depositum fidei”). Vogliamo solo dire che, da un punto di vista logico, la condizione di “materia di fede e costumi” affinché sia veramente un segno che ci indica quando il Papa può esercitare la sua infallibilità, deve essere presa nel senso generale di “qualcosa che riguarda la fede e i costumi” ed è riconosciuta in questo modo dal fedele in un momento logico anteriore alla conoscenza dell’oggetto in quanto “verità di fede”. Così se il Papa volesse imporre all’intelletto dei fedeli la soluzione di un’equazione matematica, il fedele saprebbe che la prerogativa dell’infallibilità non è messa in gioco; invece se il fedele si trovasse di fronte a un discorso riguardante “il numero delle volontà in Cristo”, saprebbe che il Papa può in questo caso obbligare il suo assenso di fede (se si manifestano anche le altre condizioni), senza aver bisogno di sapere prima di dare il suo assenso alla definizione quante siano effettivamente le volontà in Cristo.