Perché si diventa preti?
di Giovanni Lugaresi
L’indimenticabile amico don Francesco Fuschini era un innamorato di Alessandro Manzoni e il suo amore arrivava al punto da anteporlo a nostro padre Dante. In ciò, secondo soltanto al suo confratello più vecchio, don Cesare Angelini, fra i maggiori esegeti dell’autore dei “Promessi Sposi”, al quale aveva dedicato non pochi e acuti studi, espressi, fra l’altro, in quella prosa elegante nella sua semplicità, e con quei toni colloquiali che lo facevano ammirare anche in partibus infidelium.
Il grande romanzo manzoniano, con i suoi personaggi, i suoi momenti caratteristici, i suoi punti alti, ci viene in mente di quando in quando proprio in questo nostro tempo di poca fede, di poca carità (anche da parte del clero), e di molta viltà.
La viltà, del resto, è ben presente nei “Promessi sposi”. Basti pensare alla figura di don Abbondio, che taluni ritengono ridicola, altri patetica, altri ancora drammatica.
Come la si voglia mettere, una cosa è certa: don Abbondio è tutto l’incontrario di quel che (anche a quei tempi) doveva essere un prete. Perché non si diventa preti per avere una vita tranquilla, comoda, in un certo senso, privilegiata, fuori dai conflitti della società. Si diventa preti nella e con la consapevolezza di avere una missione non facile da compiere. Del resto, se Nostro Signore disse ai Dodici che li avrebbe mandati come agnelli fra i lupi, un grande prete del nostro tempo, don Primo Mazzolari, scrisse che “non ci sono tempi di bonaccia per i preti”!
Ma perché ci vengono di quando in quando alla mente le pagine manzoniane e le varie emblematiche figure a livello religioso, per così dire?
Pensiamo a Lucia e al colloquio con l’Innominato: “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”!
Frate Cristoforo alla corte di don Rodrigo: “… verrà un giorno!…”, che non è minaccia, bensì avvertimento. Come a dire: stai attento, perché chi fa il male poi la pagherà.
E per don Rodrigo arriverà, quel giorno. Ma sarà lo stesso padre Cristoforo a dire a un Renzo vendicativo: “Può esser castigo, può essere misericordia”!
Quale attualità in quelle pagine, da rileggere, da meditare, anche da parte di preti e di vescovi.
Che in quanto a viltà… alla don Abbondio, non difettano certo. Come altrimenti chiamare i silenzi di presuli che permettono al loro clero di far quel che vuole, e non solo nelle e con le cose del mondo, ma pure nelle e con quelle della religione, della liturgia in primis, con quegli abusi ricorrenti all’altare, dove Nostro Signore dovrebbe essere al centro della celebrazione – scriviamo per esperienza, non per sentito dire.
Preti che all’Offertorio alzano contemporaneamente patena con l’ostia e calice (dovrebbero farlo in due momenti distinti), quando non cantano insieme ai fedeli invece di pronunciare la prescritta formula; distribuzione delle sacre particole da parte di persone qualsiasi, mentre la regola dice che a distribuire il Corpo di Cristo deve essere il sacerdote, o un diacono, o un/a religioso/a.
Ora, il non richiamare all’ordine questi sacerdoti che cosa è, se non distrazione (colpevole), o viltà, appunto? Per non avere rogne, per non dover discutere con un prete – per privilegiare una vita tranquilla, insomma, in nome di quel quieto vivere che fa tanto don Abbondio?
Viltà anche rispetto al giudizio che ne potrebbe derivare dal mondo, dal quale è gradito l’applauso – da quel mondo peraltro per il quale Cristo non ha pregato.
Quanto ai preti, tiepidi, troppo tiepidi, per non dire altro.
Come si fa a non richiamare dall’altare o in privato (per un caso singolo) ragazzine che si presentano alla messa in short, o a signorine/signore che vanno in processione indossando minigonne cortissime?
O ancora, come si fa a non redarguire coppie che si apprestano al matrimonio religioso ma mandano in giro foglietti stampati con lui e lei sotto una croce, accompagnati da frasi che vorrebbero essere spiritose, quando si sa bene quel che significhi il legno al quale venne crocifisso Nostro Signore? Tiepidezza, superficialità, viltà, appunto.
Non si fa il richiamo per non risultare antipatici, retrogradi, per non dover imbastire una discussione, nella quale peraltro il sacerdote avrebbe tutto da guadagnare (presso Dio), perché è suo compito quello di richiamare… all’ordine, alle regole, al rispetto, alla fede, e dunque alla preghiera, alla coerenza… Diceva Domenico Giuliotti che il cattolicesimo non è una religione per i porcelli di Epicuro!
Se i credenti, a incominciare dai pastori, rileggessero Manzoni? Non sarebbe il caso? E magari anche Giuliotti!
3 commenti su “Riflessioni su Don Abbondio, nel romanzo e nella realtà di oggi – di Giovanni Lugaresi”
Caro Dott. Lugaresi,
una volta mi permisi di scrivere una lettera al mio vescovo in cui facevo domande e chiedevo spiegazioni su tanti silenzi non solo dei pastori più umili, ma anche di chi li governa da posizioni più elevate. Lo sa cosa mi rispose? “Lo facciamo per non creare problemi.” -Bello!- pensai e quando incontrandolo mi presentai come mittente di quella lettera, fece finta di non ricordarsi e da allora, nelle occasioni in cui l’ho rivisto da vicino o non mi ha guardato o si è voltato dall’altra parte. Più don Abbondio di così!
Ma tant’è… e prego anche per lui.
C’è un solo punto che non mi trova d’accordo: ” la distribuzione delle sacre particole da parte do persone qualsiasi” Mi è capitato di essere nominato Ministro Straordinario della Comunione per aiutare un sacerdote invalido che non poteva reggersi in piedi. In quel momento NON ERO UNA PERSONA QUALSIASI, AVEVO GESU’ FRA LE MIE MANI e, pur ritenedomi indegno, ripeto : non mi sentivo una persona qualsiasi. Penso che questo valga per tutti coloro che svolgono questo servizio. In fin dei conti si tratta di DARE GESU’ AL PROSSIMO.
Gentile Camerani,
tutto il rispetto, ma io preferisco sempre ricevere la Particola dalle mani del sacerdote. E poi non sulle mani, ma sulla lingua!