Un passaporto per il futuro dell’Italia
di Piero Vassallo
Prima riflessione. “Il bene della moltitudine associata è che si conservi la sua unità, ossia la pace; poiché quando questa venga a mancare finisce l‘utilità della vita sociale, perché la moltitudine in disaccordo è gravosa a se stessa” (De Regimine Principum, I, 2, trad. di Renato Tamburrini).
L’onesto benessere dei popoli dipende anzi tutto dalla solidità delle unioni familiari e dalla pace interna.
“I tiranni invece seminano discordia tra i sudditi, fomentano litigi e proibiscono tutto ciò che incrementa l‘alleanza tra gli uomini, come nozze, conviti ecc.” (De Regimine Principum, I, 3).
Sulla finalità disgregatrice e tirannica delle leggi che vanificano la società familiare non è possibile nutrire dubbi. La legge divorzista è la principale causa della massificazione e del degrado sociale in atto nei paesi intossicati dalla cultura impropriamente detta liberale.
Non meno disgraziata è la tendenza delle tirannie ad approvare e sostenere gli intellettuali che diffondono il manicheismo storiografico.
Dalla storiografia faziosa ha origine, infatti, quella sottile, inavvertita ma soffocante suggestione che inchioda le menti degli italiani alle opinioni inquinanti e bellicose.
Data l’egemonia della cultura settaria gli italiani d’oggi sono indotti e quasi obbligati a vivere la loro memoria quale fomite di divisioni.
La festa per i centocinquanta anni di una mala unità conquistata mediante guerre patriottiche prevalentemente combattute da stranieri e ristabilita dopo una sanguinosa guerra civile, è stata usata per la semina di giudizi sommari indirizzati a incrementare vecchie discordie.
Le mitologie intorno alle guerre e alle guerriglie che avrebbero fatto l’Italia sono da sempre avvelenate dal feroce disprezzo nei confronti dei resistenti all’unità e dei loro legittimi sovrani: Pio IX, definito “un metro cubo di letame” dall’innominabile cialtrone in camicia rossa, i tradizionalisti bollati come austriacanti, i borboni squalificati come tiranni retrogradi, i cattolici accusati di oscurantismo, i refrattari ai Savoia bollati quali briganti, i fascisti infamati quali servi del tedesco invasore ecc.
L’autorità politica dovrebbe invece impedire l’intossicazione della memoria storica, incombendo su di essa l’indeclinabile l’obbligo di non dividere il popolo secondo i dettami di una logora ideologia contemplante due schiere immaginarie, i promossi e i bocciati dall’Assoluto storico di hegeliana memoria.
Disgraziatamente i progressisti non possono fare a meno del grande nemico – il nemico del Popolo: l’austriacante, il borbonico, il clericale, il capitalista, il fascista, il papista, ecc. – minaccia incombente sui radiosi sentieri tracciati dai garibaldini perpetui.
L’avvistamento delle Fodria (sigla che sta per forze oscure della reazione in agguato) è il motore di una furia invincibile, finalizzata all’integrale capovolgimento della sapienza romana e cristiana, che suggeriva di risparmiare e integrare i vinti.
La sistematica diffamazione degli italiani sconfitti genera la velenosa divisione del popolo in eredi dei martiri della giustizia ed eredi dei complici dei mali assoluti, incentivo di una strisciante, avvilente guerra fra stati d’animo di stampo cainita.
Di qui la collocazione della repubblica del 1946 dalla parte dei buoni e l’alluvione di imperiose e stucchevole celebrazioni, intese a ricordare che il fondamento della giustizia e della pace civile è la bontà delle fazioni vincenti.
Complice la piramidale stupidità dei patriottardi militanti nella defunta (fittizia) destra, le supreme cariche dello Stato si recano a Reggio Emilia per proclamare che antico simbolo della rinascita è il tricolore giacobino, sventolato dai collaborazionisti, i traditori che reggevano il sacco dei ladri discesi dalla Francia rivoluzionaria.
Nel colpevole silenzio delle autorità sulle insorgenze antifrancesi compiute dai veri ed eroici patrioti [secondo stime attendibili l’invasione francese costò la vita a centomila insorgenti italiani], il vessillo della fellonia antitaliana diventa il simbolo del patriottismo.
La cerimonia surreale di Reggio Emilia rammenta che il popolo italiano rimarrà spiritualmente disunito fino a che non saranno riconosciuti anche gli errori e le colpe dei buoni vincitori (la sanguinaria cleptomania dei giacobini e dei napoleonici; le rapine e i massacri sabaudi nel Mezzogiorno; il potere attribuito dall‘americanismo all‘alta, vampiresca e criminosa finanza; la folle, sanguinosa sovietizzazione attuata da Lenin e da Stalin; il massacro dei kulaki; i bombardamenti terroristici anglo–americani; il mortifero balzo in avanti di Mao; i carri armati a Budapest; la feroce proletarizzazione della Cambogia ecc.).
Separata dalle scomode verità, la storia non sarà mai altro che l‘arma dei faziosi e lo sgabello delle occulte e sontuose tirannie.
Seconda riflessione “Il fondatore di una città e di un regno, non può produrre dal nulla gli uomini e i luoghi da abitare e gli altri sostentamenti alla vita, ma deve necessariamente usare le cose che preesistono in natura“. (De Regimine Principum, I, 13).
San Tommaso colpisce la radice della statolatria, ovvero la nefasta illusione che la natura socievole sia un‘invenzione, quasi una magia del sovrano illuminato.
Strisciante nelle mitologie del più rovente Medioevo ghibellino, l‘idea che il potere politico sia capace di correggere la naturale asocialità dell‘uomo diventò il cardine della politologia di Thomas Hobbes, prima d‘informare l‘ideologia assolutista (monarchica o democratica).
Per fortuna Paolo Pasqualucci ha descritto il vicolo cieco nel quale trascina la filosofia di Hobbes, il primo disertore dalla scienza politica tradizionale.
Nella costruzione di Hobbes, si può cogliere, infatti, la pretesa di negare la naturale socievolezza dell’uomo, astraendo, un’irriducibile disposizione alla guerra di tutti contro tutti, dalle azioni che gli uomini compiono, quando la società è irreparabilmente corrotta dal malgoverno.
Data un tale catastrofico scenario l‘unica via di salvezza è l‘attribuzione al monarca (re, parlamento o popolo referendario) del potere assoluto.
La via d’uscita dalla mitologia assolutista, incombente nelle ideologie totalitarie come in quelle pseudo-democratiche, era stata indicata da Pio XII, nel Radiomessaggio nel Natale del 1944: “Lo Stato non contiene in sé e non aduna meccanicamente un‘agglomerazione amorfa di individui. Esso è la realtà, l‘unità organica e organizzativa di un vero popolo“.
E da Pio XII e non dai democristiani di ritorno che si può uscire dall’assolutismo democratico e ricominciare l’architettura dello stato italiano.
Terza riflessione. “Quando gli uomini vedono che il bene comune non è sotto il potere di uno solo, se ne occupano non come se fosse di un altro ma come di una cosa propria: perciò un‘unica città amministrata da magistrati annui è più potente di un re che possiede tre o quattro città. I cittadini tollerano più malvolentieri piccoli servigi richiesti dal re che gravi oneri imposti dalla comunità dei concittadini” (De Regimine Principum, I, 4).
La retta ragione consiglia che il potere sia affidato agli eletti solo per breve durata, come accadeva nella Roma repubblicana. La corta durata dei mandati politici è una soluzione suggerita dall‘esperienza storica ai popoli che intendono scongiurare la diffusione della ridicola leggenda intorno all‘apprendimento della scienza politica attraverso l‘esercizio del potere, una favola che produce inamovibili oligarchie e promuove (a costi sempre più alti) competenti presunti.
La contrazione dei mandati e l‘accorciamento dei tempi del loro funzionamento e la riduzione dei relativi emolumenti restringerebbe gli spazi necessari alla manovra oligarchica e ridurrebbe gli insostenibili e surreali costi della casta politicante.
Ora il buon senso del qualunque cittadino, purché non iscritto all‘anagrafe dei delinquenti, è in grado di giudicare quali scelte occorre maturare in vista del bene comune.
Nel diritto ad eleggere i funzionari del bene comune è infatti inclusa l‘attitudine a rappresentare il popolo nel parlamento e nel governo. Niente autorizza a pensare che un netturbino sia meno adatto all‘attività politica di un giornalista o di un professore.
I disastri che i professori hanno causato all‘Italia (la legge sull‘aborto fu firmata da professori in cattedra, la svendita delle aziende italiane fu compiuta da un professore in cattedra viaggiante sul panfilo Britannia…) testimoniano ad alta voce a favore dei netturbini.
In definitiva: non esistono professionisti della politica, passano per tali i professionisti della chiacchiera solenne e rombante. La sapienza di San Tommaso ci indica la via d‘uscita dalla dittatura del fatuo e costoso chiacchiericcio.
Quarta riflessione. “E‘ giusto che il re aspetti il suo premio da Dio. Il re governando il popolo è ministro di Dio, come dice l‘Apostolo (Rom., XIII, 1 e 4) Ogni potere viene da Dio e E‘ ministro di Dio, vindice nell‘ira contro chi opera il male… I re dunque per il loro governo debbono attendersi il premio da Dio“. (De Regimine Principum, I, 8).
Negata l‘immortalità dell‘anima, i pensatori illuminati, Eugenio Scalfari ultimamente, si consolano pregustando il beneficio che il nulla conseguente alla presunta caduta nell‘abisso orrido immenso in cui tutto si oblia, otterrà dalla memoria delle splendide imprese.
La ingenua fede riposta nei benefici che la fama procurerebbe agli assolutamente estinti esalta il narcisismo e potenzia la rovinosa demagogia dei politicanti, che hanno nervi resi fragili dalla fede laicista.
La struttura contraddittoria della speranza nel premio che sarà goduto dal non essere e l‘alto costo del suo inseguimento confermano la sprezzante sentenza del profeta Isaia, “che chiama fiore di fieno la gloria di questo tipo“.
Dall‘evidente vanità della gloria mondana discende la convenienza per i governanti di onorare e condividere la vera religione. Al proposito l‘Angelico cita il testo di Sant‘Agostino: “Noi chiamiamo felici i re che governano con giustizia e preferiscono comandare alle passioni che ai popoli e fanno ogni cosa non per vanagloria ma per amore della felicità eterna“.
D‘altra parte “il fine ultimo della moltitudine associata non è vivere secondo virtù ma pervenire alla fruizione di Dio attraverso una vita virtuosa“.
A chi esercita il potere politico è fatto obbligo “di curare la vita oneste della moltitudine … comandando le cose che portano alla beatitudine celeste e proibendo, per quanto possibile, quelle che le sono contrarie“.
Se gli argomenti sofistici formulati dai tiranni e/o dai candidati alla tirannia distolgono il popolo dal suo fine spirituale nelle coscienze si insedia la fatuità e con essa l‘angoscia, madre del disordine delittuoso e autodistruttivo in scena nelle patrie dell‘ateismo.
La tesi di San Tommaso può essere giudicata irrealistica solamente da quanti rifiutano di vedere la devastante infelicità dei popoli, che professano l‘ateismo e perciò agiscono in vista di illecite ricchezze, di effimeri piaceri o di una ridicola, inutile gloria.
Quinta riflessione. “Dalla grazia di Dio è la vita eterna. il condurre a que fine dunque non sarà compito del governo umano, ma del governo divino. Un governo di questo tipo spetta dunque a quel re che non è soltanto uomo ma anche Dio, cioè a Nostro Signore Gesù Cristo. … Affinché le cose spirituali fossero distinte da quelle terrene, il servizio di questo regno fu affidato non ai re ma ai sacerdoti e in primo luogo al Sommo Sacerdote, successore di Pietro, Vicario di Cristo, ossia al Pontefice Romano“. (De Regimine Principum, I, 14)
Un autore scandalosamente irriducibile alle astrazioni rivoluzionarie, Francisco Elias de Tejada, ha dimostrato che l‘uscita dai desolati imperi dell‘effimero, deve iniziare dalla costituzione di movimenti di dichiarata impostazione guelfa.
La causa remota delle rivoluzioni che hanno sconvolto la Cristianità è infatti il ghibellinismo, un‘ideologia che attribuiva al potere politico la facoltà di intervenire nelle decisioni della Chiesa cattolica.
In seguito la pretesa di influire nel governo della Chiesa si è trasformata nella rivendicazione dell‘autonomia del potere dal diritto naturale.
Al proposito è opportuno rammentare che Lui XVI è diventato martire quando, abbandonate le tradizionali pretese del gallicanesimo, ha rifiutato di firmare le leggi ghibelline dei rivoluzionari.
Il positivismo giuridico, labaro delle contraffatte democrazie, contempla il potere di un legislatore assoluto che decide senza tenere conto del diritto naturale.
Di qui l‘imposizione di leggi feroci e disoneste, quale ad esempio la legge 194 sull‘aborto, che attribuisce alle madri il diritto snaturato di stabilire – in ragione di considerazioni eugenetiche o di esigenze egoistiche – se un figlio ha o non ha diritto di nascere.
Le leggi imposte e applicate nel disprezzo della giustizia – la legge divina partecipata alla creatura – e nell‘oblio del senso comune discreditano lo stato che le impone e perciò confermano la superiorità del potere ecclesiastico che le disapprova risolutamente