Trattiamo, questa volta, un argomento che penso solletichi la curiosità, ma anche lo sdegno (in buona parte giusto) di molti di voi: i forestierismi, vale a dire le parole straniere (soprattutto inglesi, ma anche provenienti da altre lingue) entrate nell’italiano.
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Raddrizziamoci con la nostra lingua / XII
(“Dalle Alpi agli Appennini ovvero Noterelle di uno dei tanti” su parole e cose)
di Dario Pasero
Trattiamo, questa volta, un argomento che penso solletichi la curiosità, ma anche lo sdegno (in buona parte giusto) di molti di voi: i forestierismi, vale a dire le parole straniere (soprattutto inglesi, ma anche provenienti da altre lingue) entrate nell’italiano sia nella loro forma originaria (week end, computer) sia in una forma adattata alla fonetica ed alla grafia italiana (paltò, bistecca).
Prima riflessione: la presenza di forestierismi non è testimonianza assoluta, sempre e comunque, di “debolezza” di una lingua (e di una cultura e civiltà) nei confronti di altre: pensiamo, per esempio, al rapporto di forza tra Roma antica e la Grecia e a quello, au contraire, tra la lingua greca e quella latina (Graecia capta ferum victorem cepit, ci dice quel buontempone epicureo di Orazio…). Negli ultimi anni ciò è certamente vero per il rapporto inglese/italiano, ma al posto dell’italiano potremmo inserire anche altre lingue, forse meno contaminate dall’inglese, ma certo anch’esse toccate da questa lingua, specie nella sua variante statunitense. Ciò dipende, innanzitutto, dalla potenza commerciale dei paesi anglofoni (Inghilterra prima, poi Stati Uniti) e dal numero di parlanti questa lingua nel mondo, o come lingua materna o come prima lingua studiata a scuola (pensiamo, per esempio, all’India), ma indubbiamente un fattore che sta favorendo l’instaurazione dell’inglese come lingua “veicolare” è anche la sua semplicità (e quindi l’economicità) delle sue strutture, morfologiche e sintattiche, che poco hanno che vedere con lingue più complesse e di più ampia tradizione culturale (come italiano, francese e spagnolo), ma tant’è: i motivi economico-commerciali e geo-politici contano ormai, anche nel linguaggio, più di quelli culturali.
Inoltre, uno dei canali di diffusione dell’inglese è, appunto, anche la sua pervasività, attraverso molti suoi termini che, decontestualizzati dallo schema generale della lingua, si insinuano in altre lingue divenendone, da corpi estranei, elementi sempre più connaturati.
Ci sono, è vero, termini stranieri che nel passato come oggi non possiamo non usare perché indicano fenomeni, oggetti o situazioni che noi non conosciamo (pensiamo, extrema ratio, a una parola come “canguro”), ma che appartengono ad altre culture e ad altri modi di vivere e di pensare. È il caso di week-end, che ha però anche generato il calco semantico “fine settimana” (italiano sì, ma non completamente nella struttura perché, a somiglianza dell’uso inglese, tace la preposizione: “fine della settimana”). Prima dell’invasione culturale (o pseudo-culturale) anglo-americana del secondo dopoguerra la nostra società non conosceva nulla di simile al fine settimana festivo ed allora ecco, pressoché obbligatoriamente, l’importazione del vocabolo.
In realtà noi in questi nostri anni ci sentiamo in qualche modo “toccati” dalla presenza massiccia (a sfiorare l’invasione) di termini stranieri (come detto, principalmente anglo-americani), ma non sempre ci rendiamo conto del fatto che in realtà questa presenza data da molti secoli, e cioè dalle origini stesse dei volgari italiani. Mi spiego. Dato per assodato che i volgari italiani – attenzione: spiegherò meglio un’altra volta perché non dico direttamente l’italiano – derivano dal (rectius: sono l’evoluzione del) latino parlato negli ultimi secoli dell’impero, già i primi popoli barbari a stanziarsi in Italia (goti, vandali, eruli, e poco dopo i longobardi e poi ancora i franchi) hanno inserito nei volgari italiani parole loro caratteristiche, estranee al latino, che, una volta assunta una desinenza latina e quindi latinizzatesi, sono diventate poi parte integrante del patrimonio linguistico dei volgari, prima, e dell’italiano, poi. Ho detto “latinizzatesi” proprio perché in ciò risiede la differenza tra allora ed oggi: allora il latino (e successivamente i suoi volgari) erano più forti delle parole straniere, che si dovevano “adattare” alla fonetica ed alla morfologia della lingua dominante; ora invece sta capitando il contrario. Istruttiva, su questo argomento, la lettura del lavoro di G. Bonfante, Latini e Germani in Italia (Bologna, 1977).
Noi, ora, raramente ci accorgiamo di questi forestierismi oserei dire “d’annata” e non li riconosciamo neppure più come tali, ma come parole italiane a pieno titolo, senza scandalizzarci dunque ad usarle. È il caso appunto dei germanismi antichi (dal goto e dal longobardo), come – per fare un esempio molto banale – la parola “guerra”, dal germanico werr, latinizzato in *werra e poi guerra (in Piemonte esiste il cognome Verra), cfr. l’inglese war. Ma possiamo citare anche: biondo, bruno, fianco, smarrire… Voi capite che forestierismi come questi sono ormai ineliminabili dal lessico italiano e nessuno di noi si sognerebbe di volerli mettere al bando. Alle parole provenienti dalle lingue germaniche dei popoli stanziatisi in Italia nei secoli V-VIII si sono poi aggiunte quelle arabe, lasciateci dagli invasori insediatisi in Sicilia e in altre parti costiere della penisola, quelle francesi, quelle spagnole, quelle bizantine, che si sono aggiunte – come grecismi medievali – ai grecismi classici già presenti nel latino e nelle prime forme dei volgari.
Ora sta capitando che alcuni anglismi semantici, cioè di significato, entrano nella nostra lingua e si collocano di fianco al loro corrispondente italiano mantenendo però il valore del termine inglese. Facciamo un esempio. Tutti noi usiamo normalmente il verbo “realizzare” nel senso consueto di “portare a termine, completare”, ma ormai (e troppo spesso, ahimè) lo sentiamo usato nel senso dell’inglese to realize, cioè “rendersi conto, comprendere”: ho realizzato un piano strategico per la salvezza della cristianità (bene)/ho realizzato che la cristianità non è più quella di una volta (un po’ meno bene…).
Gli anni (ed i secoli) passano. L’Italia è sempre, più o meno direttamente, nelle mani di potenze straniere, e dunque ecco che dal medioevo al Rinascimento ed all’età barocca e poi a tutto il Settecento entrano in Italia parole soprattutto francesi e spagnole, ma anche tedesche e turche, a seconda dei dominatori che si susseguono e dei commerci che, specialmente da parte di Venezia, ma non solo di essa, si intrattengono con altri popoli, altre civiltà e culture. Come già detto per i forestierismi dell’età tardo antica ed alto medievale (a proposito anche la parola “alto”, in questo contesto, non significa “alto”, come si potrebbe pensare, ma è un germanismo di tipo “specialistico”, cioè usato solo dagli storici, per indicare “antico”, in tedesco appunto “alt”) anche di molti di questi forestierismi entrati in Italia all’incirca dal secolo XIII al XVIII, proprio perché perfettamente assimilati alla fonetica ed alla grafia italiana, noi non ce ne accorgiamo più. È il caso di – faccio alcuni esempi a ruota libera – birra, crauti (germanismi), artiglieria, convoglio, pastiglia (francesismi, o gallicismi), anguria, liquirizia (grecismi bizantini), albicocca (vocabolo la cui prima parte “albi-“ non ha nulla che vedere col latino albus, bianco), arsenale (in italiano attraverso il veneziano arzenà) e carciofo (arabismi), barocco, puntiglio (ispanismi), chiosco (turchismo). Nel secolo XIX, ottenuta l’unità e la libertà del Paese, le parole straniere entrano non più perché in qualche modo “imposte” dai governi stranieri, ma per motivi, diciamo così, “culturali”, intesi in senso molto ampio (non solo letteratura filosofia e scienze, ma anche industria, cucina, spettacolo, vita mondana e moda): in questi anni la parte del leone la fa il francese, che è la lingua ufficiale della cultura (intesa sempre in senso lato) del tempo, e Parigi è un po’ l’Atene dei tempi moderni, ruolo che le verrà in seguito parzialmente sottratto da Londra e dagli USA, in particolare New York. A questo secolo dobbiamo dunque molti termini francesi della moda e della cucina, termini che – a differenza di quanto accadeva nei secoli precedenti – non sempre vengono adattati all’italiano sia nella pronuncia che nella grafia. Alcuni di essi restano inalterati, altri si scrivono “all’italiana” riproducendo la pronuncia estera, altri ancora vengono adattati ad una fonetica vagamente italica o ad una sorta di ipercorrettismo toscaneggiante; rari i casi moderni di assimilazione completa, sia grafica che fonetica, all’italiano (bistecca < beef steak). Del primo caso abbiamo champagne (ma troviamo anche la forma italianizzata “sciampagna”), brioche (idem c. s. “brioscia”), frak, vaudeville; del secondo gilé (fr. gilet), paltò (fr. palétot), landò (fr. landeau); del terzo infine sanguis (di uso semi-dialettale, ingl. sandwich), tranvai o tranve (ingl. tram-way), che sarà poi sostituito da tram; cognacche (ma D’Annunzio proponeva di usare l’arcaico “arzente”), fracche (e Petrolini ne faceva, in Gastone, il diminutivo “fracchetto”), rosbiffe/ròsbif (di uso toscano-romano, il primo, settentrionale, e con l’accento sulla penultima sillaba, il secondo).
Ancora oggi abbiamo dei casi in cui troviamo usate entrambe le forme, quella straniera e quella italiana, testimonianza di una noluntas (non-volontà) della nostra lingua di cedere sempre e comunque le armi: albergo/hôtel, locale notturno/night club, corriera/pullman, pellicola/film, bigliardino/flipper, fine settimana/week end, schermo/display, pub/birreria…
A proposito ancora del frak, in piemontese si trova la forma idiomatica dejne ’n frach (dargliene un sacco ed una sporta, in genere di botte), probabilmente per assonanza con sach (sacco), termine che ricordo divenuto, nell’argot italo-torinese, “fracco”, col significato di “mucchio, gran quantità”. Ancora in piemontese ricordo l’adattamento fonetico-grafico di parole come focòl (< fr. faux-col, letteralmente “falso collo”), per indicare il colletto duro (in italiano “solino”), staccabile dalla camicia, che si portava ancora nei primi anni del Novecento, oppure sislonga (< fr. chaise longue, “poltrona lunga”) per significare il divano-letto. Tempi beati in cui l’italiano, ed i vari dialetti della penisola, avevano una tale forza semantico-lessicale da reinventare e, in qualche modo, assimilare quei termini stranieri che non si poteva non usare. Fossimo ancora capaci a farlo! ora accettiamo passivamente e supinamente quanto (di buono e di meno buono) ci viene da altre lingue e nazioni…
Nei primi decenni del secolo scorso, insieme ai francesismi, cominciano ad entrare, seppur timidamente, i primi anglicismi, che, dapprima osteggiati e proibiti dal fascismo, faranno poi – come detto – un balzo nell’uso a partire dal secondo dopo-guerra, a cominciare da bar, jazz, night-club (che sostituì il più elegante francesismo tabarin, entrambi comunque vincitori sul tentativo di uso italiano “locale notturno”), teenager, cioè colui che vive gli anni che terminano col suffisso –teen (dai 13 ai 20 anni), mentre l’italiano usa gli esiti di un solo verbo latino (adolescere) per significare, col participio presente (adolescente) chi sta crescendo, e con quello passato (adulto) colui che invece è già cresciuto, film, juke-box…
Una sezione, relativa all’uso “dissennato” dei forestierismi, si potrebbe intitolare “Parla come mangi” (Totò avrebbe forse detto “Mangia come parli”, sulla scorta del suo famoso “Parli come bada”), a proposito, principalmente, di cartelli ed insegne pretenziosamente in lingua straniera (e in certi casi se ne potrebbe francamente fare a meno…), accompagnati però – e qui (è il caso di dirlo) casca l’asino – da una crassa ignoranza della lingua stessa. Tre casi visti da me ipsissimis oculis, proprio coi miei stessi occhi medesimi (avrebbe detto sempre Totò), ma di cui – per degni rispetti – tacerò il luogo e il nome.
Ingresso di garage (autorimessa) pubblico, frequentato anche da turisti: riguardo al cancello automatico si dice che “si deve fare attenzione” perché è un “self-looking gate”, cioè un “cancello (evidentemente alquanto narcisista) che si guarda da sé”, e non – come ovvio – che “si chiude da sé” (self-locking).
Negozio di indumenti per signora che, essendo un locale piccolo e simpatico un po’ fuori dalle vie di grande passaggio, è stato intitolato “Le joli con”, in cui la parola francese con (sempre per i degni rispetti non la traduco, ma ne indico solo l’etimo, cioè il latino cunnus) ha preso il posto del più regolare (e meno imbarazzante) “coin” (angolo).
Ancora: negozio di acconciature per signora, in altra località rispetto alla precedente; qui lo “sfondone” sta direttamente nella determinazione della tipologia artigianale. Essendo infatti la proprietaria una donna e sapendo costei, probabilmente, che in francese il femminile si forma (in genere, ma non sempre) aggiungendo una –e alla relativa parola maschile, senza por tempo in mezzo si è, sull’insegna, autodefinita “coiffeure”, ignorando che il femminile di “coiffeur” è in realtà “coiffeuse”. Avesse conosciuto meglio la sua lingua materna (il piemontese) avrebbe forse riflettuto sul fatto che l’equivalente forma pedemontana – oltre al più moderno pentnòira – è l’antico (ma non arcaico: lo usava ancora mia nonna) coefeusa, francesismo papale papale (coiffeuse, appunto).
Ultimamente, parliamo cioè degli anni a cavallo dei due secoli (Ventesimo e Ventunesimo), sono entrati in italiano, ed in dosi sempre più massicce, anglismi di ogni tipo, principalmente nel lessico settoriale dell’informatica e delle telecomunicazioni; anglismi che in alcuni casi sono pure e semplici parole inglesi prese di peso e trasportate tali e quali nella nostra lingua (mouse, toner, browser), in altri invece ci troviamo di fronte a degli adattamenti, probabilmente perché, essendo forme verbali e necessitando quindi di una flessione per tempi modi e persone, devono essere adattati alla morfologia italiana, a differenza dei singoli vocaboli, che non obbligano neppure a quel minimo di sforzo linguistico-mentale, ma vengono appunto sollevati di peso e portati, così come sono, in italiano. Abbiamo quindi linkare (to link), ceccare (to check), twittare (to twit), bloggare (to blog), sharare (to share), cliccare (to click), rilodare/rilodizzare (to reload), che non c’entra nulla con l’elogio, ma è, molto più semplicemente, il “ricaricare”, e quindi “aggiornare”, un programma. Vi sembra normale che si “ricarichi” il cellulare o si “aggiornino” i prezzi, ma si “rilodizzi” un programma sul computer?
Ora però ho approfittato fin troppo della vostra pazienza. Claudite jam rivos, pueri, sat prata biberunt, direbbe il mantovano Virgilio. Pertanto, non avendo tuttavia ancora concluso l’intervento, se Dio vorrà, vi do appuntamento, per completarlo, la prossima volta.
Ma chi del canto mio piglia diletto,/ un’altra volta ad ascoltarlo aspetto (Orlando Furioso, canto XVIII, ott. 192).
3 commenti su “Raddrizziamoci con la nostra lingua / XII – Rubrica mensile di Dario Pasero”
A proposito dell’origine etimologica del termine “Santa Messa”, cosa ben diversa dalla “cena” filo luterana del N.O.M. (“la festa siamo noi”, “l’alleluia delle lampadine”, “il popolo in cammino” per dove? verso l’inferno, al seguito di Bergoglio, Galantino, Sosa abascal & C.?), così la spiegava nei primi anni Ottanta un famoso latinista italiano, il professor Cesare Marchi, nel suo libro “Siamo tutti latinisti”:
“Ite Missa est”: andate, la messa è finita. Letteralmente “andate, è licenza, è congedo”. Secondo alcuni, in origine la formula significava “Andate, (l’Eucaristia) è stata mandata (missa est)” agli assenti, come si usava al tempo delle persecuzioni. Poi la parola “missa” è passata a significare il rito, io cui segnava la conclusione”.
Nella Chiesa preconciliare, infatti la celebrazione della santa Eucaristia era sinonimo della Santa Messa. Dopo la riforma Montini-Bugnini, invece, si è sempre più parlato di “cena”, di memoriale; adesso poi, che stanno segretamente preparando il rito interconfessionale senza Presenza Reale, del rinnovamento del Santo Sacrificio della Croce…
…(ad opera dell’Alter Christus, il sacerdote celebrante, non certo “dell’assemblea e di colui che la presiede”) non rimarrà traccia alcuna e il celebrante potrà essere indifferentemente (ex) cattolico, anglicano, luterano, calvinista, di Taizé. Accetteranno, tutti i sacerdoti, questa riforma? così come il giuramento di fedeltà a Bergoglio ed alle sue iniziative eretiche? Staremo a vedere, pregando per loro.
Magnifico!