Nuova incursione nelle parole, cosiddette, difficili. In realtà non esistono “parole difficili”, ma parole di uso non troppo comune ignorate purtroppo da un numero sempre maggiore di persone, che nascondono spesso la loro – appunto – ignoranza dietro il paravento della “difficoltà”.
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Raddrizziamoci con la nostra lingua / X
(“Dalle Alpi agli Appennini ovvero Noterelle di uno dei tanti” su parole e cose)
di Dario Pasero
Nuova incursione nelle parole, cosiddette, difficili. In realtà non esistono “parole difficili”, ma parole di uso non troppo comune ignorate purtroppo da un numero sempre maggiore di persone, che nascondono spesso la loro – appunto – ignoranza dietro il paravento della “difficoltà”.
Apriamo l’intervento con la consueta “sfida” lessicale, che questa volta propone all’attenzione dei lettori due termini da definire: “staurolatria” e “pantodapofago”, che saranno svelati alla fine dell’intervento, lasciando quindi tutto il tempo possibile per le eventuali ricerche.
Leggiamo ora, per cominciare, l’ottava 26a del canto I dell’Orlando furioso dell’Ariosto:
Era, fuor che la testa, tutto armato,
ed avea un elmo ne la destra mano:
avea il medesimo elmo che cercato
da Ferraù fu lungamente invano.
A Ferraù parlò come adirato,
e disse: – Ah mancator di fé, marano!
perché di lasciar l’elmo anche t’aggrevi,
che render già gran tempo mi dovevi?
Molti avranno sicuramente riconosciuto il momento iniziale dell’episodio che vede l’uno di fronte all’altro il fantasma di Argalia (il fratello di Angelica, fatto morire dal Boiardo nel suo Orlando Innamorato) ed il suo uccisore, il guerriero moro Ferraù, uno tra i tanti innamorati di Angelica. Nelle prime parole che Argalia rivolge all’avversario (vv. 6-8) troviamo il termine “marano” (rectius “marrano”), parola di origine spagnola che significa letteralmente “porco” usato spregiativamente per indicare, a partire dal secolo XV, ebrei e musulmani convertiti (normalmente non per convinzione ma solo per motivi utilitaristici) al cristianesimo. Si tratta di un insulto un tempo abbastanza comune, in italiano, per indicare il “traditore”, la persona infida e poco raccomandabile. Notiamo anche che Ariosto commette qui un anacronismo lessicale: fa pronunciare cioè un termine che nel secolo VIII, quando si immagina avvengano i fatti narrati nel Furioso, non esisteva ancora, soprattutto in italiano, lingua in cui esso compare a partire dalla fine del secolo XV.
Il nostro Codice Penale punisce vari reati contro la proprietà: furto, furto con scasso, rapina, rapina con destrezza, grassazione… Cosa c’entra si chiederà qualcuno, incauto, la “grassazione”, immaginando che essa abbia che vedere con l’ingrassare? Attenzione non stiamo parlando di ingrasso o ingrassatura o ancora ingrassaggio, tutti termini che sono riferibili, questi sì, al grasso ed al concetto dell’ingrassare, sia transitivo che intransitivo. La grassazione, invece, ed il relativo nomen agentis grassatore (e non, lo ripeto, “ingrassatore”), deriva dal verbo latino gradior (camminare; da cui gradus, lett. “passo” e l’italiano “gradino”, cioè “breve passo”), o meglio dal suo frequentativo grassor (andare in giro, girovagare), ed indica una rapina, in genere a mano armata, effettuata sulla pubblica via.
Parole come “leccornìa” (da pronunciarsi con l’accento sulla i) e “leccarda” sembrerebbero legate al verbo “leccare”. Ebbene sì: per una volta (e comunque non l’unica) troviamo parole che hanno veramente l’etimologia più ovvia, quella che salta agli occhi immediatamente. Dal verbo “leccare” deriva “leccornìa”, cioè la golosità, il cibo squisito (dal verbo latino exquirere, cioè “ricercare”): questo termine nacque sull’esempio di “ghiottornìa”, forma arcaica per “ghiottoneria”, col medesimo significato. Abbiamo poi anche “leccarda”, che è un recipiente posto sotto lo spiedo per raccogliere il grasso che cola dall’arrosto mentre viene cucinato. Esistono dunque anche preparazioni culinarie (dal latino culinam, cioè semplicemente “cucina”) dette “alla leccarda”, cioè allo spiedo.
In parecchi casi abbiamo visto l’uso dei cosiddetti “suffissoidi”, cioè parole di significato finito, in genere greche, che si collocano dopo un’altra parola (la loro antitesi è il “prefissoide”, che si pone davanti ad una parola) per poterla inserire nella categoria di quei termini che prendono valore appunto dal significato del suffissoide. Tra i principali ricordiamo: -filia (amore per…), -mania (fissazione per…), -fagia (atto del mangiare), -grafia (scrittura o descrizione), -logia (studio, spiegazione), -patia (malattia, dolore), -latria (adorazione)…
Col suffissoide “-fagia” troviamo parole come “onicofagia”, cioè il vizio, dettato dal nervosismo, di mangiarsi le unghie, dal greco ónyx (acc. ónyka), che è la parola da cui deriva anche l’onice, pietra dura che assomiglia, per il suo colore brillante, ad un’unghia. Oppure parole come “tecnofagia”, il cui etimo greco téknon (cioè “figlio”, dalla radice del verbo tíkto, “genero, partorisco”) non va confuso con un’altra parola greca, simile ma non uguale, cioè téchne, “arte, attività”. La tecnofagia è dunque il mangiare i propri figli, e viene utilizzata o per alcune specie animali ad essa portate o, esempio più illustre, a proposito del dantesco conte Ugolino (Inferno, c. XXXIII), il quale però – va detto – con ogni probabilità i figli ed i nipoti non li mangiò affatto. Il famoso “poscia, più che ’l dolor poté ’l digiuno” (ibidem v. 75) va interpretato nel senso che la spossatezza dovuta al digiuno fu più forte del dolore e portò Ugolino non alla tecnofagia ma alla morte.
Una radice greca molto prolifica in italiano, e che ha generato “figli” tutti di alto lignaggio, cioè (fuor di metafora) parole dotte o comunque di uso specialistico, è eik-, che significa “immagine, aspetto”. Da questa radice, e quindi dal verbo da essa derivato eikázo (“avere aspetto, assomigliare”), abbiamo, prima in greco e poi in italiano, icona (eikón), cioè “immagine”, poi più specificamente “immagine sacra”, ed ora – nel lessico informatico – immagine che sullo schermo del PC rappresenta un file o un programma. Da icona abbiamo poi iconografia (descrizione delle immagini) e iconoclastia (composto col verbo klázo, “rompo, distruggo”), cioè quella corrente, che nella chiesa bizantina ebbe come sostenitori anche alcuni imperatori, la quale aveva l’obiettivo di “distruggere le immagini sacre”, temendo che il culto delle immagini (iconodulìa o iconolatrìa) allontanasse i fedeli dal vero oggetto di adorazione, cioè Dio (secondo una convinzione presente sia nell’ebraismo che nell’islamismo). Sempre dal verbo eikázo abbiamo anche l’aggettivo e sostantivo “icastico”, che indica un discorso o un oratore talmente efficace da rendere pressoché visibili agli ascoltatori, o ai lettori, i concetti da esso espressi quasi essi fossero immagini.
Esaminiamo ora un termine abbastanza desueto, ma che presenta una caratteristica singolare. Il suo significato originario è tipico di un linguaggio settoriale, quale quello della giurisprudenza; dopo di che è entrato anche nella lingua d’uso comune ma esclusivamente di tipo dotto. Si tratta di un termine che oltretutto viene spesso mal interpretato nel suo significato per la sua assonanza con altri termini di area semantica assolutamente diversa. Parliamo del sostantivo “parafernali” o anche “parafernali(a)”, a seconda se si sottintendano due parole che significano esattamente la stessa cosa ma diverse nella forma: nel primo caso “beni”, nel secondo invece il latino “bona”. Ebbene “parafernali(a)” è un termine tecnico del diritto, in particolare di quello di famiglia, che intende “quei beni “extra-dotali” (traduzione latina di “parafernali”, appunto) che, anche dopo il matrimonio, continuano ad appartenere alla moglie che ne ha l’amministrazione”. Il suo etimo è il greco paraferné (pará, oltre, pherné, dote, a sua volta dal verbo féro, portare) e quindi nulla che vedere con cose anche solo vagamente “infernali”. Dal lessico giuridico il termine passò poi, come detto, a quello d’uso dotto per intendere genericamente “strumenti, addobbi, strutture”, anche in tono ironicamente paludato, ma in realtà scherzoso: “Ho con me tutti i parafernalia di cui c’è bisogno per il nostro lavoro” (e magari sono chiavi inglesi, cacciaviti et similia…).
Dimenticavo: i beni parafernali sono stati aboliti con la riforma del diritto di famiglia del 1975. Ma trovatemi un’altra lingua, tra quelle civili intendo, che possieda anche solo un termine equivalente.
Sempre nell’ambito del linguaggio settoriale giuridico altro termine interessante, anche se poco usato, è “brocardo (o broccardo)”. Il nome deriva da Brochardus, vescovo di Worms vissuto tra il X e l’XI secolo ed autore di una raccolta di massime giuridiche, e designa una breve sentenza, in genere latina, che sintetizza in maniera efficace un concetto giuridico di valore abbastanza comune. Il più famoso tra i broccardi è certamente “dura lex, sed lex”, ma fanno la loro parte (e la fanno bene) anche “summum jus, summa iniuria” oppure “contra factum non valet argumentum”. Tre esempi semplicissimi che ci confermano ancora una volta come la nostra civiltà italica, anche nei suoi aspetti linguistici, poggiasse su basi non solo solide (il diritto), ma anche sue specifiche (il diritto romano, nel caso di specie). Del primo broccardo non c’è molto da dire: se una sentenza ci appare dura la dobbiamo comunque accettare poiché stabilita dalla legge; nel secondo caso si sottolinea come talvolta l’applicazione rigorosa della legge, anche nei minimi particolari, possa trasformarsi nel suo contrario, cioè in un’offesa a chi la subisce; infine l’ultimo esempio vuole dichiarare come di fronte alla realtà dei fatti nessuna argomentazione contraria, anche la più sottile, possa aver valore.
Chiudiamo questa parte ricordando come taluno confonda “brocardo” con “broccato”, ma su di ciò – direbbe Dante – “parole non ci appulcro” (Inferno c. VII, v. 60).
Il caso di “grimorio”, invece, è quello di un termine di uso esclusivamente dotto e di area specialistica. Si tratta di un libro malefico, di origine medievale, in cui venivano riportati formule di incantesimo, malefici, ricette di filtri magici, invocazioni diaboliche e stregonesche, spesso ornato di immagini orrorifiche e bestiali.
Dal linguaggio della filosofia alla lingua comune “dotta” solo pochi termini (ma molti altri se ne possono trovare): assiomatico ed apodittico, ma anche – perché no – catastematico e metanoetico.
Vediamone in breve il valore. Assiomatico dicesi per indicare una “verità”, un dato di fatto, una evidenza (scientifica o filosofica) così chiara da non aver neppure bisogno di spiegazione o di argomentazione: il maschio è maschio e la femmina è femmina ed in quanto tali sono gli unici esseri che, accoppiandosi, possono generare un’altra vita. Apodittica è una affermazione, e per traslato metonimico anche la persona che afferma, data per scontata e non bisognosa di dimostrazione, ma che invece tale non è: un falso assioma, insomma (“Le cose stanno così perché lo dico io…”). Più raffinati, e di uso meno comune, sono catastematico, il piacere “in riposo” per Epicuro, cioè il “vero” piacere, quello appunto che non viene ricercato (il “piacere in movimento o cinetico”), ma che nasce dalla mancanza di passioni (atarassìa), e metanoetico, che è tutto ciò che riguarda la conversione (metánoia), che è appunto un “cambiare radicalmente il proprio modo di pensare” (metanoéo). Troviamo questo termine utilizzato molto spesso nei Vangeli. A ben pensarci, i due termini, quello latino e quello greco, sono due esempi, minimi forse ma sintomatici, del modo tutto proprio delle due lingue (e dei due mondi mentali) di intendere la realtà, definendola quindi con le parole. Il latino, nella sua concretezza di un popolo di giuristi e di costruttori, intende la “conversio” come un “muoversi in una direzione diversa, ma insieme (nel nostro caso) a Dio” (cum + verto, “mi giro con”); il greco invece, lingua di filosofi e di matematici, persone quindi di elevatissima capacità di astrazione, che non è (attenzione!) “astrattismo” di bassa specie, mancanza di senso pratico, ma capacità di innalzarsi dalla realtà concreta a quella metafisica, parla di “metánoia”, cioè di “cambiare modo di pensare, andando al di là dell’attuale” (metà + noéo, “vado al di là del mio modo di pensare”). La nostra lingua in questo caso è debitrice alla sua progenitrice diretta, il latino.
Prima di passare al “disvelamento” delle parole difficili iniziali, chiudiamo in bellezza questa chiacchierata “sesquipedale” con la spiegazione proprio di questo aggettivo, che letteralmente significa “di un piede e mezzo”. Il prefisso latino sesqui- infatti (< semisque) vale “di una metà in più”, cioè in rapporto di tre a due. Oltre all’uso dotto, in musica ed in chimica, di questo prefisso, utilizzato anche dall’Alfieri per il titolo della sua satira La sesquiplebe (cioè la borghesia, che è, per l’astigiano, la “plebe una volta e mezza”), “sesquipedale” indica, ironicamente, qualcosa di eccezionalmente grande, di enorme.
Veniamo ora allo scioglimento del significato dei due termini “difficili” proposti.
Staurós è parola greca che significa “croce”; infatti nell’onomastica greca esiste il nome di persona maschile Stavros (ricordo che nel neo-greco la ypsilon, cioè u, si legge v e che il termine staurós è maschile) avvicinabile, come senso, ma non propriamente come significato, all’italiano Crocifisso (lo zio Crocifisso di malavogliana memoria…) o Crocifissa. Di –latria abbiamo detto poco fa parlando dei suffissoidi e dunque “staurolatria” è l’adorazione della Croce.
In “pantodapofago” troviamo un altro suffissoide: -fago, che rimanda all’idea del mangiare (fag- è una delle radici afferenti al verbo greco esthío, “mangio”), mentre pantodapo- viene dall’aggettivo greco pantodapós, “di ogni genere, svariato”. Il composto lessicale significa dunque “chi mangia cibi di ogni genere”, l’equivalente, quindi, del latino, “onnivoro”.
6 commenti su “Raddrizziamoci con la nostra lingua / X – Rubrica mensile di Dario Pasero”
Ancora uno splendido segmento di luce sulla nostra lingua che mi auguro possa, caro Pasero, unitamente ai tuoi precedenti interventi, costituire un’antologìa perché ‘indocti discant et ament meminisse periti’ (F. Hénault).
Gentile Prof. Pasero, tanto apprezzo la sua rubrica mensile che mi permetto, con gran faccia tosta, di chiederle di spiegarci il significato di due termini che non ho trovato neppure sul vocabolario Devoto – Oli. Il primo è PERSIFLAGGIO e lo usa Luigi Illica, autore del libretto dell’opera “Andrea Chenier” di Umberto Giordano nel I atto. L’altro è PREPOSTERO e lo scrive il teologo Romano Amerio nel suo famoso saggio “Iota Unum”, Ed. Fede & Cultura 2017, pag. 154. Non ho ben capito se queste parole siano sostantivi o aggettivi o addirittura se le abbiano inventati gli autori, ma forse pensando questo sono molto impertinente. Comunque se vorrà chiarirmi le idee le sarò molto grata e intanto le auguro di cuore BUON NATALE e BUON ANNO. CARLA
Gentile Signora, grazie per il Suo apprezzamento ed anche per le richieste, che mi aiutano a cercare e studiare e, quindi, ad imparare qualcosa. “Persiflaggio” non si trova su alcun dizionario perché… non esiste; o meglio, cercando una parola che rimasse con “omaggio” e si adattasse al verso, l’Autore ha reso in italiano il francese “persiflage”, che significa “presa in giro, canzonatura”, e che quindi, in questo contesto, non ha alcun valore se non quello, come detto, di rima. “Prepostero”, secondo la definizione del vocabolario Treccani, significa “ciò che è invertito nell’ordine cronologico”, con esempi in Galileo e nel Metastasio. Sperando di esserLe stato utile, Le invio anch’io sinceri auguri di un buon e Santo Natale.
Gentile sig. ra, prepostero dal lat. praeposterus significa invertito cronologicamente o,estensivamente,tardivo,intempestivo ( voc.lingua italiana Treccani); persiflaggio è francesismo da persiflage,canzonatura,parodia (probabilmente un francesismo non attecchito e quindi non riportato dai dizionari) mi appello,comunque all’ auctoritas del destinatario del quesito buon Natale a lei!
Gent.ma Carla, mi permetto, con benevola licenza del prof. Pasero, di illustrare i termini che lei ha sottoposto a chiarimento. PERSIFLAGGIO è l’italianizzazione del francese PERSIFLAGE, che vuol dire “presa in giro – canzonatura” mentre per PREPOSTERO – di ameriano aulico uso – giocando con PRE = prima e POST = dopo, si indica un alcunché di invertito, tardivo, intempestivo, un po’ come il famoso HYSTERONPROTERON (Ultimo – primo) in cui i termini dell’ordine cronologico sono capovolti tali che il prima segue il dopo.
Grazie di cuore ai tre gentili amici che mi hanno illuminato. Non si finisce mai di imparare e io sono la prima a riconoscere le mie molte lacune che Riscossa Cristiana mi aiuta a colmare.
Rinnovo a tutti i miei auguri con sincera amicizia.