Mi è tornata in mente la battuta di un amico dei miei vent’anni, arguto, colto, comunista, che parlando di non so quale suo conoscente, disse con una risata benevola: voleva distruggere lo stato e ora lavora per l’archivio di stato.
Erano i primi anni del cosiddetto riflusso, la fase nuova dalla quale si ripartiva dopo gli aggiustamenti iniziati col mitico sessantotto (è il caso di dirlo così, mitico, perché non tutto quello che è stato tramandato ha attinenza con la storia) e che di quest’ultimo fu, a parere mio, il naturale proseguimento, quali che fossero gli ideali di coloro che furono i protagonisti di quella stagione.
Di quell’aria lì avevano respirato tutti. La società italiana nel suo complesso cambiò profondamente. Tutti assorbirono gli umori dissacranti della stagione, ne adottarono i comportamenti omologanti, lessero i libri che si dovevano leggere, e anzi che si potevano leggere, perché il campo della cultura fu occupato e arato dal mondo della sinistra. Non che non vi fossero anche una cultura, una letteratura, una filosofia cattolica e una di destra, ma quest’ultima, nella sua componente tradizionale e sociale fu emarginata, mentre cattolici e liberali preferirono limitarsi a esercitare il controllo sull’economia, considerato più importante per il mantenimento del consenso e dei propri interessi.
A partire da quel riflusso, diciamo dalla metà degli anni ottanta del secolo scorso, la sinistra cominciò a mutare pelle, a non essere più quella che teneva la barra diritta sui bisogni dei lavoratori e della parte più debole della società. Il partito comunista, che ne era cuore e sostanza, di lì a pochi anni fu terminato. Tutto quello che è venuto dopo, i sedicenti continuatori, non hanno mai avuto niente a che vedere con quella storia. Che non è la mia, ma è stata una storia culturalmente degna e storicamente comprensibile.
Sono stati anche gli anni, quelli, a partire dai quali la differenza tra destra e sinistra ha incominciato a sfumarsi. Permaneva nella testa di qualche pensatore, veniva alimentata con qualche artificio dagli schieramenti parlamentari, ma perdeva importanza e significato agli occhi della popolazione, condizionata sempre più da una martellante propaganda a pensare nello stesso modo sugli aspetti fondanti della società, sovversivi dei valori fino allora esistenti, quelli di una parte come dell’altra.
Da un lato, la parte più debole della popolazione era avvilita nel rendersi conto anno dopo anno che non vi era più rappresentanza politica che ne difendesse gli interessi materiali. Dall’altro, tutti furono addestrati, attraverso un uso sapiente delle finestre di Overton, a essere sempre più aperti verso costumi che non facevano parte della tradizione culturale della nazione e ne disgregavano la tenuta morale.
Era caduto il muro di Berlino, si estinse l’Unione Sovietica. Sulle ceneri del Pci fu costruito una sorta di partito radicale di massa. Questo approdo nichilistico è stato spiegato sul piano filosofico da Augusto del Noce che ha descritto come l’esito coerente della teoria marxista sia “inglobamento dei valori nell’unico valore della rivoluzione, inglobamento che non può non portare alla totale dissoluzione dell’etica nella politica”, mentre per quanto riguarda la concreta realizzazione storica, in mancanza di spiegazioni più persuasive, siamo autorizzati a utilizzare, con precauzione ma con una certa attenzione, le tesi impropriamente dette “complottiste” delle quali qui non ci occupiamo.
Questo processo di “radicalizzazione” ha permeato presto tutta la società, e ha consentito che si diffondesse in tutti gli ambiti del vivere civile una nuova mentalità totalizzante dalla quale la destra, non è rimasta certo indenne. Magari in maniera meno evidente, essa oggi non mette in discussione (nei fatti, e spesso nemmeno a parole) nessuno dei valori non negoziabili di quella che ha tutti i crismi di una nuova religione.
Prendiamo per esempio l’obbligo del pareggio di bilancio inserito nella costituzione, votato dal Parlamento a larghissima maggioranza. Che senso ha costringere dentro i vincoli di un obbligo normativo una materia, la politica economica (di questo essenzialmente si tratta) che dovrebbe essere lasciata alla discrezionalità dei governi eletti? Prima di tutto perché si suppone che possano ancora esistere differenti orientamenti politici, e poi perché essa, per sua natura, deve comunque adeguarsi alle fluttuazioni del ciclo economico.
Certo, in uno stato sovrano che abbia il potere di emettere moneta il debito pubblico non sarebbe un cappio al collo, e vi sarebbe comunque la possibilità di tenerlo sotto controllo, mentre oggi, nelle condizioni date, non è rimborsabile neppure se qualcuno volesse realmente provarci, anche questo è un fatto che va notato.
Un altro esempio eclatante di indifferenziazione culturale è l’adesione bipartizan alla necessità del siero genico quale risposta alla pandemia e la conseguente sostanziale accettazione, al netto di marginali differenze, dei metodi con i quali sono stati sottratte ai cittadini fondamentali libertà umane, per sovrappiù garantite dalla costituzione.
Infine, ultimo ma non ultimo, è di ieri il parere favorevole del governo a un ordine del giorno approvato quasi all’unanimità dalla Camera, con il quale la legge 194 sull’aborto è stata dichiarata non solo insostituibile, ma addirittura inemendabile.
In questa avvilente situazione di completa omologazione culturale, di sudditanza intellettuale a chissà quale artificiale “spirito dei tempi” , ha destato un certo stupore sentire che il sommo poeta Dante sia stato il fondatore del pensiero di destra. Ma la recente uscita del ministro della cultura ha provocato un vivace dibattito e così anche noi ci siamo chiesti: come avrebbe reagito Dante di fronte allo smantellamento, ormai giunto a buon punto, della sanità pubblica? Che avrebbe pensato sulle cause per le quali il debito pubblico è divenuto insostenibile? E in politica estera che posizione avrebbe avuto? Probabilmente nella Commedia, dove c’è quasi tutto quel che c’è da sapere, e nelle altre opere del Poeta, si troverebbero anche le risposte a queste domande se le cercassimo.
Però la destra politica più che rivendicare l’improbabile appartenenza al proprio campo di qualsiasi letterato o filosofo, quantomeno antecedente alla rivoluzione francese, dovrebbe prima di tutto ripensare seriamente se stessa a partire dalla riflessione sul se e in che modo intenda opporsi alla deriva transumana e totalitaria in corso attuata attraverso le possibilità offerte dagli sviluppi della tecnica e dalla digitalizzazione della società.
In un secondo tempo dovrebbe organizzare una politica culturale, che probabilmente non ha mai avuto, favorendo la nascita di case editrici e giornali, riappropriandosi dei propri spazi nella scuola e nelle università, creando associazioni culturali ed altre attività di questo genere. E così riorientare la coscienza della popolazione. Qualcuno comunque questo lavoro dovrà farlo, ammesso che ve ne sia ancora il tempo.
Tornando ai progressisti, quelli che, si sa, oggi abitano soprattutto le proverbiali ZTL: ci sono i giovani, allevati e plasmati in questo “mondo nuovo” e di loro, in linea generale, c’è poco da dire. Dobbiamo aver chiaro che essi vivono già in un’altra dimensione, di realtà “aumentata” per così dire. Sul tema principale di queste righe, “cos’è la destra, cos’è la sinistra” (se lo chiedeva anche Giorgio Gaber), non potrebbero opinare nulla perché quello che noi anziani faticosamente cerchiamo di interiorizzare, la scomparsa di queste categorie, o perlomeno la loro ridefinizione, per loro non è un problema, non ne afferrano il significato (come non costituisce problema per loro l’esistenza o la non esistenza di Dio, l’unico davvero ineludibile dal quale tutti gli altri discendono).
Poi ci sono quelli della mia generazione, quelli rimasti “fedeli”, dicono, alle loro idee. In realtà sono rimasti fedeli all’involucro che secondo loro le conterrebbe e che invece ne ha avallate ben altre, tutte nella cosiddetta area dei “diritti”, della maggior parte dei quali i più avveduti si guardano bene dall’avvalersi.
Sono dei buoni borghesi, contenti di esserlo, anche se l’appellativo, per un antico retaggio, suonerebbe male alle loro orecchie. Non si accorgono allora che attraverso la cosiddetta cultura della cancellazione viene suicidato il loro stesso mondo, non vedono gli interessi, ideologici e materiali, che stanno dietro alla demolizione di tutte le loro, le nostre radici? Oppure vedono e sono d’accordo? Preferiscono chiudere gli occhi? Cattiva coscienza? Chi lo sa? Magari pensano, per ragioni anagrafiche, che la cosa non li riguardi. Ma dei figli e dei nipoti non gli importa?
Il bene cosa è per costoro? Non credono in Dio e d’altra parte hanno smarrito nell’ottundimento provocato dal consumismo e dai circenses correlati ogni riferimento ai grandi edifici ideali del secolo scorso. Non a caso nel corso degli anni si è periodicamente sentito parlare della necessità di liberarsi dell’ipoteca gramsciana crociana sulla cultura italiana. Qualsiasi manifestazione di pensiero, non solo il cristianesimo, ma anche marxismo e idealismo sono divenuti ingombranti e pericolosi per questa tecnocrazia che non tollera nulla fuori di sé, essendo volontà di potenza allo stato puro.
Allora queste persone si aggrappano a un residuo impallidito e retorico di ciò che appresero nella scuola gentiliana e nella società della millenaria tradizione cristiana (della quale sono ancora intrisi, anche se la respingono), praticano cioè un buonismo a prezzo modico. Ma in loro si è affievolita la facoltà e soprattutto la volontà di discernere verità da menzogna e perciò si affidano ai giudizi della televisione e dei giornali di riferimento, ritenuti, chissà perché, democratici e popolari, sebbene in senso contrario suggeriscano chiaramente sia i contenuti, sia le proprietà.
Così, per esempio, il cosiddetto “vaccino” è stato negli ultimi anni il bene supremo, e il “no vax”, questa categoria fasulla creata dal nulla come una banconota, di converso ha rappresentato il male assoluto. La narrazione cui le circostanze della vita nelle quali si trovano li ha obbligati a credere è stata dettata da acronimi misteriosi, studi di non meglio specificati esperti, dichiarazioni di filantropi ( da non confondere con gli oligarchi) e da un pugno di medici, anche loro creati ex nihilo, che da tre anni a questa parte hanno riempito gli schermi televisivi della nazione.
Alcuni di questi vecchi “rivoluzionari” sono dirigenti di multinazionali che hanno come profeti i grandi ceo del capitalismo internazionale. Altri lavorano nei giornali finanziati coi soldi pubblici, o nelle televisioni, o sono medici che applicano con zelo i protocolli che vengono loro imposti, esentandoli dalla responsabilità e dal dovere del rapporto personale col malato. O dirigenti scolastici (i presidi di una volta non ci sono più) che implementano i metodi didattici della “buona scuola”. Ma come faranno a decifrarne i testi programmatici? E se li decifrano, come non ne rimangono inorriditi?
Non voglio sostenere però che codesti solerti funzionari si trovino solo nel campo progressista. O per dire meglio: il progressismo ha preso tutto il campo, a prescindere da quale partito si decida di votare. Non è questione di apporre una croce su un pezzo di carta, è questione di mentalità. E almeno sotto questo aspetto l’obiettivo dell’immunità di gregge pare sia stato raggiunto.
Tuttavia vi è un importante aspetto positivo nel momento che viviamo: si è resa visibile un’umanità trasversale alle ideologie e agli schieramenti che nel corso della vita ci si trova a scegliere, spesso per induzione più o meno casuale.Sono uomini di destra e di sinistra, credenti e atei, giovani e vecchi, molti poveri e perfino qualche ricco. Divisi ieri nelle idee che sostenevano e magari da opposti interessi materiali, ma riuniti oggi dalla consapevolezza che oggi è in gioco qualcosa di più importante che tutto precede: la libertà, niente più e niente meno di questo.
È su di loro che si regge la speranza di una ricostruzione di questa società impazzita, in Italia come in tutto l’occidente del resto. Dopo si potrà ritornare al normale confronto delle idee, alimento vitale dei rapporti sociali, si chiamino destra e sinistra i campi di appartenenza o come la storia vorrà nominarli.