Redazione
.
Sabato 6 febbraio 2016, a Firenze, presso l’Istituto Universitario Alfa Nuova di Via Poggi 6, è stato presentato il volume di Domenico Rosa: “Pezzi : racconti di vita, tradizione e folklore” (ed. Tabula Fati). Di fronte a circa cento persone hanno parlato, oltre all’Autore, Simone Innocenti, prefatore del libro e cronista di “nera” del “Corriere Fiorentino”, l’ Edizione Toscana de “Il Corriere della Sera”, la giornalista Filomena D’Amico, l’antropologa Maria Alba e il Direttore di “Controrivoluzione” Pucci Cipriani. Domenico Rosa, abruzzese di Quadri, ha vissuto per quindici anni a Firenze, dove si è laureato in Storia contemporanea. Nel 2009 ha pubblicato un saggio su “fiume Dannunziana” (Eclettica Edizioni, Massa), autore, con Roberto Carlo Deri di “Avventure in Abruzzo. Tra natura e mistero”(Chieti 2016). E’ stato redattore di cronaca nera per “Il Sito di Firenze”, collaboratore, da molti anni di “Riscossa Cristiana” e del quadrimestrale “Controrivoluzione”; ha partecipato anche, quale relatore, ai Convegni della Tradizione Cattolica della “Fedelissima” Civitella del Tronto. Attualmente vive a Roma con la Comunità Religiosa dei Missionari del Sacro Cuore di Gesù, in cammino verso la vita consacrata.
Pubblichiamo di seguito l’intervento di Pucci Cipriani
= = = = = = = = = = = =
Leggendo Pezzi, e cercando di inserire Domenica Rosa in una corrente letteraria, mi sono immediatamente venuti alla mente due termini: “Strapaese” e “Realismo magico”.
Cos’è Strapaese? È una tendenza letteraria che si ispirò alle tradizioni schiettamente paesane, contro ogni forma di cosmopolitismo o esterofilia. Le sue origini si possono far risalire al manifesto nazionalista di Giovanni Papini (1904), e atteggiamenti ‘strapaesani’ sono già rintracciabili in alcuni scrittori dell’europeizzante Voce, quali Papini stesso e Ardengo Soffici; ma assunse questo nome, e si affermò come polemica espressione di un gusto, solo nel primo dopoguerra. Esponenti maggiori furono Mino Maccari, direttore (dal 1927) del periodico di letteratura, arte e costume Il Selvaggio, e autore del Trastullo di Strapaese (1928), raccolta di versi popolareggianti; Leo Longanesi, che fondò (Bologna, 1926) un periodico di carattere affine, L’Italiano; Curzio Malaparte, autore fra l’altro di L’Arcitaliano (1928). Legati a strapaese furono artisti e scrittori diversi come Luigi Bartolini, Romano Bilenchi e Ottone Rosai; fra i simpatizzanti si possono citare Antonio Baldini, Riccardo Bacchelli, Camillo Pellizzi. Come si vede – tutt’altro che a caso – la presenza toscana è assolutamente preponderante.
A strapaese si contrappose stracittà, di cui fu espressione culminante il cosiddetto Novecento, o novecentismo, capeggiato da Massimo Bontempelli. Tanto l’una quanto l’altra tendenza mancarono di un vero contenuto ideologico, e in breve infatti si estinsero, quando (come nel caso di Malaparte) non si mescolarono in vario modo tra loro.
Domenico Rosa parte spesso da una ambientazione cittadina, in particolare fiorentina, per poi giungere ad una idealizzazione agreste, sempre legata al suo amato Abruzzo natio. Ne è un palese esempio il primo racconto che apre questa silloge, che si intitola La ragazza che non poteva amare: anzi, l’abbandono della grande città, luogo dalle grandi opportunità ma anche dalla grande freddezza, sembra essere il punto di partenza di una storia che, però – vedremo dopo meglio perché – non approda ad un lieto fine.
Leggiamo l’incipit del penultimo racconto, “O cummannà è megljo d’’o fottere” (Comandare è meglio di fare all’amore), anch’esso improntato alla idealizzazione della vita in campagna:
Dopo il “faticoso” anno accademico fiorentino ero tornato tra i miei monti, buttandomi alle spalle l’afa cittadina e immergendomi nel verde refrigerio delle serate abruzzesi. (p. 57).
La seconda parola è Realismo magico: termine usato sia in letteratura che in pittura. In particolare, nella letteratura, esso distingue un filone letterario in cui gli elementi magici appaiono in un contesto altrimenti realistico. Qui, come autori di riferimento ci spostiamo dalla Toscana, perché i nomi generalmente legati a questo tipo di scrittura sono sudamericani (pensiamo a Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez, del 1967, che viene considerato uno dei principali testi del realismo magico insieme agli stupendi racconti di Jorge Luis Borges), ma a mio parere l’autore maggiore da questo punto di vista è il nostro Dino Buzzati.
Come non parlare di realismo magico per lo stesso racconto citato prima, La ragazza che non poteva amare?
Proviamo a leggerne alcune righe:
Le donne che si recavano a lavare i panni raccontavano che una volta l’anno il corso d’acqua, che nasce nel Parco Nazionale e sfocia nel mare Adriatico, si colora di rosso a causa dei morti ammazzati durante le battaglie avvenute nel corso dei secoli. L’ultima vita spezzata e finita nel Sangro era quella di un soldato tedesco durante la seconda guerra mondiale. L’uomo era stato ammazzato il 27 ottobre del 1943. Le circostanze della morte erano note a tutti ma nessuno voleva più parlarne proprio perché quell’ennesimo sangue sparso aveva risvegliato la memoria. Ogni 27 ottobre, infatti, nel primo tratto in cui l’Abruzzo lascia il passo al Molise, il fiume torna rosso. (p. 22).
Qui possiamo apprezzare come la poesia del realismo magico nasconda, come un velo che il lettore è invitato a sollevare, una cruda accusa: quella delle violenze partigiane, dimenticate da coloro che cercarono di utilizzare la guerra civile per portare al potere il più barbaro e dispotico dei governi, anzi delle dittature, che con i suoi duecento milioni di morti farebbe impallidire qualsiasi raffronto, anche con lo stesso bestiale nazismo (che cosa sono, in fondo 200 milioni rispetto ai 6 milioni dell’olocausto?) ma che, grazie al mito della resistenza, è riuscito a riciclarsi e a farsi passare per il migliore dei governi possibili, addirittura, con la Teologia della Liberazione, il più vicino al cristianesimo!
Ma torniamo al racconto:
Mentre Rosaria era intenta a insaponare le lenzuola, la piccola passeggiava sul greto. Di colpo vide l’acqua tingersi di rosso e non riuscì per la troppa curiosità a non immergere la mano. Subito fu risucchiata dalla corrente che la fece cadere in un mulinello. [Salvata in extremis] Da quel giorno Anna cambiò atteggiamento verso la vita, la bimba giocosa e solare si perse dietro lo sguardo tetro di una donna cresciuta troppo in fretta. Il padre continuò a stravedere per lei e non credette mai all’acqua tinta di rosso. Il coraggioso pescatore che aveva assistito a quella specie di incantesimo rassicurò la bimba dicendole che quel colore era frutto della sua immaginazione. (p. 23).
L’unico modo di bloccare l’incubo sarebbe stato quello di tornare in riva al Sangro il 27 ottobre.
Così fece. La giornata era mite, un sole alto faceva brillare la flora accanto al greto. Si sedette aspettando di vedere cosa sarebbe successo. Nemmeno due minuti e il fiume tornò a colorarsi.
Proprio come ventitrè anni fa immerse la mano.
L’acqua sembrava leggera, Anna, stanca del mondo, si lasciò scivolare. Questa volta nessuno accorse a salvarla. Venne ritrovata la mattina successiva nei pressi della vecchia centrale elettrica. (p. 25).
.
Pienamente legato allo spirito del realismo magico è il breve racconto La processione dei morti che si svolge, non a caso, il 2 novembre:
Marietta al solo pensiero impallidì. Qualche anno prima, la madre Filomena le aveva raccontato la storia di una fornaia della Val Pescara. La donna, alzatasi di buon mattino per recarsi al forno, aveva notato la chiesa con le luci accese e aveva deciso di entrare. Non ricordava che era il 2 novembre, il giorno dei morti. In uno dei banchi riconobbe una comare che si girò e le fece segno di andare via. «Siamo tutti morti,» le sussurrò, «e questa è la messa che si dice per noi.» La povera sventurata corse via e perse la voce per lo spavento.
Marietta ha paura, cerca di pregare, ma non trova le parole. S’infila sotto le coperte e prova a dormire. Pensa e ripensa a quelle litanie in latino udite poco tempo prima e agli “ora pro nobis” di risposta. Chiude gli occhi e non sa più distinguere il sogno dalla realtà. Vede le strade del paese popolate di gente che visita le proprie case, visi di vivi e di morti che si abbracciano.
Nelle case si banchetta, si gioca a carte, si festeggia il ritorno. Così nella notte tra il 1° e il 2 novembre il filo che divide la vita dalla morte si assottiglia, quasi sparisce. I morti tornano nei vicoli dove sono vissuti per allontanare le malvagità dai loro cari.
Alle prime luci dell’alba la chiesa si riempie, Marietta è tra i fedeli. I volti sono tutti familiari, accanto a lei c’è la madre sorridente. Arriva la solenne benedizione e poi tutto scompare. Arrivederci al prossimo anno. Intanto il gallo canta.
Marietta è un corpo freddo. (p. 32)
.
Come si può apprezzare, ai due temi citati (strapaese e realismo magico) si affianca un sentimento religioso che accompagna tutti i racconti e che si compenetra con i due temi anzidetti: come non legare – purtroppo! – la religiosità ad un mondo contadino che sta scomparendo e ad un senso di lontananza nel tempo e nello spazio? Leggiamo l’inizio del racconto La maledizione della campana:
Le campane sono la voce di Dio, scandiscono la giornata del popolo cristiano e con il loro suono raccontano i sentimenti di giubilo e di pianto, di grazia o di supplica di tutta la comunità. (p. 41).
Risuona in queste parole l’eco – come di campana lontana, appunto – di qualcosa che tende a scomparire e che sembra provenire dagli abissi della nostra memoria. Vi dirò solo che a Borgo San Lorenzo il Comune ha vietato l’utilizzo delle campane a prima mattina, perché “disturba” i cittadini!
Le campane ritornano in un altro racconto, L’atteso ritorno, che non a caso riporta una data di varie decadi fa:
La Fiat 6 cilindri 1500 si fermò nella piazza di Quadri. Era il 14 marzo del 1946: il secondo rintocco della campana che annunciava la celebrazione domenicale era già suonato. Attorno un paesaggio desolante, calcinacci e macerie ovunque.
Anche la chiesa di Santa Maria dello Spineto appariva gravemente lesionata. I fedeli, incuranti dei rischi, ogni domenica l’affollavano.
Maria era in ritardo, scese di corsa le scale di via Colle per andare a messa. (p. 51).
1946: settant’anni fa. Ma sembrano passati secoli e secoli. Dove si trova, ai nostri giorni, un paese che si sveglia gioiosamente al richiamo delle campane e che addirittura “corre” per non arrivare in ritardo alla Santa Messa? Almeno dal Vaticano II in poi è difficile… e, data la bruttezza del Novus Ordo, permettetemi, è anche comprensibile.
.
Chiudo con una considerazione sul titolo: “Pezzi”, come i ritagli di giornale. Come gli articoli che Domenico Rosa ha scritto per tanti anni. Negli articoli, nei “pezzi” non c’è approfondimento psicologico, c’è la nuda esposizione del fatto, che lascia al lettore il compito di approfondire, se lo desidera, le motivazioni psicologiche.
Parimenti nei suoi racconti, Rosa non indulge in descrizioni che non siano strettamente essenziali e con pochi tratti, appunto da giornalista, delinea personaggi e paesaggi. Ciò contribuisce a instillare nel lettore un senso di ulteriore angoscia che si somma a quella delle vicende (come visto, non sempre a lieto fine).
Di fronte a tanta tristezza, allora, diventa più forte la luce della speranza evocata dal suono delle campane, dalla recita della Santa Messa (quella vera, quella che attrae tutto il paese, quella di prima del Concilio, ovviamente).
È la forte religiosità che promana da queste pagine che permette di superare l’angoscia che il cronista, che il giornalista riporta nei suoi “pezzi” che non possono che fotografare una realtà, quando separata dalla Fede, che non può essere che triste e cupa.
1 commento su “Pucci Cipriani ha presentato a Firenze il libro “Pezzi: racconti di vita, tradizione, folklore” di Domenico Rosa”
Mi sento molto legato a questa visione ‘agreste’ e fossi vissuto a quel tempo avrei aderito al tradizionalismo dei cosiddetti ‘selvaggi’ di Strapaese. Se vigesse ancora oggi quella intransigenza sul piano politico, culturale e religioso portato avanti dai ‘selvaggi’ di Strapaese! Come non vedere nei ‘selvaggi’ i militi a custodia del bello, dell’italianità profonda, della Tradizione e della Civiltà italica. In quel contesto variegato e pullulante che caratterizzò gli anni venti del secolo scorso, i ‘selvaggi’ furono, a mio avviso, gli unici che compresero in profondità l’essenza dell’essere italiani e cattolici. Quella era gente ben cosciente di chi fossero i nemici dell’Italia e della Chiesa.
Ringrazio per la segnalazione del libro che acquisterò sicuramente. Chiudo dicendo che solo chi ha potuto ammirare le bellezze di quella parte d’Italia che comprende Molise, Abruzzo e Lazio, dove ancora può cogliere qualche parvenza di civiltà contadina, potrà apprezzare il libro in modo più…