Popolo del coronavirus & Popolo della lippa

Anch’io mi sono immerso, e con gran soddisfazione, nella letteratura distopica in cerca di pagine che permettessero di capire cosa ci sia nella pancia della macchina infernale del coronavirus. Da 1984 al Mondo nuovo, passando per Fahrenheit 451, Il Signore delle mosche e Ragazze elettriche, ne ho tratto le stesse conclusioni a cui sono giunte tutte le persone dotate di due dita di cervello: la Gran Macchina del Covid è frutto di un evidente disegno contro l’uomo e la sua libertà. D’altra parte, lo sapevamo prima di cominciare a leggere.

Però, senza nulla togliere a opere così importanti, mi sembra più gustoso e forse anche più efficace il brevissimo apologo di Italo Calvino “Chi si contenta” che ho ritrovato nel volume Prima che tu dica «Pronto». Oltre all’impietosa concisione, queste poche righe hanno il pregio di essere prive di qualsiasi sovrastruttura ideologica e di tenere semplicemente d’occhio quale fine facciano il buonsenso e la pazienza del popolo quando vengano compressi oltre ogni misura. Dunque, ecco quanto racconta Calvino.

C’era un paese dove era proibito tutto. Ora, l’unica cosa non proibita essendo il gioco della lippa, i sudditi si riunivano in certi prati che erano dietro al paese e lì, giocando alla lippa, passavano le giornate.
E siccome le proibizioni erano venute un poco per volta, sempre per giustificati motivi, non c’era nessuno che trovasse a ridire o non sapesse adattarsi. Passarono gli anni. Un giorno i connestabili videro che non c’era più ragione a che tutto fosse proibito e mandarono messi ad avvertire i sudditi che potevano fare quel che volevano.

I messi andarono in quei posti dove usavano riunirsi i sudditi.
Sapete – annunziarono – non è più proibito niente.
Quelli continuavano a giocare alla lippa.
Avete capito? – insistettero i messi. – Siete liberi di fare quel che volete.
Bene, – risposero i sudditi. – Noi giochiamo alla lippa.
I messi s’affannarono a ricordar loro quante occupazioni belle e utili vi fossero cui loro avevano atteso in passato e cui potevano di nuovo attendere d’allora in poi. Ma quelli non davano retta e continuavano a giocare, una botta dopo l’altra, senza nemmeno prender fiato.
Visti vani i tentativi, i messi andarono a dirlo ai connestabili.

Presto fatto – dissero i connestabili. – Proibiamo il gioco della lippa.
Fu la volta che il popolo fece la rivoluzione e li ammazzò tutti.
Poi senza perder tempo, tornò a giocare alla lippa.

E veniamo a i nostri giorni. Come il popolo che chiameremo “della lippa”, anche quello che chiameremo “del coronavirus” ha perso interesse per le antiche libertà e si è affezionato ai nuovi divieti. Ma, a differenza di quello “della lippa”, temo che quello “del coronavirus” non sia in grado di dare un segnale di fastidio altrettanto limpido e inequivocabile almeno al cospetto del Divieto Estremo, del Figlio di tutti i Divieti. Il paradosso della libertà ripristinata tramite una proibizione non urterebbe alcuna sensibilità nel popolo “del coronavirus”. Se in nome della libertà gli proibiranno di giocare alla lippa, smetterà di giocare alla lippa perché in realtà non è più un vero popolo e può vivere solo di divieti imposti da governanti che non sono più veri governanti.

L’unica alternativa al divieto che ex popolo ed ex governanti sono in grado di concepire è l’obbligo: vietato avvicinarsi a più di un metro e obbligo di portare la mascherina. Tutto quanto non è obbligatorio è proibito. La vita in questo grande lager senza cielo che si chiama civiltà moderna è compressa tra questi due estremi senza che nulla ci possa stare in mezzo. Tanto che risulta più corretto ricorrere al termine “sopravvivenza”, l’unica prospettiva cara all’ex popolo.

Tutto questo per dire che non ci dovrà aspettare alcun sussulto da parte di chi non ha animo per sussultare. A nulla varrà il richiamo alle vecchie attività e alle vecchie passioni, perché i divieti le avranno cancellate dalla pratica quotidiana e, soprattutto, dalla memoria. Nel racconto di Calvino, pur nella costrizione, il popolo ha mantenuto quanto meno una vaga nostalgia della libertà. Nella realtà dei nostri giorni, non è rimasta neppure quella, vi hanno rinunciato quasi tutti da tempo perché costa troppa fatica e troppi sacrifici.

Il vecchio Mao, di cui buona parte dell’ex popolo tiene ancora il poster in salotto o il santino in qualche vecchio libro Feltrinelli, diceva che “La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La rivoluzione è un atto di violenza”. Tra la rivoluzione e il pranzo di gala, vince il pranzo di gala, con tanti saluti al Grande Timoniere. E sotto il tavolo si allungano gambe di tutte le risme: di pretaglia in jeans e in talare, di politici di lotta e di governo, di intellettuali scomodi e accomodanti, di scienziati di ricerca e di casa farmaceutica… Se questa è la créme, cosa si può imputare al povero ex popolo? Se gli proibiranno di giocare alla lippa, smetterà di giocare alla lippa. Non facciamoci troppe illusioni.

16 commenti su “Popolo del coronavirus & Popolo della lippa”

  1. In realtà, oggi abbondano le libertà abusive (quelle che ci hanno condotto in questa palude mefitica). La libertà di corrompere, prettamente democratica, usata soprattutto dal potere, bisognava che prevalesse sulla libertà esercitata dal buon popolo (ammesso che esistesse) o dai giusti eminenti (scomparsi con il Clero ortodosso). Il popolo reca ancora, nel suo intimo, il retaggio della sua identità romano-cattolica, ma non c’è chi ne sappia trarre profitto.

    1. Mi piacerebbe sapere dove si trova il retaggio romano-cattolico del popolo italiano. A me pare di vedere un retaggio democristiano, cioè ateo, traditore e corruttore. E’ l’eredità del guelfismo nel quale la chiesa cattolica ha sempre inzuppato il panino.

      1. Caro signor Donato, anche io penso che il guelfismo sia il tumore che ha distrutto l’occidente. Bisognerebbe capire quando comincia, secondo me nel primo millennio. Non è questo il luogo per parlarne a lungo, ma sarebbe interessante se in questo sito qualcuno lo facesse. E’ un’idea che butto lì.

  2. da una piccola e fallace ricerca, la prima volta che è stato usata la frase “nulla dovrà più essere come prima” risulta il 9 Febbraio. Poi aperitivi, slogan ed abbracci dei soliti noti sono proseguiti fino al 27 febbraio. Ma alcuni grandi movimenti finanziari e speculativi sono già dell’autunno del 2019… Probabilmente il disegno c’era già tutto! Grazie dott. Gnocchi, con questo brano chiarisce meglio ancora i possibili effetti del percorso imposto al popolo della lippa…, (locuzione più volte familiare ed ormai persa…)

  3. Alfredo Grande

    Quanto all’incidenza sociale del progresso tecnico, inutile spendere troppe parole: l’enorme accumulo di progressi tecnici ha moltiplicato i divieti di origine legislativa e amministrativa. Le comodità tecniche che abbiamo a disposizione hanno diminuito come contropartita la nostra libertà. Se Rousseau ritornasse in terra a vedere la nostra civiltà tecnica, sarebbe più che mai convinto di aver avuto ragione: l’uomo è nato libero, e dappertutto è in catene! Mentre accresciamo i nostri poteri tecnici, sparisce la spontaneità dei nostri riflessi sociali: dove era possibile camminare naturalmente, occorrono oggi innumerevoli stampelle per avanzare d’un passo.
    Il tecnico vero sa tutto questo. Ma l’uomo della strada, il filosofo, il teologo, l’intellettuale, e il tecnico stesso in quanto uomo della strada, non lo sanno. C’è una enorme distanza fra chi pratica le tecniche, e chi le utilizza. Il primo urta continuamente contro ostacoli nuovi, e sa per esperienza che i rimedi tecnici che egli vi apporta non possono accumularsi all’infinito senza una concentrazione di mezzi tale da non poterne più controllare la complessità. Chi invece dispone puramente e semplicemente dei risultati delle tecniche ignora questa misura. Il suo sguardo non è fissato sul sottile punto d’equilibrio nel quale sono concentrati i rischi di rottura, ma soltanto sui benefici e sulle comodità che può trarre dalle tecniche e che, naturalmente, vuole moltipllcare all’infinito. Chi pratica le tecniche deve fare i conti con le esigenze d’un oggetto al quale deve sottomettersi, sotto pena di distruggerlo, mentre il consumatore della tecnica incontra solo le esigenze illimitate della propria soggettività, e si perde nel suo desiderio di godere sempre di più dei benefici d’una tecnica che immagina inesauribile, semplicemente perché non ha mai avuto a che fare direttamente con essa, e non ha affrontato di persona i limiti del reale. Il suo giudizio e il suo agire non sono governati da una esperienza della tecnica e delle sue possibilità effettive, ma dal mondo nuovo che essa costruisce intorno a lui, e che egli coglie soltanto dal di fuori perché non ha partecipato alla sua creazione. Insisto molto sulla differenza fra chi pratica e chi utilizza le tecniche, poiché questa ci offre la spiegazione delle difficoltà e, aggiungerei volentieri se la parola non fosse troppo usata, della tragedia della nostra epoca. Il mondo delle tecniche sta sviluppandosi intorno a noi in modo tale, che l’immensa maggioranza degli uomini è incapace di comprenderne il funzionamento, e vi si colloca con la pretesa smodata del parassita e del barbaro: ne possiamo già cogliere le disastrose conseguenze. Invano tenta di nasconderle la pseudo-filosofia del progresso infinito, rinnovata dal secolo XVIII e camuffata in moto della storia.
    IL MITO DEL PROGRESSO di Marcel de Corte

  4. Franco Locatelli

    Dalla mia parti la lippa si chiama sgarèla e mi ricorda i tempi di quando ero bambino. Penso anch’io che non ci rimarrà più nemmeno quella. Ha ragione il conterraneo Alessandro Gnocchi, è troppo comodo dimenticare il nostro passato e le nostre libertà.

  5. Flavia Pastore

    Questo racconto di Italo Calvino è molto acuto, come tanti suoi scritti. Mi sembra un atto molto intelligente pubblicarlo anche se appartiene a una cultura che ci è lontana. Guardarsi attorno senza pregiudizi aiuta a comprendere meglio il mondo. Tornando al racconto, devo dire che neppure io ho speranze in questo ex popolo.

  6. Elena De Palma

    Ho sempre ammirato la lucidità di Italo Calvino. Da vero scrittore, gli bastano davvero poche righe per descrivere il disastro attuale. È tra i pochi autori imposti dalla scuola che vale la pena di conoscere. Forse per questo oggi nelle scuole compare molto di meno.

  7. Trappolone scattato da un pezzo il cui corollario sono confinamenti, distanze e mascherine. Naturalmente da parte della maggioranza tutto accettato e ben gradito, tanta è la perdita di noi stessi.

  8. L’ex popolo è ormai bollito a puntino, come la rana dell’apologo di Chomsky. Non aspettiamoci, no davvero, che sia capace di una reazione, quando gli toglieranno anche gli ultimi balocchi.

  9. Articolo STRAORDINARIO.
    Commenti eccellenti.
    Terminata la lettura di tutto quanto, mi è venuto spontaneo farmi il SEGNO DELLA CROCE…..

  10. Alessandra Canalis

    Anch’io penso che si tratti prima di tutto della qualità degli uomini. Questo sistema ha vinto perché ha fatto cadere tutti in un sonno maligno, anche gli oppositori che sono solo finti oppositori. E poi c’è la questione della Chiesa cattolica ormai ridotta come il resto del mondo. Mi chiedo però se questa Chiesa si il frutto della deriva o se invece ne sia la guida…

    1. Questa Chiesa è la concausa della deriva, ché se avesse mantenuto la sua antuca fisionomia di guida morale e spirituale, non saremmo a questo punti.
      E in tanti sfacelo mi fanno solo ridere le finte dispute che ancora circolano fra cardinali e preti cerchiobittisti sul concilio e sulla famigerata ermeneutica della continuità.

  11. E’ la triste realtà dell’ex popolo d’eroi che fa morire i figli suoi senza fede e ideale.
    Al posto della lippa, ci starebbe bene il calcio.

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