Nel tempo sospeso del dolore indicibile o della rabbia impotente, non c’era lo spazio bastante per indagare le origini profonde della guerra maligna contro l’innocente. Ma ora è a queste che dobbiamo risalire, cercando di sviscerarne le componenti, perché soltanto con disincantata consapevolezza si può riprendere in mano le sorti di una lotta che sembra vedere perdenti le ragioni del bene e della verità.
Da questa vicenda emerge tutto un coagulo di storia in cui ci troviamo gettati. Coagulo di idee e di fenomeni il cui intreccio fatale è necessario scomporre per cominciare ad allestire una qualunque strategia di lotta.
Il cammino entusiasmante della modernità già da tempo ha cominciato a presentarci il conto finale del più forte che si fa signore della vita altrui rapinandola a piacimento e senza ostacoli di sorta. Ma le tappe di questa inquietante marcia trionfale erano già segnate e prevedibili, e infatti anche previste a grandi linee ab immemorabili.
Gli antichi avevano compreso che due limiti non dovevano essere superati per vivere umanamente, quello che frena l’ubris dell’uomo contro l’uomo da un lato e dell’uomo verso Dio dall’altro. Il primo limite non ha mai cessato di essere travolto nelle vicende piccole e grandi della storia, mentre il secondo, scolpito nella premonizione del mito, per lungo tempo è rimasto invalicabile, sicché anche la catena ininterrotta dei peccati dell’uomo contro l’uomo, ha potuto continuare a trovare nella legge divina la condanna e il castigo.
Ma era fatale che la fiducia crescente nella forza veritativa del pensiero e la potenza materiale fornitagli dai prodigi della tecnica inducesse il moderno uomo faber a proclamare la morte di Dio e ad abrogare le sue leggi. Il pensiero poteva insegnare a manipolare la materia ma anche le forme dello spirito e ricreare a proprio talento persino le regole fondamentali del mondo. Non solo quelle elaborate dalla esperienza, anche quelle scritte dalla natura.
Era fatale che quanto era stato faticosamente costruito dal pensiero occidentale in termini di civilizzazione, pur attraverso un alternarsi di arresti, indietreggiamenti, cadute e resurrezioni, imboccasse la strada di un processo involutivo quasi in proporzione inversa al progresso materiale.
Il massimo di potenza che l’uomo faber può realizzare e ostentare è ancora una volta il dominio sui propri simili, ora che la tecnica lo ha dotato degli strumenti straordinari per farlo. Ma bisognava superare la contraddizione insanabile con i diritti e le garanzie di libertà conquistati dall’occidente e con lo stesso culto dell’uomo appena salito sullo scranno divino. Bisognava prevenire la ribellione delle masse. E la cosa è stata agevolata dal prestigio di una tecnica che rende la vita attraente e fantasmagorica, solleva persino dal peso della responsabilità e degli imperativi morali e, rivestita dai panni solenni della scienza, disponendo gli animi alla fiducia e alla gratitudine, alla fine appare irrinunciabile. Dall’altro lato vengono assottigliati gli spazi del pensiero individuale impoverito di educazione e cultura.
Su queste basi la tecnica o la scienza, che dir si voglia, è andata avanti avidamente per la propria strada, pur apparendo sempre più minacciosa per l’uomo, come avevano dimostrato gli eventi bellici.
Qualcuno aveva da tempo osservato che la scienza non pensa. Altri hanno avvertito la mancanza di una morale adeguata al nuovo mondo della tecnica, capace di disciplinarne l’azione incontrollata e piegarla alle vere esigenze profonde e irrinunciabili dell’essere umano. Eppure, una morale eterna e universale per la salvezza individuale e collettiva ci è stata data. Basta saperne riconoscere il senso nella nebbia delle idee.
In ogni caso, contro la libertà incontrollata della tecnica nel campo della medicina, si è opposta proprio la bandiera della libertà individuale. Da noi, in ossequio alla Costituzione, la legge sul consenso informato ha inteso arrestare l’attività terapeutica laddove risulta soltanto fonte di sofferenza inutile. Perché al di là di questo limite il soggetto, si è detto, diventa mero strumento di sperimentazione, una cosa priva di dignità umana. Si trattava di un concetto semplice e di un criterio chiaro. Eppure anche questo principio è diventato presto un’arma a doppio taglio. Era destinato ad essere manipolato e piegato ad altri scopi, peggiori di quelli che si intendeva sventare. Così gli stessi limiti che dovrebbero proteggere l’individuo dal diventare oggetto di sperimentazione, sono stati opposti contro il prolungamento di ogni vita ritenuta inutile come quella di chi versa in stato vegetativo. In altre parole, il limite posto alla scienza viene sfruttato perché essa si ritragga quando soccorrere una vita sia ritenuto inutilmente costoso. Così, in una sorta di rivincita diabolica, si è rovesciato un principio di salvaguardia, e il soggetto indifeso deve essere abbandonato quando non è utile tenerlo in vita. A tal fine è stato fatto rientrare nel concetto di terapia invasiva rinunciabile la nutrizione e idratazione artificiale dei disabili in stato vegetativo. E purtroppo non è vero che la tecnica vestita da scienza non pensi. Essa pensa, eccome, nel potere oscuro che la usa per le proprie finalità.
Su questa base era avvenuto l’assassinio ospedaliero di Terri Schiavo, organizzato, su autorizzazione del giudice, dal marito che della donna era erede universale. Quell’esempio illuminante di lì a pochi anni sarà seguito da una sezione della Cassazione a presidenza Luccioli, prima gloriosa toga rossa d’Italia, per soddisfare le ansie eutanasiche dell’Englaro nei confronti della figlia disabile. Su quella medesima strada si è posta poi, in sequenza obbligata, la legge che ha istituito le Dat.
Ma questi precedenti servono soprattutto per far emergere quello che è il vero aspetto cruciale. Infatti all’argomento tecnico palesemente falso che fa rientrare alimentazione e idratazione fra le terapie invasive rinunciabili se ne accompagnava un altro di certo più inquietante, che giustifica senza mezzi termini l’omicidio del disabile: quello per cui la dignità della vita umana sussiste solo quando questa viene vissuta in condizioni di riconosciuto benessere psicofisico. Con il micidiale slittamento dall’idea della dignità in sé dell’uomo, a quella opposta che ricava la dignità della vita dalle condizioni di benessere psicofisico in cui viene vissuta. E dunque la tecnica può essere spesa soltanto per le vite capaci di rispondere ad un criterio di efficienza ed utilità che per di più è rimesso ad un terzo, giudice, medico, tutore o politico che sia.
Ne risulta senza ombra di dubbio la consegna della vita umana più debole all’arbitrio del potere che opera attraverso la longa manus del giudice, del tecnico, e di chiunque contribuisca ad attuare il diritto di vita e di morte sul suddito.
Nella vicenda inglese sono confluite aberrazioni culturali e contingenze storiche, nell’indebolimento collettivo dei principi primi che debbono reggere la convivenza umana. Vi si legge l’arretramento della civilizzazione. E torna vero affermare di nuovo che la barbarie scaturisce dalla degenerazione delle idee e quindi dalla cultura, degenerazione che si dispiega su tanti fronti contemporaneamente. Non è un caso che nella terra del pragmatismo utilitaristico sia stata prodotta la pecora Dolly, che prelude alla clonazione umana. Ma neppure che una celebrità nazionale cara al cuore della rimpianta principessa, emulata anche in Italia, vi abbia sfoggiato le proprie prodezze omogenitoriali sulla pelle di un piccolo innocente. Sono i frammenti di una catena che bisogna leggere nella loro perversa continuità e affinità. E per misurare poi l’accelerazione di questo processo involutivo basta ricordare che un lord cancelliere rivendicava ancora pochi decenni fa al Parlamento inglese la possibilità di fare tutto, salvo il mutare un uomo in una donna. Ora sappiamo che anche questo limite è stato brillantemente superato per legge, come del resto anche in tante altre parti di questo felice occidente.
Il caso che ha offeso la nostra umanità dolente è un’opera comprensibile in tutte le sue fatali sequenze. Dati i presupposti da cui muovevano i carnefici, non avrebbe potuto sortire altro esito salvo un miracolo che purtroppo non si è verificato. Tutto stava scritto nelle premesse di questo nostro tempo minaccioso forse non meno di altri tempi passati, ma alimentato dalla incapacità di leggerne la intelaiatura. Ci siamo indeboliti al punto che facciamo ancora fatica a vedere la realtà com’è, e ai pervertitori del mondo, a chi sovverte le leggi della natura e della ragione naturale, i comandamenti dati e sempre sentiti come norme supreme del vivere umano e del morire, riesce abbastanza facile incastonare le cose più orribili o insensate nel quadro delle leggi e della politica corrente.
Abbiamo sentito che i genitori di quel piccolo essere innocente non potevano uscire da un ospedale nel tempo di tutti i diritti. Abbiamo sentito che essi erano costretti “a trattare” con l’ospedale. Come si tratta tra stati in guerra per concludere un armistizio. Anomalia per anomalia, abbiamo sentito uno vestito da vescovo che si occupa a tempo perso persino di famiglia, che bisognava istituire una consulta, per trattare il caso. O forse, meglio, una tavola rotonda magari con il contributo pensoso della Marzano o quello autorevole della Gruber. Ma prima ancora, abbiamo sentito il suo superiore gerarchico affermare che al di là della manica si stava operando per il bene del bambino, e poco dopo, che la scienza deve in ogni caso riconoscere i propri limiti. Cosa sacrosanta da applicare laddove la tecnica si spinge a fabbricare esseri umani. Ma che nel caso specifico era esattamente quello che andavano predicando i becchini ospedalieri per giustificare la decisione di interrompere ogni sostegno vitale al piccolo e farlo morire. Un discorso astrattamente plausibile, ma gettato come un micidiale ordigno esplosivo su quella vita appesa ad un filo.
Ma ora, lasciando pure da parte quelli che non meritano più neppure di essere menzionati, dobbiamo sentire soltanto un unico grande imperativo categorico: quello di uscire dall’inganno delle parole e dai falsi idoli eretti ad ogni angolo per farci perdere il senso della realtà e della direzione, per farci perder nella nebbia diffusa da un potere che sta apparecchiando giorno dopo giorno il suicidio del presente e del futuro, e che dobbiamo imparare a riconoscere giorno per giorno, foss’anche nello sguardo beffardo di un giudice in parrucca.
5 commenti su “Perchè la congiura contro gli innocenti – di Patrizia Fermani”
Grazie Patrizia Fermani e Riscossa Crstiana. Che la stanchezza non vi colga mai, perchè continuando a scriverne e a spiegare giammai la gente pensi di riporre nel cassetto nelle “cose fatte” (e dunque accettate) queste infamie.
La vicenda di Alfie si spiega solo guardando alle sue radici profonde, bene individuate in questo scritto. Davvero, grazie.
Grazie per questa profonda riflessione, dott.ssa Fermani. Più che mai urge chiedere allo Spirito Santo il dono della Sapienza, come fece Salomone, per poter distinguere il Bene dal Male.
troppo brava, grazie…
Quando ai cattolici danno dei medioevali, bisognerebbe far notare loro che oggi viviamo in una società che fa le stesse cose che facevano i pagani prima della venuta di Cristo: i sacrifici umani, la rupe dove si gettavano i bambini che erano di peso e via discorrendo oggi si trova negli ospedali. Noi saremo medioevali (magari lo fossimo), ma loro sono barbari.