Siamo nel 2022, in mezzo alla tempesta perfetta, declino economico, degrado civile, inverno demografico, inflazione galoppante, crisi energetica, pericolo di guerra, epidemia, emergenza sanitaria, passaporto vaccinale, precariato lavorativo e sociale, sette milioni di poveri assoluti, invasione migratoria. Quisquilie, bazzecole, pinzillacchere, direbbe il principe di Bisanzio, Antonio De Curtis in arte Totò. Il vero problema, la tragedia nazionale è il fascismo. Fortunatamente, c’è chi vigila, chi ha capito e mette in guardia gli immemori abitanti dello Stivale contro il nemico risorgente, l’eterno rigurgito, il fantasma dell’Uomo Nero.
In Toscana hanno preso le contromisure, la resistenza ha organizzato gli avamposti. Le casematte dell’antifascismo immenso e rosso sono presidiate non da truppe scelte o novelli partigiani, ma da cuochi, camerieri e buongustai. La Casa del Popolo di Pontassieve ha acceso la scintilla del riscatto popolare. Il fuoco si propagherà per l’intera penisola, isole comprese: è nata la “pastasciutta antifascista”. Dovunque, armati di pignatte, conserva di pomodoro, pasta di semola, carne e salsiccia, rosmarino, prezzemolo, cipolla tritata, parmigiano grattugiato, sale e pepe quanto basta, incedono le avanguardie dell’antifascismo del Terzo Millennio. Su compagni, su fratelli, su corriamo in fitta schiera… alla pastasciutta antifascista.
Proprio così: il fascismo si combatte innanzitutto a tavola. A Pontassieve lo sanno e hanno organizzato la pastasciutta antifascista. Non che l’idea sia originalissima: da anni, dalle parti nostre, analoga iniziativa è organizzata da una delle sigle della nostalgia comunista in una festa campestre. Dicono che il sugo è ottimo e i partecipanti tornano a casa satolli e felici, rafforzati nell’incrollabile fede antifascista, pronti a diffondere la saporita ricetta. Ma si sa, senza telecamere, è come se un evento non esistesse, così la vera pastasciutta antifascista è “made in Pontassieve”, paesone in cui risiedeva nientemeno che Matteo Renzi.
La TV ha meritoriamente ripreso l’evento e intervistato i guerrieri dei maccheroni al ragù. Un po’ sostenuta una delle cuoche, che tendeva a magnificare la qualità del cibo piuttosto che il suo alto significato politico. Dopo il pranzetto militante, tra i vari commenti, il migliore e il più lapidario – toscanaccio umorismo involontario – è venuto da un signore distinto: “Rossa, l’è rossa!”. Tutto a posto, la garanzia dell’antifascismo di matrice (post?) comunista è sempre quella, il colore rosso, trasferito dalle bandiere al sugo. Antifascismo alla pummarola. Rossa e al dente è la pastasciutta, tornano a casa sazi e contenti i post partigiani di Pontassieve. Chissà che non abbiano stappato qualche bottiglia di vermouth Rosso Antico.
Eppure, non la si può prendere sul ridere. È ridicolo ma grave che a 77 anni dalla fine sanguinosa del regime, l’antifascismo in assenza di fascismo continui ad appassionare qualcuno; eppure il capostipite, Carlo Marx, li aveva avvertiti: la storia nasce in forma di tragedia e finisce in forma di farsa. Solo farsesco può essere l’antifascismo alla pastasciutta. Signora mia, non ci sono più le mezze stagioni e neppure gli antifascisti di una volta.
Un’ultima considerazione semiseria. Così come le tramontate feste dell’Unità furono l’ultima occasione di mantenere vive alcune tradizioni popolari italiane, i compagni toscani sono gli ultimi gramsciani. Il pensatore sardo difendeva l’anima nazionale e popolare: non c’è nulla di più nostro, di italiano e identitario della pastasciutta. L’internazionale futura società a cui aspiravano è diventata globalismo capitalista, pensiero unico consumista, omologazione anche gastronomica, dagli hamburger ai popcorn sino agli insetti, cibo del futuro prossimo, ma loro no, impavidi, indomiti. Grazie, compagni, di avere difeso, diffuso e rilanciato la nostra amata pastasciutta, dalle Alpi alla Sicilia il piatto più identitario che c’è. Nostri e tradizionali anche gli ingredienti, dal grano- rigorosamente duro- ai pomodori, alle carni che ogni città cucina a suo modo nel regale ragù italiano, cibo di nobili e contadini, degli antifascisti e di tutti gli altri.
Non ci avevate pensato, dite la verità, orfani della falce e del martello. Siete diventati – via pastasciutta – identitari e un po’ sovranisti. Meglio così, buon pro vi faccia e ci faccia il ragù, la pastasciutta che, vivaddio, rossa l’è rossa. Siamo ancora in Italia, evviva, e non sia mai che il prossimo anno attacchino con couscous, involtini primavera, fish and chips antifascisti, in ossequio all’internazionalismo trasmutato in globalismo. Bandita soltanto l’insalata russa.
Evviva le Case del Popolo tosco emiliane, ultimo baluardo nazionalpopolare, luoghi conviviali in cui si balla, si vive, ci si incontra e ci si aggrega, si parla liberamente di donne e motori, di calcio e politica, di vita vissuta e problemi concreti. Una grande intuizione che il vecchio PCI seppe ereditare proprio dal fascismo, con i suoi circoli ricreativi e l’Opera dopolavoro, luoghi di aggregazione, amicizia, comunità.
Altri tempi, più concreti, sostituiti dalla pastasciutta antifascista. Ma non c’è granché da ridere. Il Giornale Unico – di proprietà di fieri bolscevichi come De Benedetti, gli eredi Agnelli, i principi Caracciolo e altri proletari – sono già alla chiamata alle armi e stanno raschiando il fondo del barile, impegnando la fantasia dei fascistologi di mestiere per impedire il possibile governo di centro destra prossimo venturo, Dio non voglia con a capo la signorina Meloni. Uno scenario da incubo, il fascismo che avanza: ci vorrà più di una pastasciutta, non basteranno tutte le conserve di pomodoro, tutti gli spaghetti e rigatoni del Belpaese per far contro il nemico una barriera e scacciare l’orrenda prospettiva.
Paragonato al paradiso dell’Italia felix 2022, converrete che hanno ragione loro. L’antifascismo militante ha accettato la privatizzazione del mondo – adesso anche dell’acqua – lo sfascio della sanità, il massacro dei lavoratori, la precarizzazione di una generazione, la logica del profitto nella sanità, la riduzione della scuola a parcheggio pre disoccupazione e fabbrica di ignoranti presuntuosi (in cattedra e sui banchi), il passaporto vaccinale, il lavoro in affitto e tanto altro. Ha santificato i banchieri centrali al governo e digerito i nazisti ucraini, ma il fascismo no, quello è troppo.
Il troppo stroppia. Il problema è quello degli occhi e delle lenti con cui si guarda il mondo. C’è ancora una minoranza non trascurabile che alla parola fascismo ha riflessi simili alle rane di Galvani. Nulla di male: ogni idea è lecita, purché abbia una definizione sensata. Per costoro – aizzati da intellettuali, agitatori e mestatori – è fascismo qualsiasi cosa non gli aggradi. La parola è omnibus, non definisce più da tempo un movimento politico o un’idea- neppure nelle residue, crepuscolari varianti neofasciste- ma descrive e si fa sinonimo del male in quanto tale.
È una sorta di abracadabra che permette l’incantesimo, un pensiero magico cui serve un nemico per rassicurarsi e mantenersi in vita; fascismo è qualsiasi cosa – idea, persona, fatto, situazione – che non corrisponde all’idea di realtà che si sono fatti. Scrisse Augusto Del Noce, filosofo dimenticato in quanto estraneo alle consorterie “sinistre”, che l’idealismo si sarebbe dovuto chiamare “ideismo”, in quanto innalzava l’idea e non la realtà. L’antifascismo irrazionale- al di là della sua ampia componente strumentale – non è diverso. Inventa un’idea e la scambia per realtà.
È il contrario della saggezza di Forrest Gump: stupido è chi lo stupido fa. Se ci pensassero, avrebbero i brividi: fascista è chi il fascista fa. Tutto ciò che abbiamo vissuto e sofferto negli ultimi anni è un’espettorazione di fascismo oligarchico in camicia bianca, cravatta e grisaglia che dovrebbe atterrire i consumatori di pastasciutta antifà. Meglio scacciare i cattivi pensieri e cantare Bella ciao tra un rigatone e un bicchiere di rosso. L’accusa è toccata a molti: Berlusconi era il Cavaliere Nero, poi fu la volta di Matteo Salvini – che iniziò nei comunisti padani – e prima di loro a chiunque si fosse messo di traverso al PCI. I meno giovani ricorderanno il “fanfascismo” della DC di Fanfani. Figuriamoci se poteva sfuggire Nostra Signora della Garbatella, atlantista, filoamericana, conservatrice (di che cosa, poi?) cautamente europeista, sovranista ma solo un po’.
Argomenti inutili: la qualifica di fascista è assegnata dal sinedrio progressista. Oltre un secolo fa, Marcel Duchamp rivoluzionò il concetto di arte presentando a un’esposizione un orinatoio. Poco dopo avrebbe pronunciato la sentenza: “A partire da adesso, chiunque può essere artista; e qualsiasi cosa, un’opera d’arte”. Vale lo stesso per certe parole. Tutto può essere antifascista o fascista a seconda dell’umore e dei principi di chi parla. Parole al vento per gli antifascisti alla pastasciutta. Essi sanno che fascista è chiunque si opponga ai fedeli alla linea. Pazienza se la linea non è più quella, se non è una retta ma uno slalom sinuoso in cui ciò che una volta era giusto e vero è convertito nel suo contrario.
Vale il concetto enunciato da Giancarlo Pajetta, che antifascista lo fu davvero, pagando il conto: tra la verità e la rivoluzione, scelgo la rivoluzione. I suoi tardi epigoni hanno preferito la menzogna e barattato la rivoluzione comunista con quella liberale, liberista e libertaria. Le hanno dato un nuovo nome, progressismo, e gli applausi risuonano sino a Pontassieve. Per fortuna della loro tranquillità, non si sono accorti del contrordine e soprattutto della differenza. Meglio non svegliarli: potrebbero volerla fare davvero, la rivoluzione. Quel giorno si accorgerebbero di essere gli ascari dei veri conservatori, dei veri nemici del popolo, i “democratici”, i progressisti, i voltagabbana, tutti quelli che campano di rendita all’ombra di un antifascismo parolaio, senza rischi e dal nemico immaginario. Tiratori da Luna Park che sparano all’orso disegnato sul fondale.
Resta, purtroppo, il fatto politico di un gesto impolitico. Non ci si vergogna di vivere nel trapassato e mentire spudoratamente agli ultimi fedelissimi; di esumare cadaveri e portare l’antifascismo – che fu cosa seria quando agiva contro un nemico vivo e potente – in processione (o in cucina, nella circostanza) come le confraternite esibiscono il Cristo una volta l’anno, alla festa patronale.
Passata la festa, gabbato lo santo. Il fascista di turno tornerà nel museo, a Giorgia Meloni (improbabile fascistella devota alla Nato accolta come gli ex comunisti nei circoli riservati del potere liberalcapitalista) succederà un altro avversario, un Uomo Nero inesistente come quello minacciato dalle mamme ai bambini disobbedienti. Per ora c’è la pastasciutta. Rossa, l’è rossa.