Carlo Primerano Ciao Sandro, il Giro d’Italia è partito. Andiamo a vedere la tappa che arriva a Bergamo? Ci potremmo sistemare lungo la Roncola che non è lontana dal traguardo e lì sicuramente si fanno i giochi
Alessandro Gnocchi La Roncola va bene, ma forse non benissimo perché non è quella gran salita che alcuni dicono. Certo, è abbastanza vicina all’arrivo e magari qualcosa succede, soprattutto in vista dell’ultima settimana. La salita più bella sarebbe quella di Valcava, che però è all’inizio della tappa e dirà poco. Certo che quella tira. È così ripida perché il consorzio di abitanti di Valcava, quando si è dovuto costruire la strada per la chiusura della funivia, non aveva molti soldi e per risparmiare ha fatto accorciare il tracciato guadagnando in pendenza. Scomodo per loro, spettacolare per noi.
Detto questo, bisogna stabilire per chi si fa il tifo e azzardare un pronostico. E poi dobbiamo rispondere alla domanda delle domande: questo è ancora il vero ciclismo come lo intendiamo noi di certa età? Questi ragazzi fanno davvero la fatica che dovrebbe fare un vero ciclista? O anche il ciclismo, come il calcio, è diventato tutto tranne che uno sport? In realtà le domande sono tre, o forse una sola con due appendici.
C. P. No, quel ciclismo lì non esiste più. Un aspetto che salta agli occhi è che conta sempre meno il singolo campione e sempre di più l’avvenimento per se stesso e i sottostanti molteplici interessi economici. Oggi è difficile che uno sportivo incida nell’immaginazione della gente quanto un Coppi e un Bartali, ma anche dopo i Gimondi o i Moser, e in ultimo i Pantani. La fatica dei corridori però è la stessa, perché ci vogliono sempre i garun,
A.G. Ghe vorén i garun, come diceva Binda, è vero, ci vogliono le gambe. Per andar su lungo certe salite, per fare certe cronometro oltre i cinquanta di media, per fare certe volate, ghe vorén i garun, e anche il cuore. Questo mi fa pensare che uno sport come il ciclismo sia almeno un po’ preservato dalla perversione a cui si è votato anima e corpo il calcio. Il ciclismo, e poi altri sport che amo, come lo sci di fondo soprattutto nei lunghi chilometraggi e nella tecnica classica, il salto con gli sci, la maratona e lo sci alpino, che in gioventù ho frequentato da agonista, specialmente la discesa libera in cui devi dimostrare di avere tutto: garun, cuore e testa.
Come nel ciclismo. Quando Tadej Pogačar o Remco Evenpoel, partono in salita e lasciano lì gli avversari hanno garun, cuore e testa. Insomma, sono ancora uomini e non figurine dell’album virtuale Dazn o Sky. Tutto sommato, li metterei ancora in un vecchio album Panini, in cui avevano posto gli uomini veri. Però non mi hai ancora detto per chi tifi.
C.P. Sono vecchio stampo, sicché tifo ancora per i corridori italiani. Ciccone, che era la maggiore speranza per la classifica, non ha potuto esserci. Spero in Caruso, che dopo tanti anni di dura fatica senza la luce della ribalta, nel 2021 si è preso la soddisfazione di un grande secondo posto dietro Bernal. E magari in qualche vittoria di tappa, come quella del giovane Milan l’altro giorno. Ma i favoriti sono altri: il fenomeno belga Evenepoel, del quale però deve essere ancora verificata la forza in una corsa dura come il Giro, l’esperto sloveno Roglic, fortissimo. Chi altri? Forse l’inglese Geoghegan Hart, vincitore del 2020, e il portoghese Almeida per il podio. E tu?
A.G. Devo confessare che, chiedendoti per chi facciamo il tifo, non sono stato completamente onesto. E qui devo fare un passo indietro ricordando il tifo dei miei anni trascorsi. Il fatto di essere bergamasco non mi ha mai trascinato, a suo tempo, nell’idolatrare il bergamasco Gimondi, anzi… Ma devo dire che gli sono stato tifoso quando ha smesso di correre e ai miei occhi ha mostrato di che pasta fosse stato anche quando correva.
Questa dei miti postumi è una malattia che mi porto dietro da sempre ed è la certificazione più palese della mia becera miopia. Felice l’ho incontrato più volte quando facevo il giornalista e lui non correva più da tempo: un uomo vero che ho cercato di raccontare quando è morto. L’ultima volta l’ho incontrato nella sala d’attesa del medico che ci aveva in cura entrambi. Seduto in fila ad attendere il suo turno, con la sua faccia da bergamasco delle valli in totale deferenza al “dottore” che doveva visitarlo. Un grande uomo perché aveva dentro un’umiltà che comprende solo chi è venuto nella stessa terra. Lui è diventato dunque il mio grande amore ciclistico quando ha smesso di correre.
Per tornare al piccolo inganno che ti dicevo, devo confessare che ormai io non ho più un corridore per cui faccio veramente il tifo. Riesco a tifare contemporaneamente per chi è in fuga e per chi insegue, chiunque siano. E il motivo è molto semplice: mi spiace che chi sta fuggendo sia raggiunto e che chi sta inseguendo non raggiunga il fuggitivo. Tutti arrivi in volata allora? Neanche per sogno. Ne deve arrivare uno solo, chiunque sia e io sono con lui: non perché vince, ma perché in quel momento è riuscito a non perdere. Al prossimo giro, comunque, faccio anche nomi e cognomi, del presente e del passato. Per ora, Viva Gimondi, che da noi in bergamasca è sinonimo di “ciclista”. Quando ero piccolo e si vedeva qualcuno passare con la bicicletta dal manubrio un po’ curvo, ci sporgevamo sulla strada e gridavamo “Dai Gimondi”. Ho capito solo qualche decennio dopo il perché. Ma, come diceva il maestro, Manzi, non è mai troppo tardi.
C.P. Io Gimondi l’ho tifato subito, invece, fin da quando vinse il Tour de France del ‘65 a 23 anni, battendo l’eterno secondo Poulidor. Di quel Tour ho ricordi vaghi, ma sicuri. Più chiari, tra gli altri, ci sono quelli della volata al campionato del mondo ‘73 a Barcellona, dove finalmente si mise dietro Merckx, oltre a Maertens e Ocaña. Impensabile, perché lui non era un velocista. Fu una grande impresa.
Mentre rievoco mi vengono in mente quelle palline di plastica trasparente con l’immagine del corridore. Ci si giocava a Giro d’Italia costruendo i percorsi sulla rena in spiaggia. Ti ricordi? Ricerca del tempo perduto a parte, mi ritrovo molto in quel sentimento che dici, dell’uomo in fuga che ce la fa. Però, insomma, anche la caccia del branco che gli piomba addosso a pochi chilometri dal traguardo, procura delle belle suggestioni emotive. Oggi poi certi primi piani in tv mostrano i corridori trafelati ai 55 km all’ora mentre stanno per raggiungere la preda. Impressionante. Materia per letteratura.
A proposito, tra giornalisti e scrittori che hanno parlato di ciclismo, chi ti piace di più? Ce ne sono molti, ma quello che sento più vicino è Dino Buzzati. Rileggo spesso la raccolta dei pezzi scritti per il Corriere della Sera al Giro del 1949 (Dino Buzzati al giro d’Italia), quello della leggendaria Cuneo-Pinerolo di Coppi. Ritratti indimenticabili (aggettivo un po’ frusto, ma in questo caso ci sta): dei campioni, dell’Italia e degli italiani che aspettano la carovana sui balconi delle loro case e lungo la strada, le storie minime dei gregari, di quelli che arrivano ultimi. Gli effetti delle vicende storiche, in un’Italia da poco uscita dalla guerra, quando il Giro passa da Cassino e da Trieste. Insomma, capolavori di scrittura secondo me.
E naturalmente, trattandosi del Giro del ‘49, la rivalità tra i due grandi campioni. E qui la domanda è d’obbligo: Coppi o Bartali? Moser o Saronni?
A.G. Con le biglie di plastica ci abbiamo giocato tutti. Tutti noi che abbiamo una certa età, intendo. Da piccolo non andavo al mare, ma ricordo che con i miei cugini costruivamo delle bellissime piste di terra con le curve sopraelevate: a forza di lavorarci per rimetterle in sesto diventavano quasi di terra battuta. Di quelle biglie, non so perché, ricordo ancora benissimo quella con l’immagine di Vito Taccone.
A proposito di tempi andati, un paio di domeniche fa, ho visto per strada due ciclisti con la vecchia maglia della Molteni, quella di Merckx per intenderci, secondo me la più bella. Così bella che allora su di me, ma in fondo ancora oggi, produceva l’effetto contrario a quello voluto circa la pubblicità: mai e poi mai avrei associato il nome “Molteni” ai salami e agli insaccati vari che produceva l’azienda. Per me “Molteni”, ma anche “Salvarani”, “Faema”, “Scic” erano la stessa cosa che Inter, Milan, Juventus.
Questo ricordo mi consente di andare a chi ha scritto di ciclismo. Il libro più bello, a mio avviso, è Addio, bicicletta di Brera. È il romanzo di Eberardo Pavesi, un eroe delle corse pionieristiche, e insieme anche di una certa Lombardia, che naturalmente non c’è quasi più, se non lungo certe rogge, in fondo a certi rettifili fuori mano e male o per niente asfaltati. Una Lombardia che guardava a Milano e non vedeva quella brutta bestia che è diventata oggi. Poi, d’accordo su Buzzati, non è possibile dire altrimenti. Ma vorrei ricordare Bruno Raschi, il vicedirettore della Gazzetta, che scriveva ogni giorno un elzeviro sul Giro d’Italia, un vero maestro di stile applicato alla materia per trarne la forma che già conteneva. Era il preferito di mio papà. Sulle rivalità non ho tentennamenti: Coppi e Moser.
C.P. Mi dici Pavesi, e mi vengono in mente come una formazione di calcio i pionieri: Ganna, Galetti, Gerbi, Girardengo, Calzolari, Rossignoli, e tanti altri non menoimportanti. La foto di Ganna all’Arena di Milano all’arrivo del primo Giro d’Italia nel 1909, assieme a quella di Dorando Petri nella maratona di Londra del 1908, mi sembra che appartengano all’album di famiglia. Ma oggettivamente sono foto simbolo dello sport al tempo della belle epoque.
Allora Il ciclismo era, ed è stato a lungo così, sostanzialmente una questione tra Italia, Francia e Belgio. Ogni tanto gli italiani si cimentavano all’estero, ogni tanto i francesi e i belgi venivano in Italia, ma sostanzialmente gli interessi del tempo richiedevano che i campioni corressero e vincessero a casa loro. E il Giro d’Italia era una corsa importante tanto quanto il Tour de France, per gli italiani anche di più. Oggi il ciclismo si è allargato a tanti altri Paesi; come sempre il business cerca e trova nuovi sbocchi. Il Tour ha a disposizione un budget tanto più elevato di quello del Giro e così è diventata la corsa più importante. I migliori vanno lì, e se per caso non volessero ci andrebbero lo stesso, perché gli sponsor lo esigono. Ma io preferisco ancora il Giro. Mi piace di più l’atmosfera, non mi stanco di attraversare l’Italia insieme ai corridori, ora che le tappe sono trasmesse dall’inizio alla fine.
A.G. Io preferisco il Tour per un motivo molto semplice: se ne fotte dei corridori e i corridori devono adattarsi a quello che trovano. E poi ha più montagne vere, ha più strade vere e ha un sacco di cadute perché lì bisogna essere capaci di andare in bicicletta sia da soli che in gruppo. Ogni volta che viene presentato il Giro si pensa subito per quale corridore sia stato tracciato. Te lo dice uno che tifava fino nel profondo dell’anima per Moser e non può non riconoscere che il Giro in cui lui ha vinto non aveva praticamente salite, ma mi andava bene così.
Mi piace vedere l’Italia del Giro, ma mi piace soprattutto l’odore del sudore e della fatica. Al Tour la sento di più. Come la si sente alla Roubaix o al Giro delle Fiandre. Possono menarmela quanto vogliono sulla Milano-Sanremo come mondiale di primavera: duecento e passa chilometri di pianura con due strappetti alla fine. Preferisco di gran lunga il Giro di Lombardia, mondiale d’autunno. Anche se devo riconoscere che alla Sanremo di rado vincono le scartine.
Detto questo, quando passa il Giro, giù il cappello perché non sarà il Tour, ma al suo confronto non c’è Vuelta che tenga. Quella sì, la Vuelta intendo, è una corsetta da niente. Prendono i Pirenei per il verso sbagliato.
Una cosa però devo riconoscere al Giro, che tutte le altre corse a tappe non hanno: si corre in una stagione in cui ci può essere ancora neve in montagna e comunque, quando piove sopra i duemila metri, per andare su bisogna davvero essere uomini.
Quando preparavo gli esami per l’università, durante il Giro smettevo di studiare per tutto il pomeriggio, fino a quando non era finito il Processo alla tappa. Dalla prima all’ultima giornata ed ero davvero immalinconito, direi triste nei giorni di riposo. Cosa mai accaduta con il Tour. Segno che, comunque, il Giro è sempre il Giro. In questo mi sento molto Paolo Conte…
C.P. Quest’anno come montagne al giro non ci si può lamentare : c’è il classico arrivo degli appennini sul Gran Sasso, l’escursione svizzera a Crans Montana, il Bondone, il tappone da Longarone alle tre cime di Lavaredo e ancora altre. C’è lo spazio per attaccare ed eventualmente per recuperare il tempo che tutti gli altri avranno perso a cronometro da Evenepoel e Roglic. Ultimamente, grazie a quel piccolo gruppo di fuoriclasse che si conoscono, la mentalità è un po’ cambiata. C’è un po’ meno tatticismo. Speriamo che anche al giro sia così e che i corridori ci facciano divertire, anche se distrarsi da quanto di grave accade nel mondo mi risulta molto difficile per la verità
A.G. Più che essere noi a dimenticarci di quanto ci accade intorno grazie a tre settimane di Giro d’Italia, mi pare che sia quanto ci accade intorno a non dimenticarsi di noi nonostante il Giro d’Italia. Anzi, usando anche quello. Penso che anche tu abbia la nausea del conto dei ritiri per covid ancora prima della partenza. Fino a un po’ di tempo fa, non molto, i ciclisti si mettevano in bicicletta e cercavano di arrivare in fondo alla tappa nonostante tutto sperando di riprendersi l’indomani, magari anche solo dormendo un paio d’ore di notte. Oggi li costringono a scendere di sella anche se hanno un po’ di raffreddore perché così vuole il protocollo.
C.P. Della vicenda covid non se ne può davvero più. Intanto il protocollo ha messo fuori gara Ciccone che aveva avuto un ottimo inizio di stagione e al giro ci teneva tanto, mi è dispiaciuta molto la sua rinuncia. Da dove si ricomincia a parlare di ciclismo?
A.G. Ricominciamo da Coppi & Bartali, Moser & Saronni. Primo dilemma: anche se non ero ancora nato, senz’altro Coppi. Tifo postumo, diciamo. Bartali comunque mi piace, anche nella sua vita postagonistica. Un po’ c’entra il fatto che fosse un vero cattolico, di quelli che ci credevano davvero e non ha mai messo da parte la sua fede, neanche quando correva. Forse c’entra anche un po’ troppo, tanto che per lui non sono riuscito a provare l’ammirazione pura per il corridore puro. Non così per Coppi, che penso sia stato, e lo sarà ancora, il prototipo dell’uomo solo al comando. Vittorioso, solitario e probabilmente mai felice fino in fondo perché il ciclismo, quando è vero ciclismo, è come la scrittura: vocazione al dolore. Vederlo da solo in montagna nei filmati dell’epoca, mi tocca dentro come mai è riuscito a fare Bartali. Di quella generazione, in ogni caso, provo ammirazione in blocco, se penso che ha cominciato a correre, ci ha messo di mezzo una guerra e poi ha ripreso a correre persino con più forza di prima. Questo sempre a paragonandola alla generazione che corre con pannolone e mascherina per il covid.
Diversa la questione per Moser e Saronni. Lì c’ero e Saronni mi è sempre stato sonoramente sui marroni. Era la figurina della città e del progresso, che la sapeva lunga e sapeva come muoversi con i giornalisti. Moser era la stirpe contadina in bicicletta. Ricordo un giro in cui un commentatore proponeva di sostituire la parola “gregario”, ritenuta offensiva e politicamente scorretta, con “aiutatore”. Saronni disse di sì e Moser, ovviamente, disse di no. Dunque, Moser senza indugio.
C.P. Su Coppi e Bartali non mi sono mai deciso a scegliere. Non si può pensare all’uno senza l’altro. Sono i volti che evocano un’Italia che non c’è più, quella in bianco e nero, della quale, pure senza averla conosciuta direttamente, ho una misteriosa nostalgia, forse un po’ il mito, come un mito sono loro due. Diciamo che Bartali mi fa simpatia perché la sua grandezza ciclistica è stata un poco messa in ombra dalla leggenda di Coppi, accresciuta dalla morte prematura. Ma Bartali è stato un gigante, un corridore enorme. Anni fa il giornalista toscano ideatore dell’Eroica, Giancarlo Brocci, ha scritto un libro intitolato Bartali il mito oscurato, sottotitolo Il duello sportivo del secolo non lo vinse Coppi. Prendendo gli anni dal 1946 al 1950, escludendo quindi gli anni in cui Coppi era troppo giovane, e quelli in cui Bartali era prossimo al ritiro, Brocci dimostra, risultati alla mano, che il duello si risolse alla pari. Tutto sommato sono d’accordo.
Passando alla rivalità più recente, quella della nostra giovinezza, tra Moser e Saronni, sono sempre stato moseriano: del trentino mi piaceva di più il modo di correre e come vinceva. La Parigi-Roubaix se la gioca col Giro delle Fiandre come la corsa più bella di tutte: Moser l’ha vinta tre volte, Saronni nemmeno ci andava. Però non tifavo contro: quando il lombardo nel 1982 sparò la famosa “fucilata di Goodwood”, come fu chiamata l’impressionante volata al Campionato mondiale che si svolgeva in Inghilterra, fui contentissimo. Ricordo ancora l’entusiasmo di Adriano de Zan, che riprendendo la formula che Nando Martellini aveva inventato per la vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio qualche settimana prima, aveva gridato per tre volte: campione del mondo! Oggi rivalità autentiche come quella tra Moser e Saronni non ce ne sono più.
A.G. Allora, per tornare all’attuale e non finire la chiacchierata da poveri vecchi inventiamone una noi: Evenepoel o Roglič? Io dico Evenepoel.
C.P. Dico anch’io Evenepoel, un altro uomo solo al comando per modo di correre e di vincere. Nel giro ha cominciato bene infliggendo un bel distacco a tutti, ma come al solito saranno decisive la terza settimana e le grandi montagne. A proposito di grandi montagne, ti ricordi quella volta Gaul sul Bondone?…