Ci eravamo proposti di tacere definitivamente sulle vicende delle chiesa cattolica. Troppo complicato seguire i cambiamenti, le giravolte e le prese di posizione della gerarchia; troppo triste, per un credente “bambino”, seguace della fede dei padri, veder scomparire una alla volta le tracce del “depositum fidei” bimillenario. Tuttavia, le modifiche alla liturgia della Messa, l’enciclica Fratelli tutti e i cambiamenti introdotti nella preghiera del Padre Nostro ci “inducono in tentazione“, per cui tentiamo una riflessione alla buona, senza pretese di teologia. Non abbiamo usato per caso l’espressione: infatti la variazione più significativa che andrà in vigore dal 29 novembre, prima domenica d’avvento, riguarda un passaggio cruciale del Padre Nostro. Non chiederemo più a Dio di “non indurci in tentazione”, ma di “non abbandonarci alla tentazione”. In più, la Conferenza Episcopale ha inserito nel testo la parola “anche”, nella parte che riguarda la remissione dei debiti. I novatori, per non farsi mancare nulla, hanno inoltre modificato l’atto penitenziale, il cui esordio, in ossequio alla moda dell’inclusione”, sarà “fratelli e sorelle”, probabilmente per non incorrere nel peccato di sessismo a causa del solitario “fratelli”. Infine, nella preghiera di elevazione, dopo aver reso “gloria a Dio nell’alto dei cieli” non si chiederà più pace in terra agli uomini di buona volontà, ma agli “uomini amati dal Signore”.
Chi ha un minimo di dimestichezza con le cose di chiesa, sa che le novità non sono da poco. La caratteristica più profonda delle religioni è di tendere all’Eterno, all’Assoluto. Hanno un sostrato che non può essere modificato senza gravi conseguenze dottrinarie e pratiche. Ciò vale innanzitutto per il Corano dei mussulmani, che è considerato increato, anteriore al tempo, intangibile opera e volontà di Allah. Il cristianesimo distingue tra Parola, tradizione e dottrina, ma i vangeli sono “parola di Dio”, come il sacerdote ripete solennemente ad ogni lettura durante i riti. Per dirla in parole semplici, i testi “sacri” vanno maneggiati con cura. La preghiera del Padre Nostro fu dettata dal fondatore stesso, Gesù Cristo, raccolta dal Vangelo di Matteo (6,9-13) e da quello di Luca (11, 2-4). In entrambe le versioni, figura la supplica relativa alla tentazione. Nella Vulgata dei testi evangelici l’espressione greca kài mé eisenènkes è resa in latino con “et ne nos inducas in tentationem. La versione ebraica e aramaica è tradotta rispettivamente con “non indurci nella mano del Nemico” e “non portarci nella tentazione “(fonte: <nostreradici.it>).
Il lavoro di interpretazione è delicatissimo e di capitale importanza, poiché della Parola esistono testimonianze, ma non registrazioni (padre Sosa Abascal, Servus Jesus dixit). Al di là del significato letterale, sembra al credente di media cultura che il senso sia l’invocazione a Gesù di soccorrere l’uomo di fronte al male, al peccato, le “tentazioni”. Se è vero, come afferma il protagonista delle innovazioni, il vescovo e teologo Bruno Forte, che “Dio ci ama, non ci tende trappole per cadere nel peccato”, è dottrina perenne che egli permetta le prove per verificare il nostro essere o meno degni della vita eterna, che è la comunione con Lui. Inoltre, ammette Forte, “l’originale greco usa un verbo che significa letteralmente portarci, condurci, richiamato nella versione latina. Però, in italiano indurre vuol dire spingere a, in sostanza, far sì che ciò avvenga. E risulta strano che si possa dire a Dio non spingerci a cadere in tentazione”.
Giusto, ma il significato italiano del verbo indurre è antico, consolidato nel tempo. La chiesa ha eletto per secoli, sino al 1978, papi di nazionalità e madrelingua italiana, senza che alcuno eccepisse il Pater Noster. La ragione non è certo l’ignoranza linguistica, ma, immaginiamo, il legittimo timore di manomettere, attraverso modifiche del testo evangelico, il “depositum fidei”, la tradizione perenne. Spostare una pietra può compromettere l’intero edificio. In realtà, è stato Bergoglio in persona a sollevare il problema in diverse occasioni, forse perché la versione spagnola prega Dio di “non lasciarci cadere in tentazione “. Nel 2017 pronunciò una delle rare frasi in linea con la fede di sempre: “chi ti induce in tentazione è Satana, quello è l’ufficio di Satana.”. Conforta che il papa creda all’opera del Maligno. Certo non è Dio a indurre in tentazione, ma, attraverso il libero arbitrio, ha reso l’uomo responsabile delle sue azioni, a cui oppone la sua giustizia, unita alla misericordia. La neo Chiesa sorvola sulla giustizia – che giudica il bene e il male – e enfatizza la misericordia. Ci sarebbe un Dio “vecchio”, giudice arcigno, e uno “nuovo”, un buontempone che perdona tutti con una pacca sulla spalla. Misteri della pampa. La dottrina avvertiva che la misericordia occorre chiederla con umiltà dopo aver riconosciuto il male compiuto. Per il protestantesimo, invece, ci si salva per grazia e fede (sola fide, sola gratia, sola scriptura).
Nello specifico, il cambiamento si giustifica per la distanza tra l’originario significato di “essere portati, condotti” e l’accezione italiana di indurre (provocare, spingere a qualcosa). Nessun fedele – e nessun pastore, crediamo – è mai stato “indotto” in errore dalla sottigliezza linguistica. Si cambia per cambiare, adeguarsi ai “segni dei tempi”, per inseguire la modernità facendosi dettare da essa persino il linguaggio della liturgia. Una posizione difensiva e perdente che sconcerta.
L’aggiunta di “anche” nel passaggio della remissione dei debiti non convince del tutto. La preghiera tradizionale in italiano trascurava come ridondante il latino “et” e il greco “kài”. Diremo “rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori.” Modifica non necessaria, un’inutile pedanteria frutto di un’ansia di novità a ogni costo che non rafforza i fedeli e lascia indifferenti gli avversari della chiesa. Le nuove formulazioni non porteranno un solo fedele in più alle funzioni e alla recita del Rosario. Ma già, lo scopo della neo-Chiesa non è più l’apostolato, sbrigativamente derubricato a proselitismo.
L’impressione negativa riguarda la corsa al cambiamento affannosa ed affannata di chi si sente in ritardo, inadeguato, non all’altezza dei tempi. La Chiesa ha perduto la sua forza veritativa: è un’opzione tra le tante. Nella gara di decostruzione, spicca l’inserimento del femminile sorelle, accanto a fratelli: vacua cautela politicamente corretta, “excusatio non petita”, una giustificazione non richiesta per schivare accuse di maschilismo.
Conta l’intenzione, vecchia di duemila anni: i cristiani, con il termine fratelli, non hanno mai inteso rivolgersi ai soli fedeli maschi, escludendo l’altra metà del cielo. Pesa doverlo ribadire. Sul piano dei contenuti, colpisce l’innovazione del “Gloria”. La vecchia formula è antichissima, elegante e venerabile, rivolta agli uomini “di buona volontà”. Il Gloria 2.0 (il linguaggio è volutamente poco clericale) corre verso un’ulteriore protestantizzazione della Chiesa. Il riferimento agli uomini (e alle donne, ripetiamolo a beneficio del femminismo) “di buona volontà” rammentava che l’adesione al piano divino è una scelta personale, un proponimento cui l’uomo aderisce con il cuore e l’intelletto, concretizzandolo nelle azioni e nella condotta di vita. Eliminare quel legame sembra un passo nella direzione di un ecumenismo a senso unico che fa proprie le tesi dell’altro.
É l’intero impianto della chiesa contemporanea a lasciare perplessi. Conosciamo la preferenza di Bergoglio per la pastorale rispetto alla dottrina. Gli esiti non corrispondono agli sforzi: più la chiesa si apre (e assomiglia) al mondo, più il gregge si disperde e assottiglia. Sul piano teorico, inoltre, si tratta di un cedimento rovinoso alla più complessiva delle culture moderne, il marxismo, fondato sul primato della “prassi”. Il termine definisce l’azione pratica contrapposta all’attività teoretica o speculativa. La distinzione, introdotta da Aristotele, attribuiva la ricerca della verità esclusivamente all’attività teoretica. Fu ribaltata polemicamente da Hegel e soprattutto da Karl Marx, intendendo l’attività umana trasformatrice del reale e produttrice di storia. Nulla di più distante dalla religione e dalla sua pretesa di verità definitiva. Bergoglio ha proceduto risolutamente nella direzione della prassi – velata da pastorale – soprattutto con le encicliche Laudato sì e con la recentissima, logorroica Fratelli tutti, nonché ponendo il nucleo del suo pontificato nella questione migratoria.
Con Laudato sì, ha sposato le tesi ecologiste con un’accesa difesa non dell’ordine e della legge naturale, ma dell’ambiente, con minimi riferimenti a Dio e al destino dell’uomo. In Fratelli tutti, approfondisce il solco con il passato in lunghe digressioni a tinte para marxiste intrise di un populismo in salsa sudamericana. In particolare, ci pare di individuare un debito culturale del papa argentino con un suo connazionale, l’intellettuale neo-marxista (fu lui a introdurre il termine) Ernesto Laclau, pressoché suo coetaneo – era del 1935- morto nel 2014. Per Laclau, autore del noto La ragione populista, non esiste un’oggettività del popolo, considerato una costruzione artificiale e non organica, addirittura un’invenzione. Il popolo è per Laclau un “universale vuoto” che viene occupato e risignificato nella lotta per l’egemonia tra i diversi populismi. Il popolo non esiste, si costruisce come identità politica. Significativamente, nel paragrafo 158 di Fratelli tutti si afferma che “popolo non è una categoria logica. (…) É una categoria mitica.”
Esisterebbe dunque solo l’equivoca umanità unica. Bergoglio si affretta a prendere le distanza dal populismo di destra, che “finisce in nazionalismo espulsivo, una nozione chiusa di popolo come qualcosa di omogeneo e dato.” Colpisce lo slalom attorno alla dottrina sociale della chiesa rispetto al tema della proprietà privata. Per la Chiesa, essa deve avere una “funzione sociale “, ma non ne ha mai negato la legittimità. Pensiamo al generoso tentativo di applicazione della dottrina sociale di G.K. Chesterton e Hilaire Belloc, il “distributismo” che proponeva un’organizzazione sociale fatta di proprietà privata diffusa, accusando il capitalismo e il comunismo di accaparrarsi la proprietà, il primo nelle mani di un’oligarchia, il secondo di una burocrazia. Bergoglio sembra avanzare – o meglio arretrare – verso una specie di destinazione universale dei beni, poiché i doni della creazione siano stati conferiti all’umanità nel suo insieme.
Lo esprime nel paragrafo 120, con lo scudo di una dichiarazione di San Giovanni Paolo II, “Dio ha dato la terra a tutto il genere umano affinché sostenti tutti i suoi abitanti, senza escludere nessuno né privilegiare qualcuno.” Su questa base teoricamente ineccepibile, Bergoglio ricorda che il principio dell’uso comune dei beni è “il primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale, un diritto naturale originario e prioritario”. La proprietà privata è solo un “diritto naturale secondario e derivato del principio di destinazione universale dei beni creati”. Da ciò si inferisce che le risorse vanno utilizzate senza riguardo alle frontiere per “dare fondamento al diritto dei migranti ad essere accolti in condizioni degne dai paesi riceventi.”
Il paragrafo 124 dice: “La convinzione del destino comune dei beni della terra richiede che si applichi anche ai paesi, ai loro territori e alle loro possibilità. Se non lo osserviamo solo dalla parte della legittimità della proprietà privata e dei diritti dei cittadini di una determinata nazione, ma dal principio primario della destinazione comune dei beni, allora possiamo dire che ogni paese è anche dello straniero, in quanto i beni del territorio non devono essere negati a una persona bisognosa proveniente da un altro luogo”. L’agenda della nuova sinistra, per quanto Bergoglio cerchi di prenderne le distanze in maniera sottile, è la stessa.
Bergoglio si impegna anima e corpo nell’agenda antirazzista (sarebbe almeno opportuno definire che cosa si intenda per razzismo) e al paragrafo 23 lamenta che resta molto da fare in materia di uguaglianza tra uomo e donna. Al 102 avverte che le politiche di identità non hanno altro esito che togliere forza all’unità del “popolo lavoratore” e finiscono per debilitarlo nelle sua ricerca della massima equità. L’Unità di ieri e il Manifesto di oggi non avrebbero saputo dire di meglio. “Appaiono costantemente gruppi sociali che si afferrano a un’identità che li separa dal resto, e tendono ad organizzarsi in maniera che si impedisca ogni presenza estranea che possa perturbare quell’identità e quell’organizzazione protettiva e autoreferenziale“.
Invero, il paragrafo 13 attacca il tentativo di chi “ampliando il campo della libertà sino alla determinazione della propria identità [individuale] diventa funzionale alla logica di un mercato che abbatte ogni limite. (…) Si incoraggia una perdita del senso della storia che disgrega sempre più. Si avverte la penetrazione culturale di una specie di decostruzionismo in cui la libertà umana pretende costruire tutto da zero. Lascia in piedi solo la necessità di consumare senza limiti e l’accentuazione di molte forme di individualismo senza contenuti.” Esemplare ricostruzione degli ultimi trent’anni, ma qual è la terapia, materiale e spirituale? E’ ancora vigente la legge naturale? Dio, in tutto questo, entra o no? Qual è la risposta concreta del cattolicesimo, al di là del generico appello – non certo nuovo – alla fratellanza universale? Difficile capire in che cosa quella fratellanza differisca dalla “fraternité” massonica e rivoluzionaria. Un alto esponente delle logge francesi afferma che la fratellanza enunciata nell’enciclica è la stessa teorizzata dai “venerabili fratelli”.
Tra tanto sconcerto, in mezzo alla confusione, abbiamo il diritto di dissentire e criticare in profondità la neo-Chiesa in quanto sostenitrice “politica” di un’idea della vita e della società che poco ci appartiene. Vorremmo tuttavia tornare ad ascoltare la sua voce sul senso finale della vita, sul destino dell’uomo. La rivorremmo madre e maestra. In un tempo nel quale drammatiche sfide ci rendono prede della paura, dell’afflizione e della disperazione, la parola di Dio dovrebbe essere conforto, esempio e bussola.
Parli di Dio, Santità, la preghiamo. Non si perda in traduzioni evangeliche, spirito del tempo (irreligioso) e intemerate alla Greta Thunberg. Lasci alla politica la destra e la sinistra e parli, finalmente, al cuore di un’umanità più che mai inquieta. Inquieto è il nostro cuore fino a quando non riposa in te, pregava Dio un padre della Chiesa, Agostino di Ippona. Un grande poeta cristiano del Novecento, Thomas S. Eliot, nei Cori della Rocca si chiese se fosse l’umanità ad aver abbandonato la Chiesa o viceversa, e mise in bocca a un uomo “moderno” la terribile alternativa: meno chiese e più osterie. Meno chiese e più gel igienizzante, missione compiuta. Fratelli tutti, ma nel Nulla.
3 commenti su “Padre nostro che sei nella pampa”
Non riesco a trovare parole adatte per questa analisi perfetta e quindi paurosa e molto temibile!!!! Prego soltanto che il demonio, anzi TUTTI I DEMONI CHE SONO STATI INVITATI CON INSISTENZA DA bergoglio e compagni, SI IMPADRONISCANO IL PRIMA POSSIBILE DEI LORO PADRONI TERRENI E SE LI PORTINO TUTTI A CASA LORO, CIOE’ ALL’INFERNO!!!!
È inutile invocare Bergoglio a cambiare atteggiamento. Non si può chiedere a Satana di cambiare. E smettetela di chiamare Bergoglio Santità!
Ottimo parere di A.M. Valli, pienamente condivisibile:
“Il cattolico assiste sgomento al ruolo interpretato dal papa. Ma occorre guardare in faccia la realtà, senza paura. Dall’Amoris laetitia al rifiuto di ricevere i cardinali dei dubia, dalla Laudato sì alla firma del documento di Abu Dhabi, dall’accordo segreto con il governo della Cina all’ultima enciclica Fratelli tutti, Francesco ha scelto non di confermare i fratelli nella fede, ma di ingannarli, confermando i lontani nella loro erranza e assecondando i progetti massonici-globalisti. Non a caso questo papa ha ricevuto, anche dopo Fratelli tutti, elogi e apprezzamenti a ripetizione da parte delle logge massoniche.”
https://www.radioromalibera.org/loffensiva-globalista-di-francesco-anche-il-catechismo-e-complottista/