La capacità di Dante di insegnare ai suoi lettori gli elementi della dottrina cristiana.
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di Dario Pasero
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Abbiamo già altra volta accennato alla mirabilissima capacità di Dante, che è insieme poeta, filosofo e teologo, di insegnare ai suoi lettori elementi della dottrina cristiana, che ai suoi tempi dovevano essere sì discretamente conosciuti ma comunque da ribadire ed affermare anche tra lettori di media cultura, mentre ai giorni nostri questi elementi – purtroppo – sono molto spesso mal (se non “neppure”) conosciuti. Ciò accade anche perché molto spesso nelle parrocchie non si insegna più ai bambini un catechismo decente ed anche nelle scuole l’ora di IRC (il moderno acronimo che sta per “Insegnamento Religione Cattolica”) è gestita in forma confusa e “meltingpottosa” da docenti o intimoriti (se non terrorizzati) dal perdere adesioni alle proprie lezioni, con conseguente rischio di perdita di ore di lezione e in alcuni casi anche di cattedra, qualora si faccia qualcosa di “troppo sfacciatamente cattolico”, o addirittura fortemente – se non assolutamente – sforniti anche delle minime conoscenze basilari sulla dottrina cattolica stessa. Veramente non so se delle due ipotesi appena formulate sia peggiore la prima, cioè la malafede, o la seconda, l’ignoranza: in qualunque caso, comunque, chi ci rimette sono tanto gli studenti, deprivati di un insegnamento valido, quanto la chiesa stessa, ridotta ad essere dispensatrice, anche nella scuola, di nozioni di una vaga “etica del comportamento e dell’accoglienza”…
Torniamo a Dante, da cui possiamo ricavare – come sempre – elementi di conoscenza e saggezza; ed in particolare ad uno degli ultimi canti (il XXIX) del Purgatorio.
La scena.
Siamo – come appena detto – verso la fine, e quindi la sommità, della montagna del Purgatorio, e Dante, accompagnato da Virgilio e dall’anima del poeta latino (del I secolo d. C.) Stazio che, appena liberato dalle penitenze del Purgatorio (era un prodigo della 5a cornice), aveva chiesto ed ottenuto di potersi accompagnare a Dante e Virgilio nell’ascesa verso la cima della montagna, è appena giunto nel Paradiso terrestre, che si trova, appunto, sulla cima del monte. In esso le anime liberate dal Purgatorio, ed anche Dante, si sottopongono ad alcune operazioni di purificazione che permettono loro di accedere al cielo. Il Paradiso terrestre è solcato dal due fiumi: il Lete (già noto alla tradizione classica) e l’Eunoè, creazione invece dantesca. Il primo dei due fiumi (così come già affermato da Virgilio nel canto VI dell’Eneide) è quello nelle cui acque le anime si devono bagnare per dimenticare (in greco la radice leth-, da cui il verbo lantháno, è collegata al concetto del “dimenticare, obliare”) il passato e predisporsi alla vita eterna (Dante) o alla reincarnazione in altro corpo (Virgilio, che credeva nella teoria della metensomatosi). Il secondo, invece, è quello le cui acque danno alle anime la buona disposizione d’animo (in greco eu, bene, nous, pensiero) necessaria, anch’essa, per l’ascesa in Paradiso. Oltre ai due fiumi Dante vede nel giardino (notiamo che in greco parádeisos significa null’altro se non “giardino”) una figura femminile (di sua invenzione) con un fortissimo valore simbolico, come d’altra parte tutto l’episodio descritto in questo canto: si tratta di Matelda (il cui nome è collegato alla radice greca math-, relativa alla conoscenza), che viene descritta mentre raccoglie fiori nel giardino per farne un fascio. È la “conoscenza” che raccoglie “fior da fiore” le sue nozioni, così da unirle e usarle per il bene e la bellezza.
Nella prima metà (circa) del canto assistiamo appunto alla descrizione del luogo ed alla presentazione della giovane, che anticipa simbolicamente l’apparire, tra non molto, di Beatrice. Mentre Dante e Matelda (Virgilio e Stazio non parlano più) percorrono le due rive opposte del fiume Lete, ecco che di lontano si intravede un fenomeno straordinario: il cielo è solcato da sette fasce dei colori dell’arcobaleno (a quel tempo privo – per fortuna – di ogni simbologia anche vagamente “politicamente corretta” ed ancora solamente segno della riconciliazione tra Dio e l’umanità dopo il diluvio); sotto questo cielo così stupendamente “decorato” avanza una processione (allegorica) che serve a Dante per procedere, come detto, ad una sorta di catechesi per symbola (vv. 82-154). La processione dunque è aperta da: 24 “seniori” (vv. 82-87), dietro ai quali vengono quattro animali (vv. 88-105), che chiudono ai quattro angoli un carro trainato da un grifone (vv. 106-120), tre ragazze procedono danzando sulla destra del carro (vv. 121-129), quattro ragazze allo stesso modo sul lato sinistro (vv. 130-132), dietro al carro due vecchi (vv. 133-141) e cinque altri personaggi (vv. 142-150), coi quali termina la processione, che quindi si ferma (vv. 151-154).
Ciascuno di tutti questi personaggi rappresenta simbolicamente un elemento della storia sacra o della dottrina cristiana: di essi vedremo tra pochissimo il senso ed il valore. Prima, però, è opportuno chiarire la differenza che i commentatori moderni di Dante introducono tra il concetto di “allegoria” e quello di “figura”, sulla scorta dell’interpretazione proposta dagli studi del filologo tedesco Erich Auerbach (1892-1957). Questi, utilizzando e rielaborando ciò che dice Dante stesso nel capitolo I del secondo trattato del Convivio, distingue l’“allegoria”, figura retorica con cui lo scrittore presenta un personaggio (di sua creazione) volendolo fare simbolo di qualche altro significato (la lupa è allegoria dell’avarizia), dalla “figura”, per cui il personaggio (o l’episodio) utilizzato per rappresentare simbolicamente qualcos’altro è storicamente esistito (o avvenuto) e non perde questa sua concreta storicità pur “passando” a simboleggiare anche altro. Virgilio, nella Commedia, continua ad essere il poeta latino nato ad Andes nel 70 a. C., vissuto “sotto il buon Augusto al tempo degli dei falsi e bugiardi”, autore dell’Eneide, morto a Brindisi nel 19 a. C. e sepolto a Napoli, ma assume anche il ruolo “figurale” della ragione umana (così come Adamo è “figura” di Cristo).
Torniamo ora alla processione simbolico-allegorica. Essa si inizia con le figure di 24 “seniori”, dal latino seniores (comparativo di senex, “vecchio”), termine da cui deriva l’italiano “signore” (letteralmente “più anziano”). Costoro, che rappresentano i 24 libri dell’Antico Testamento, procedono a due a due e sono incoronati di gigli (“fiordaliso” < fleur de lys, “fiore del giglio”), a significare (il colore bianco, come vedremo anche più avanti) la fede nel Cristo venturo. Essi cantano in coro alcuni versi che richiamano sia il Cantico dei Cantici sia le lodi di Maria (“Benedicta tue/ ne le figlie d’Adamo”; vv. 85sg.). Dietro ad essi viene un carro, circondato ai quattro angoli da quattro animali, che Dante descrive prima di passare al carro stesso. Essi rappresentano i quattro Evangelisti e sono, precisamente, simili agli animali visti e descritti da Ezechiele nella sua visione (Ez. 1, 5-21; v. 100): ciascuno di essi possiede sei ali, ricoperte d’occhi, e qui abbiamo il riferimento mitologico dotto agli occhi del gigante Argo, ucciso da Hermes (per i romani Mercurio) e poi trasformato in pavone. La descrizione dei quattro animali a questo punto rischierebbe di essere troppo estesa ed allora il Poeta si rivolge direttamente al lettore rimandandolo alla lettura del libro di Ezechiele, avvisandolo altresì che, essendo il numero delle ali differente tra il testo profetico e la sua visione, gli animali da lui visti si adeguano, per questo particolare, con quelli visti da San Giovanni Evangelista nell’Apocalisse (cap. 4). Resta da ricordare che qui Dante non definisce, identificandoli, i quattro animali con quelli della tradizione: uomo o angelo (Matteo), leone alato (Marco), bue (Luca), aquila (Giovanni).
Racchiuso ai suoi quattro angoli dagli animali sopra descritti avanza un carro, che rappresenta simbolicamente la chiesa (ricordiamo che nella Commedia frequentemente Dante ci presenta l’immagine della chiesa vista come un carro o una barca): di esso Dante ci dice solamente che si muove su due ruote, il cui significato è tuttora controverso (Antico e Nuovo Testamento? Vita attiva e contemplativa? Potere spirituale e temporale?…), paragonandolo prima ad un carro usato per il trionfo dei generali romani (si citano Scipione Africano ed Augusto) e poi a quello del Sole, ricordando così il mito di Fetonte. Di questo secondo carro, quello cioè del Sole, ricavato dalla lettura del libro II delle Metamorfosi di Ovidio, il poeta si serve ancora una volta per ribadire l’impossibilità per noi uomini di capire sempre e comunque le vie della giustizia divina (“quando fu Giove arcanamente giusto”, v. 129). L’immagine del carro passa però in secondo piano per l’attenzione che si rivolge alla figura che, ad esso aggiogata, lo trascina: un grifone, immaginario animale araldico formato dall’unione di parti del leone (corpo) e dell’aquila (testa ed ali), che rappresenta Cristo, capo e guida della Chiesa. La duplice natura del grifone rimanda simbolicamente alla duplice natura di Cristo: quella divina, rappresentata dall’oro di cui sono formate le parti d’aquila, e quella umana, rappresentata dal bianco (la carne) del leone, mescolato col “vermiglio” (il sangue), così da simboleggiare anche il Sacramento dell’Eucaristia con l’immagine della carne e del sangue di N. S.
Sul lato destro del carro Dante vede danzare tre donne, non solo vestite, ma addirittura con tutto quanto il corpo di un colore differente: una verde, una bianca e la terza rossa. Queste tre ragazze, oltre a ricordare a noi lettori la canzone dantesca Tre donne intorno al cor mi son venute (Rime 47) e la vista di Beatrice diciottenne accompagnata da due amiche (Vita Nova cap. III), rappresentano le tre virtù teologali, e precisamente la bianca, come neve appena caduta (“testé mossa”; v. 126) è la Fede (ed abbiamo già visto i gigli bianchi, simbolo della fede nella venuta di Cristo, a incoronare i 24 “seniori”), la verde, come smeraldo, è la Speranza (cfr. Purg. III, v. 135, episodio di Manfredi: “mentre che la speranza ha fior del verde”) e la rossa, di un vermiglio così tanto “acceso” che a malapena potrebbe essere distinguibile nel fuoco, la Carità (come anche in altri passi di tutta la Commedia il rosso indica il “fuoco”, l’ardore di carità). Inoltre, quasi a riprendere e confermare il valore del famoso inno paolino alla carità (I Corinzi 13, 1-13), è proprio quest’ultima che col suo canto dà il tempo, ora più lento ora più veloce, alle altre due; mentre a guidare la danza è ora la Fede ora la Carità.
In modo speculare, sul lato sinistro del carro, vediamo invece quattro donne anch’esse danzanti e gioiose (“facean festa”, v. 130) a rappresentare le virtù cardinali (Temperanza, Giustizia, Fortezza, Prudenza), delle quali si dice solamente che sono guidate da una di esse “ch’avea tre occhi in testa” (v. 132): evidentemente la Prudenza, rappresentata in questo modo per sottolineare il suo veder prima (pro-videre) e così permettere all’uomo, grazie ai suoi consigli, di anticipare gli eventi e regolarsi quindi di conseguenza. Del loro aspetto nulla, se non “di porpora vestite”: ricordiamo che la porpora è il simbolo della regalità e della preziosità. Ultima osservazione. Tra i due gruppi di Virtù Dante privilegia quelle Teologali (proprie del cristiano), collocandole sulla destra, che è la parte nobile, del carro, mentre quelle Cardinali, importanti sì, ma comuni anche ai pagani “buoni” (chi le ha praticate, tra essi, ha infatti ottenuto il Limbo, meno terribile – seppur doloroso – dell’Inferno), sono poste sul lato sinistro, inferiore al destro. Nulla in Dante – anche un menomo particolare – è privo di una sua spiegazione logica e teologica.
Stiamo avviandoci alla conclusione della processione. Infatti ora vediamo chi segue il carro, cioè le figure simboliche che sono successive alla venuta di Cristo ed alla fondazione della Chiesa: i “seniori” anticipano e precedono, anche nella Fede, il carro, che è trainato da Cristo, che ha fondato la chiesa col Suo sacrificio (il bianco ed il rosso – la carne ed il sangue – del grifone), sostenendola con i Vangeli, gli animali che chiudono – e difendono – il carro ai suoi vertici, e con le Virtù ai suoi fianchi; ora vengono coloro che dalla venuta di Cristo hanno preso motivo e giustificazione, cioè gli altri libri del Nuovo Testamento, che ci appaiono tutti sotto sembianze di persone.
Si comincia con due vecchi, che indicano gli Atti degli Apostoli e le Epistole paoline, vestiti diversamente ma di eguale aspetto “onesto e sodo” (v. 135), cioè degno di rispetto e serio, riconoscibili perché il primo (San Luca autore degli Atti) appare come un seguace di Ippocrate, cioè un medico, quale egli realmente era, mentre il secondo presenta uno degli attributi con cui in genere si raffigura San Paolo (anche nella famosa statua in piazza San Pietro), cioè la spada (“lucida e aguta”, v. 140) che rappresenta la forza, ed a volte anche la violenza, delle sue parole, spesso appunto “chiare e taglienti”.
Infine scorrono ancora cinque personaggi, dei primi quattro dei quali, cioè le cosiddette epistole “cattoliche” (San Giacomo, San Pietro, San Giovanni e San Giuda) si nota solamente “l’umile paruta”, cioè l’aspetto umile, che adombra il loro tenore meno elevato di quelle paoline; l’ultimo a comparire è colui che vediamo “di retro da tutti un vecchio solo/ venir, dormendo, con la faccia arguta”, vv. 143sg.: si tratta ovviamente dell’ultimo libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse di San Giovanni, che è definito “vecchio”, in quanto – per sua stessa dichiarazione – egli scrisse l’opera quasi alla fine della sua vita, in età molto avanzata, “solo” poiché è l’unico esempio di testo di genere apocalittico-profetico nel NT, e infine “dormendo” dato che l’opera ha la forma di una rivelazione (in greco apokálypsis, appunto) avuta dall’evangelista in sogno. Ultima notizia che ci viene data, prima del fermarsi della processione in riva al fiume, è che questi ultimi sette personaggi (notiamo che il 7 è uno dei numeri sacri per il Cristianesimo e quindi per Dante) hanno intorno al capo – così come analogamente i loro “corrispondenti” 24 libri del VT precedenti il carro – una corona di fiori: questi fiori però non sono bianchi, ma di un color rosso (colore della Carità e del sacrificio di Cristo) così acceso da far quasi pensare che le loro teste siano avvolte da fiamme.
A questo punto un tuono segna la fine della processione, che si ferma quando il carro è giunto dirimpetto a Dante.
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PURGATORIO
Canto XXIX, vv. 82-154
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Sotto così bel ciel com’ io diviso,
ventiquattro seniori, a due a due,
coronati venien di fiordaliso.
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Tutti cantavan: «Benedicta tue
ne le figlie d’Adamo, e benedette
sieno in etterno le bellezze tue!».
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Poscia che i fiori e l’altre fresche erbette
a rimpetto di me da l’altra sponda
libere fuor da quelle genti elette,
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sì come luce luce in ciel seconda,
vennero appresso lor quattro animali,
coronati ciascun di verde fronda.
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Ognuno era pennuto di sei ali;
le penne piene d’occhi; e li occhi d’Argo,
se fosser vivi, sarebber cotali.
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A descriver lor forme più non spargo
rime, lettor; ch’altra spesa mi strigne,
tanto ch’a questa non posso esser largo;
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ma leggi Ezechïel, che li dipigne
come li vide da la fredda parte
venir con vento e con nube e con igne;
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e quali i troverai ne le sue carte,
tali eran quivi, salvo ch’a le penne
Giovanni è meco e da lui si diparte.
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Lo spazio dentro a lor quattro contenne
un carro, in su due rote, trïunfale,
ch’al collo d’un grifon tirato venne.
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Esso tendeva in sù l’una e l’altra ale
tra la mezzana e le tre e tre liste,
sì ch’a nulla, fendendo, facea male.
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Tanto salivan che non eran viste;
le membra d’oro avea quant’era uccello,
e bianche l’altre, di vermiglio miste.
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Non che Roma di carro così bello
rallegrasse Affricano, o vero Augusto,
ma quel del Sol saria pover con ello;
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quel del Sol che, svïando, fu combusto
per l’orazion de la Terra devota,
quando fu Giove arcanamente giusto.
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Tre donne in giro da la destra rota
venian danzando; l’una tanto rossa
ch’a pena fora dentro al foco nota;
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l’altr’era come se le carni e l’ossa
fossero state di smeraldo fatte;
la terza parea neve testé mossa;
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e or parëan da la bianca tratte,
or da la rossa; e dal canto di questa
l’altre toglien l’andare e tarde e ratte.
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Da la sinistra quattro facean festa,
in porpore vestite, dietro al modo
d’una di lor ch’avea tre occhi in testa.
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Appresso tutto il pertrattato nodo
vidi due vecchi in abito dispari,
ma pari in atto e onesto e sodo.
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L’un si mostrava alcun de’ famigliari
di quel sommo Ipocràte che natura
a li animali fé ch’ell’ha più cari;
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mostrava l’altro la contraria cura
con una spada lucida e aguta,
tal che di qua dal rio mi fé paura.
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Poi vidi quattro in umile paruta;
e di retro da tutti un vecchio solo
venir, dormendo, con la faccia arguta.
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E questi sette col primaio stuolo
erano abitüati, ma di gigli
dintorno al capo non facëan brolo,
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anzi di rose e d’altri fior vermigli;
giurato avria poco lontano aspetto
che tutti ardesser di sopra da’ cigli.
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E quando il carro a me fu a rimpetto,
un tuon s’udì, e quelle genti degne
parvero aver l’andar più interdetto,
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fermandosi ivi con le prime insegne.
3 commenti su “Nostra maggior Musa (Riflessioni “minime” sulla Commedia dantesca) / VIII – di Dario Pasero”
Ci si commuove di fronte a questi versi. Dottrina cattolica e storia sacra descritte come una processione festosa contornata di fiori. Che diversità dalle chiacchiere di odierni soloni vomitanti eresie e bestialità….. Anche di questo canto mi ero, ahimè, dimenticata.
Grazie, come sempre, per questi splendidi ripassi.
Carissimo Pasero, ciò che mi delizia, in questi suoi interventi, oltre la chiara ‘esegesi in sé dell’idealità innervata nei versi, è la ricognizione etimologica di alcuni particolari termini che, nella maggior parte dei commenti è assente. Eppure quanto importa conoscere le radici semantiche delle parole! Quali scenari si aprono all’esposizione di un radicale lessicale! Intere famiglie di significati. E ciò è non un additivo alla più piena comprensione della DC, ma necessario strumento di indagine. Etimologìa, sacra etimologìa. Grazie
Grazie Pasero. innamorato della Divina Commedia, faccio tesoro di ogni parola che me la illuminano, e le sue sono veramente belle!