Nei due regni oltremondani di pena il peccato di lussuria contro-natura non solo viene punito con due pene differenti, ma è proprio la “radice”, la causa, del peccato ad essere diversa.
di Dario Pasero
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Occupiamoci, questa volta, non di un episodio singolo, ma di un peccato, declinato nelle due possibili dimensioni di pena: quella, eterna, dell’Inferno, e l’altra, temporanea, del Purgatorio. Si tratta di un peccato che negli ultimi tempi ha goduto (e gode tuttora) di una certa “fama” (nel puro senso etimologico, senza alcuna connotazione positiva): il peccato contro-natura par excellence, cioè la sodomia.
Quindi ci immergeremo (metaforicamente) nell’inferno, in quella, tra le tre Cantiche, che strappa i maggiori consensi tra le truppe cammellate dei miei (un tempo) colleghi insegnanti di orientamento “laicista” (ed erano la maggioranza nella mia scuola). L’Inferno è bello da leggere in quanto odora – diciamo così – di carne e sangue, di umanità, insomma, di peccato e di debolezza umana, oltre che di sentimenti e tematiche “forti”, mentre Purgatorio e Paradiso sono troppo “aerei”, troppo spirituali, troppo religiosi in una parola, per essere appetibili alla lettura (specie degli studenti, ma non solo).
Prima osservazione: nei due regni oltremondani di pena il peccato di lussuria contro-natura non solo viene punito con due pene differenti, ma è proprio la “radice”, la causa, del peccato ad essere diversa. Nell’Inferno i sodomiti non sono insieme agli altri “peccator carnali” (i lussuriosi del cerchio II), ma vengono inseriti tra i violenti, e precisamente tra quelli “contro la natura” (girone 3° del cerchio VII); diversa è quindi anche la pena inflitta ai colpevoli dei due peccati “carnali”. Nel Purgatorio, invece, le due categorie di lussuriosi (secondo e contro natura) vengono collocati nella stessa balza (la 7a ed ultima), patendo quindi la stessa penitenza, distinti soltanto dal procedere in due gruppi diversi che muovono in direzioni opposte.
Questa diversità dipende dal fatto che, mentre nel Purgatorio Dante ordina i peccatori suddividendoli secondo lo schema dei 7 peccati capitali (uno per balza), di cui l’acronimo SALIGIA fissa l’ordine, anche se esso in Dante è differente (la lussuria, per esempio, è l’ultimo), nell’Inferno le colpe sono schematizzate (e punite) secondo la teoria aristotelica (esposta nell’Etica Nicomachea) della virtù come giusto mezzo tra due estremi contrapposti, estremi che rappresentano appunto il peccato, nei suoi due aspetti fenomenici: per eccesso e per difetto; non solo, ma si tiene anche conto della triplice suddivisione delle colpe in incontinenza, violenza e frode, in ordine crescente di gravità (a questo proposito cfr. Inf. XI, vv. 79-84). Così la lussuria, sempre per Dante, appartiene ai peccati di incontinenza (meno gravi, ma sempre peccati mortali che dannano chi li commette), per cui l’individuo pecca perché non sa tenersi (in contineo) all’interno dei limiti di virtù fissati da Dio e dalla natura, mentre la sodomia appartiene a quelli di violenza, evidentemente più gravi in sé in quanto presuppongono una volontà chiara e un intendimento preciso di peccare.
Veniamo ora alla fattispecie. Nell’Inferno i sodomiti (canto XV e parte del XVI) sono costretti a percorrere il “sabbione”, cioè una distesa desertica in cui si trovano, dannati a pene consimili, i violenti contro Dio natura ed arte (3° girone), mentre quelli contro il prossimo si trovano nelle acque di sangue del Flegetonte (1° girone) e quelli contro se stessi (2° girone) sono trasformati in alberi spinosi (i suicidi) e dilaniati da cagne (gli scialacquatori). I sodomiti (come tutti i dannati del 3° cerchio dei violenti) sono colpiti da una pioggia di fuoco, simbolo dell’ira divina (pensiamo, ovviamente, a Sodoma e Gomorra), pioggia da cui Dante e Virgilio sono protetti da una sorta di tettoia naturale. Tra questi sodomiti Dante riconosce inizialmente il suo ex maestro Brunetto Latini (Firenze, 1220-1294; autore di due testi fondamentali per la cultura medievale, su cui anche Dante studiò, cioè il Tresor, in prosa d’oïl, e il Tesoretto, in poesia e in fiorentino): evidentemente già allora, come poi nel secolo scorso, Firenze presentava figure di maestri di chiare tendenze contro-naturali, anche se laico Brunetto e religioso il Novecentesco, ma glissons…
Dopo una prima parte descrittiva (vv. 1-12), si passa all’incontro con la schiera dei sodomiti (vv. 13-24), un’anima tra le quali riconosce Dante e gli rivolge la parola (vv. 25-27). A questo punto Dante riconosce, pur coi cambiamenti “fisici” dovuti alla pena, il suo antico maestro Brunetto Latini (vv. 28-33). Comincia così il dialogo tra i due, che si prolunga fino alla fine del canto (v. 124).
In questo dialogo si possono evidenziare due momenti fondamentali: il primo, in cui – dopo uno scambio di informazioni sul viaggio di Dante – si arriva all’argomento centrale dell’episodio, cioè la polemica con Firenze e, soprattutto, coi fiorentini; il secondo, invece, è riservato alla presentazione di altre anime di sodomiti con cui Brunetto si trova.
In realtà, nell’episodio non si trovano esplicite accuse al peccato di sodomia, essendo – come detto – il suo punto centrale rappresentato dalla polemica coi fiorentini, messa in bocca a Brunetto, ma ovviamente ascrivibile al poeta. È anche vero, però, che verso la fine del canto il poeta definisce questi peccatori “turba grama” (v. 109), così come, poco prima, sono detti addirittura “lerci” (v. 108) per la loro colpa. Certamente, nonostante la sozzura della colpa, Dante è decisamente amichevole, direi quasi tenero, nei confronti del vecchio maestro, al quale – aggiungiamo – egli si rivolge col “voi”, così come con pochi altri personaggi degni di rispetto nel poema; e così reciprocamente Brunetto con lui. Notiamo infatti come Brunetto avvicini con affetto il suo braccio verso l’allievo (“quando ’l suo braccio a me distese”, v. 28) o le parole di meraviglia che Dante gli rivolge riconoscendolo («Siete voi qui, ser Brunetto?»., v. 33). Notiamo poi come il maestro si rivolga al poeta sempre con la formula “figliuol (mio)” (vv. 34 e 40), ma soprattutto i vv. 82-90, in cui Dante rivela appieno quanto egli debba agli insegnamenti del vecchio e saggio intellettuale: «Se fosse tutto pieno il mio dimando»,/ rispuos’io lui, «voi non sareste ancora/ de l’umana natura posto in bando;// ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,/ la cara e buona imagine paterna/ di voi quando nel mondo ad ora ad ora// m’insegnavate come l’uom s’etterna:/ e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo/ convien che ne la mia lingua si scerna».
Conclusi poi sia l’attacco ai fiorentini che l’elogio reciproco dei due intellettuali, l’episodio termina con la richiesta di Dante di maggiori ragguagli sulle anime dei sodomiti presenti più avanti. La risposta di Brunetto è testualmente chiara, anche se conserva una sua “sibillinità”: di alcuni è giusto sapere, di altri no, anzi è “laudabile” non parlarne “ché ’l tempo sarìa corto a tanto suono” (v. 105). Resta da capire se “il tempo corto” si riferisca al fatto che non c’è più tempo di parlarne oppure che ci sarebbe talmente tanto da dire che si faticherebbe a farlo.
Una sola cosa è comune a queste anime: “[…] tutti fur cherci/ e litterati grandi e di gran fama,/ d’un peccato medesmo al mondo lerci” (vv. 106-108). Non occorre dunque essere studiosi o commentatori di professione dell’opera di Dante per capire che le due categorie che hanno fornito il maggior numero di sodomiti sono state quella dei religiosi (“cherci”, cioè chierici) e quella degli intellettuali (“litterati”), e per di più “grandi e di gran fama” (con accumulo tautologico: se furono “grandi” è perché grande fu la loro “fama”). Sappiamo dunque il nome di Prisciano (di Cesarea, in Mauritania, vissuto tra IV e V secolo ed autore della Institutio de arte gramatica, in 18 libri) e di Francesco Accorsio (bolognese, fu insigne giurista, vissuto dal 1225 al 1293) tra i secondi e quello del vescovo Andrea de’Mozzi (dal 1295 vescovo di Vicenza, dove morì lo stesso anno o all’inizio del successivo, trasferitovi da papa Bonifacio VIII: “colui potei che dal servo de’ servi/ fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,/ dove lasciò li mal protesi nervi”) tra i primi. Osserviamo, en passant, che, mentre degli altri peccatori (Brunetto, ovviamente,ma anche Prisciano e Accorsio, oltre ai tre fiorentini del canto successivo) Dante parla in modo corretto e quasi – come abbiamo già detto – affettuoso, a proposito di quest’ultimo il tono, probabilmente in quanto “chierico”, è alquanto sprezzante e sarcastico: “li mal protesi nervi”, immagine che sottolinea la sozzura del vizio di sodomia.
L’episodio dei peccatori contro natura ha un’appendice al principio del canto seguente (il XVI), in cui vengono ancora presentati (vv. 1-63) tre sodomiti fiorentini, cioè Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci. Segue poi un altro accenno alla corruzione di Firenze (vv. 64-90).
Come già anticipato, nel Purgatorio i sodomiti sono inseriti nella schiera dei lussuriosi e ci vengono presentati nel canto XXVI. La collocazione dei lussuriosi è nell’ultima cornice (la 7a quindi) della montagna: la cornice più vicina al Paradiso terrestre, che è sulla cima della montagna stessa, e quindi, secondo la visione dantesca, quella che accoglie il peccato meno “grave” rispetto agli altri 6 precedenti: è l’ultimo da cui le anime si purificano appena prima di salire al Paradiso terrestre e, di lì, al cielo. La punizione inflitta a queste anime è quella di dover camminare nel fuoco, divisi in due schiere che si muovono in direzione opposta l’una rispetto all’altra. Quando le due schiere si incontrano, si arrestano e si fanno scambievolmente festa con baci ed abbracci, dopo di che si allontanano pronunciando ad alta voce esempi di lussuria punita, ma seguendo uno schema inverso: i peccatori contro natura esempi di lussuria secondo natura, e viceversa. È significativo, comunque, che Dante in realtà non ci presenti alcuna anima di sodomita, mentre amplissimo spazio è dato a quella di Guido Guinizelli ed altro spazio, inferiore ma comunque rispettabile nella sua estensione, a quella di Arnaut Daniel. Dei sodomiti unicamente la citazione di un esempio solo (ovviamente il più noto nella storia, quello di “Soddoma e Gomorra”, v. 40) e poi la loro presentazione (“La gente che non vien con noi, offese/ di ciò per che già Cesar, triunfando,/ ‘Regina’ contra sé chiamar s’intese”; vv. 76-78). Ci viene così dato un altro esempio, storico, di sodomia: quello di Giulio Cesare. Così facendo Dante mantiene la sua “tradizione” di presentarci almeno due esempi, di cui uno ricavato dalla storia sacra, l’altro tratto dalla storia, o dalla mitologia, classica. L’esempio di Giulio Cesare si rifà a quanto narrato da Svetonio (da Dante conosciuto anche attraverso fonti medievali) sia relativamente ai rapporti tra il primo imperatore ed il re di Bitinia Nicomede sia (e questo è il punto sottolineato qui dal poeta) al trionfo celebrato a Roma dal vincitore delle Gallie, quando i suoi soldati, usando della licenza tradizionalmente loro offerta, coi cosiddetti carmina triumphalia, di poter dire liberamente e impunemente tutto ciò che volessero del loro comandante, lo definirono appunto “sottomesso” – in senso erotico – al re Nicomede, chiamandolo quindi “regina”.
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INFERNO XV
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Ora cen porta l’un de’ duri margini;
e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia,
sì che dal foco salva l’acqua e li argini.
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Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo ’l fiotto che ’nver lor s’avventa,
fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;
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e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:
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a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che sifosse, lo maestro felli.
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Già eravam da la selva rimossi
tanto, ch’i’ non avrei visto dov’era,
perch’io in dietro rivolto mi fossi,
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quando incontrammo d’anime una schiera
che venìan lungo l’argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera
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guardare uno altro sotto nuova luna;
e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia
come ’l vecchio sartor fa ne la cruna.
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Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!».
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E io, quando ’l suo braccio a me distese,
ficcai li occhi per lo cotto aspetto,
sì che ’l viso abbrusciato non difese
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la conoscenza sua al mio ’ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?».
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E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia».
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I’ dissi lui: «Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m’asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco».
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«O figliuol», disse, «qual di questa greggia
s’arresta punto, giace poi cent’anni
sanz’arrostarsi quando ’l foco il feggia.
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Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni».
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I’ non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma ’l capo chino
tenea com’uom che reverente vada.
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El cominciò: «Qual fortuna o destino
anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?
e chi è questi che mostra ’l cammino?».
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«Là su di sopra, in la vita serena»,
rispuos’io lui, «mi smarri’ in una valle,
avanti che l’età mia fosse piena.
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Pur ier mattina le vuolsi le spalle:
questi m’apparve, tornand’io in quella,
e reducemi a ca per questo calle».
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Ed elli a me: «Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorioso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella;
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e s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei a l’opera conforto.
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Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,
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ti si farà, per tuo ben far, nimico:
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.
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Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent’è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.
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La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l’erba.
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Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s’alcuna surge ancora in lor letame,
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in cui riviva la sementa santa
di que’ Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta».
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«Se fosse tutto pieno il mio dimando»,
rispuos’io lui, «voi non sareste ancora
de l’umana natura posto in bando;
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ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
m’insegnavate come l’uom s’etterna:
e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna.
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Ciò che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, s’a lei arrivo.
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Tanto vogl’io che vi sia manifesto,
pur che mia coscienza non mi garra,
che a la Fortuna, come vuol, son presto.
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Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e ‘l villan la sua marra».
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Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro, e riguardommi;
poi disse: «Bene ascolta chi la nota».
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Né per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
li suoi compagni più noti e più sommi.
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Ed elli a me: «Saper d’alcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
ché ’l tempo sarìa corto a tanto suono.
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In somma sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
d’un peccato medesmo al mondo lerci.
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Priscian sen va con quella turba grama,
e Francesco d’Accorso anche; e vedervi,
s’avessi avuto di tal tigna brama,
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colui potei che dal servo de’ servi
fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,
dove lasciò li mal protesi nervi.
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Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone
più lungo esser non può, però ch’i’ veggio
là surger nuovo fummo del sabbione.
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Gente vien con la quale esser non deggio.
Sieti raccomandato il mio Tesoro
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio».
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Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
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quelli che vince, non colui che perde.
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PURGATORIO XXVI
Mentre che sì per l’orlo, uno innanzi altro,
ce n’andavamo, e spesso il buon maestro
diceami: «Guarda: giovi ch’io ti scaltro»;
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feriami il sole in su l’omero destro,
che già, raggiando, tutto l’occidente
mutava in bianco aspetto di cilestro;
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e io facea con l’ombra più rovente
parer la fiamma; e pur a tanto indizio
vidi molt’ombre, andando, poner mente.
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Questa fu la cagion che diede inizio
loro a parlar di me; e cominciarsi
a dir: «Colui non par corpo fittizio»;
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poi verso me, quanto potean farsi,
certi si fero, sempre con riguardo
di non uscir dove non fosser arsi.
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«O tu che vai, non per esser più tardo,
ma forse reverente, a li altri dopo,
rispondi a me che ’n sete e ’n foco ardo.
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Né solo a me la tua risposta è uopo;
ché tutti questi n’hanno maggior sete
che d’acqua fredda Indo o Etiopo.
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Dinne com’è che fai di te parete
al sol, pur come tu non fossi ancora
di morte intrato dentro da la rete».
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Sì mi parlava un d’essi; e io mi fora
già manifesto, s’io non fossi atteso
ad altra novità ch’apparve allora;
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ché per lo mezzo del cammino acceso
venne gente col viso incontro a questa,
la qual mi fece a rimirar sospeso.
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Lì veggio d’ogne parte farsi presta
ciascun’ombra e basciarsi una con una
sanza restar, contente a brieve festa;
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così per entro loro schiera bruna
s’ammusa l’una con l’altra formica,
forse a spiar lor via e lor fortuna.
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Tosto che parton l’accoglienza amica,
prima che ’l primo passo lì trascorra,
sopragridar ciascuna s’affatica:
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la nova gente: «Soddoma e Gomorra»;
e l’altra: «Ne la vacca entra Pasife,
perché ’l torello a sua lussuria corra».
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Poi, come grue ch’a le montagne Rife
volasser parte, e parte inver’ l’arene,
queste del gel, quelle del sole schife,
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l’una gente sen va, l’altra sen vene;
e tornan, lagrimando, a’ primi canti
e al gridar che più lor si convene;
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e raccostansi a me, come davanti,
essi medesmi che m’avean pregato,
attenti ad ascoltar ne’ lor sembianti.
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Io, che due volte avea visto lor grato,
incominciai: «O anime sicure
d’aver, quando che sia, di pace stato,
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non son rimase acerbe né mature
le membra mie di là, ma son qui meco
col sangue suo e con le sue giunture.
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Quinci su vo per non esser più cieco;
donna è di sopra che m’acquista grazia,
per che ’l mortal per vostro mondo reco.
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Ma se la vostra maggior voglia sazia
tosto divegna, sì che ’l ciel v’alberghi
ch’è pien d’amore e più ampio si spazia,
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ditemi, acciò ch’ancor carte ne verghi,
chi siete voi, e chi è quella turba
che se ne va di retro a’ vostri terghi».
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Non altrimenti stupido si turba
lo montanaro, e rimirando ammuta,
quando rozzo e salvatico s’inurba,
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che ciascun’ombra fece in sua paruta;
ma poi che furon di stupore scarche,
lo qual ne li alti cuor tosto s’attuta,
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«Beato te, che de le nostre marche»,
ricominciò colei che pria m’inchiese,
«per morir meglio, esperienza imbarche!
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La gente che non vien con noi, offese
di ciò per che già Cesar, triunfando,
«Regina» contra sé chiamar s’intese:
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però si parton ‘Soddoma’ gridando,
rimproverando a sé, com’hai udito,
e aiutan l’arsura vergognando.
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Nostro peccato fu ermafrodito;
ma perché non servammo umana legge,
seguendo come bestie l’appetito,
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in obbrobrio di noi, per noi si legge,
quando partinci, il nome di colei
che s’imbestiò ne le ’mbestiate schegge.
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Or sai nostri atti e di che fummo rei:
se forse a nome vuo’ saper chi semo,
tempo non è di dire, e non saprei.
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Farotti ben di me volere scemo:
son Guido Guinizzelli; e già mi purgo
per ben dolermi prima ch’a lo stremo».
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Quali ne la tristizia di Ligurgo
si fer due figli a riveder la madre,
tal mi fec’io, ma non a tanto insurgo,
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quand’io odo nomar sé stesso il padre
mio e de li altri miei miglior che mai
rime d’amore usar dolci e leggiadre;
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e sanza udire e dir pensoso andai
lunga fiata rimirando lui,
né, per lo foco, in là più m’appressai.
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Poi che di riguardar pasciuto fui,
tutto m’offersi pronto al suo servigio
con l’affermar che fa credere altrui.
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Ed elli a me: «Tu lasci tal vestigio,
per quel ch’i’ odo, in me, e tanto chiaro,
che Leté nol può tòrre né far bigio.
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Ma se le tue parole or ver giuraro,
dimmi che è cagion per che dimostri
nel dire e nel guardar d’avermi caro».
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E io a lui: «Li dolci detti vostri,
che, quanto durerà l’uso moderno,
faranno cari ancora i loro incostri».
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«O frate», disse, «questi ch’io ti cerno
col dito», e additò un spirto innanzi,
«fu miglior fabbro del parlar materno.
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Versi d’amore e prose di romanzi
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch’avanzi.
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A voce più ch’al ver drizzan li volti,
e così ferman sua oppinione
prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti.
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Così fer molti antichi di Guittone,
di grido in grido pur lui dando pregio,
fin che l’ha vinto il ver con più persone.
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Or se tu hai sì ampio privilegio,
che licito ti sia l’andare al chiostro
nel quale è Cristo abate del collegio,
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falli per me un dir d’un paternostro,
quanto bisogna a noi di questo mondo,
dove poter peccar non è più nostro».
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Poi, forse per dar luogo altrui secondo
che presso avea, disparve per lo foco,
come per l’acqua il pesce andando al fondo.
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Io mi fei al mostrato innanzi un poco,
e dissi ch’al suo nome il mio disire
apparecchiava grazioso loco.
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El cominciò liberamente a dire:
«Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
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Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu’esper, denan.
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Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l’escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!».
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Poi s’ascose nel foco che li affina.
7 commenti su “Nostra maggior Musa (Riflessioni “minime” sulla Commedia dantesca) / IV – di Dario Pasero”
Buongiorno. Potrei saper chi è il “Novecentesco” con tendenze contro-natura a cui si riferisce Pasero?
Grazie.
Non mi azzardo a fare il nome del ‘novecentesco’ – notabile e. . . noto – per rispetto all’autore che l’ha taciuto, ma c’è da scegliere fra i tanti che la cronaca ci ha fornito. Ottima, caro Pasero, l’osservazione iniziale con cui accenni al fascino tattile e visivo che l’inferno esercita su docenti, studenti ed orecchianti. Ne ha fatto il tema introduttivo al mio saggio sul Paradiso di prossima pubblicazione. Un cordiale saluto e complimenti per questi bellissimi interventi.
Un fascino a scapito del Paradiso
Un sacerdote di cui è appena stata pubblicata, da Mondadori, l’opera omnia, ampiamente lodata dal Servo dei Servi
In realtà ieri il Sommo Pontefice ha esaltato la figura di un “don”, «innamorato della chiesa e grande educatore» ( https://www.avvenire.it/papa/pagine/messaggio-papa-francesco-tempo-di-libri-don-milani ).
Su cosa si basava il metodo educativo di questo «grande educatore», lo spiega lo stesso «educatore» in una sua lettera ad un amico giornalista («Caro Giorgio…» https://www.riscossacristiana.it/viaggio-nel-cattocomunismo-toscano-quarta-e-ultima-parte-di-vinicio-catturelli/ )
E diciamolo. don Milani. Un passo dell’indegna lettera – di cui fa cenno Lucio R – indirizzata a Giorgio Pecorini: “. . . . E che, se un rischio corro per l’anima mia, non è certo quello di aver poco amato, ma piuttosto di amare troppo (cioè di portarmeli a letto). . .E chi non potrà mai amare i ragazzi fino all’osso senza finire di metterglielo in culo se non un maestro che insieme a loro ami anche Dio e tema l’inferno e desideri il Paradiso?”. Ecco l’educatore che Bergoglio si accingerà, compiendo ulteriore fase dell’eversione programmata, a santificare.
Grazie. Finalmente una risposta. Non conoscevo questo orribile lato oscuro di don Milani… Perché tacerlo, poi, questo nome? L’autore dell’articolo, citandolo senza farne il nome, forse desiderava proprio che qualcuno osasse tanto… Che si sappia, dunque. Don Lorenzo Milani era un pedofilo.