Molta della tragica bellezza, della maestosità, della solennità contenute nei cicli del Silmarillion si era già riversata abbondantemente nella grande epica da lui da sempre sognata, Il Signore degli Anelli. Tuttavia Tolkien aveva ancora molto da raccontare, dopo le narrazioni della guerra dell’Anello che lasciarono intravedere larghi orizzonti del suo “secondary world”, e dunque riprese a lavorare alla mitologia del Silmarillion nella sua consueta riservatezza, quella con cui aveva iniziato a scrivere queste storie nel lontano 1917, mentre si trovava nelle trincee della Prima Guerra Mondiale.
Ciò da cui tutto aveva avuto inizio venne rielaborato ulteriormente fino agli ultimi istanti della sua vita. Egli non smise mai di lavorare sulla quantità enorme di materiale da cui intendeva trarre la forma definitiva dell’opera. Addirittura un mese prima della sua morte, il 4 agosto 1973, a ottantuno anni, scriveva a Lord Halsbury: “Senza il Suo aiuto, comincio a pensare che non riuscirò mai a portare a termine una parte del Silmarillion…”
Un libro che sembrava editorialmente impossibile, in quanto rinunciava per scelta dell’autore alla forma di romanzo: il pubblico avrebbe gradito questi annali, queste cronache di tempi remoti, l’assenza di un protagonista principale, il tenore epico e drammatico dello stile, le considerazioni filosofiche, la complessa mitologia e le importanti ma intricate genealogie?
Il Signore degli Anelli non aveva esaurito tutta l’arte di Tolkien, ma certamente aveva assorbito copiosamente dal grande patrimonio espressivo, dalla complessa realtà descritta nel Silmarillion. Questo forse – nonostante gli sforzi e il desiderio di Tolkien di vederlo pubblicato come libro – era destinato diversamente: era la pietra in cui Tolkien, come uno scultore, vedeva l’immagine nascosta che attende di essere liberata e messa in luce.
Si tratta di un’opera straordinaria, in cui Tolkien rivela nitidamente una propria teologia della storia, che riprende la concezione agostiniana delle due città: la Città terrena, opera degli uomini in cui agisce il male, e la Città di Dio, meta verso la quale indirizzare attese, sforzi e speranze. E’ da sottolineare che Sant’.Agostino si trovò a vivere al confine tra il crepuscolo di un mondo antico un tempo grandioso e l’alba di una nuova era dai contorni ancora incerti, e insegnò che la storia è guidata dalla Provvidenza e che quindi ogni avvenimento – dalla piccola vicenda personale alle grandi svolte dell’umanità – possiede un significato che dissipa l’oscurità e sorregge le forze dell’uomo. Le rovine, i numerosi segni di civiltà cresciute, ascese a grandezza e poi irrimediabilmente finite e dimenticate costellano ovunque la Terra di Mezzo, ricordandoci la caducità della Città terrena. Un tema che Tolkien affronta in particolare in The Fall of Gondolin.
La città di Gondolin era il più bel reame realizzato dagli elfi lontano dalle Terre Imperiture, ma che venne interamente distrutta dalle legioni del malvagio Morgoth, l’Angelo Ribelle della mitologia tolkieniana. In conseguenza di ciò i Valar , le entità divine che circondano il Dio unico Iluvatar, scesero in guerra contro il malvagio signore che si era attestato nella sua fortezza settentrionale, Angband. Il grande artefice del male venne sconfitto, ma da questa guerra il mondo ne uscì cambiato: la Terra di Mezzo rimase definitivamente isolata dalle terre ad occidente, divenute pressochè irraggiungibili. Fra le terre dei mortali e quelle degli immortali venne eretta una barriera invalicabile.
Le vicende narrate nel Silmarillion offrono dunque con chiarezza la visione della storia e della realtà di Tolkien, in cui un ruolo di grande rilievo, espresso con simbologia efficace e drammatica, è il mito della Caduta, ovvero il grande peccato con il quale gli uomini infrangono l’ordine dato da Dio al cosmo, cercando di sovvertirlo. In termini cristiani si tratta del Peccato Originale. Da questa sfida, da questa rottura dell’alleanza naturale tra l’uomo e il divino ne scaturisce non solo la rovina della più importante delle costruzioni dell’uomo, grande nella sua superbia, ma residua da allora in poi una intrinseca fragilità di tutte le ambiziose realizzazioni umane: in tutti i racconti presenti nel Silmarillion si assiste a questi accadimenti dalla precisa simbologia: la costruzione di innumerevoli regni e la loro caducità; la nascita, l’ascesa e il declino di dinastie; grandi
battaglie, conquiste e fatali sconfitte. Tolkien era fermamente convinto che un tempo fosse esistito un Eden, e che la caduta, ossia il peccato originale dell’uomo, fosse responsabile dei mali del mondo. Così nei racconti o le creature – Elfi o uomini che siano- vivono e agiscono per amore, che è un riverbero dell’amore di Dio – o agiscono per ambizione, per superbia, spinti da avidi appetiti di potere e di successo, e il loro fato non potrà che essere tragico.
Come ben sappiamo, la narrativa si è avventurata spesso e volentieri sul terreno dell’utopia, preferendo tuttavia viaggiare nello spazio e nel tempo, aprendo l’immaginazione su nuovi mondi e nuove frontiere, frequentemente prefigurando scenari decisamente inquietanti. John Ronald Tolkien rifiuta invece ogni idea di utopia; la sua, semmai, è una storia ucronica, situata cioè in un tempo non identificabile. Il luogo – lo si è detto – è invece questa terra, la sola che ci sia data, e che dobbiamo amare .
Aveva ben ragione Tolkien di difendersi dalle accuse di “escapismo”, cioè di disimpegno, rivolte – del tutto a torto- alla sua opera. Non è, il mondo descritto nella Terra di Mezzo, quello in cui fuggire disertando dai propri obblighi e dai propri impegni, ma è invece la propria patria autentica, la propria casa accogliente, attualmente soppiantata e soffocata dai pessimi risultati della modernità figlia delle utopie ideologiche. E’ il mondo, come ebbe a dire lo stesso Tolkien, della coraggiosa evasione del prigioniero, non della fuga pavida del disertore. Si accede alla Terra di Mezzo, ci si inoltra in essa, per realizzare un cammino attraverso il quale si diviene autenticamente sé stessi.
Fonte: La Verità