Il multiculturalismo è l’alfa e l’omega della democrazia occidentale del secolo XXI, l’unico volto possibile della postmodernità secondo i suoi banditori. Strana democrazia quella che proscrive le opinioni in base ai criteri del momento, enfatizza qualsiasi identità particolare ma nega la possibilità di un’identità comune, riducendo al silenzio in nome del pluralismo! La metamorfosi della sinistra, sconfitta sul piano economico sociale, ci ha condotto in un vicolo cieco, l’egalitarismo identitario, fatto di critica feroce all’occidente, decostruzione delle tradizioni (le nostre!), invenzione dell’antirazzismo. L’esito corrisponde al fine: la confisca del pensiero libero da parte di una minoranza.
È la lunga marcia di una ideologia sedicente antidiscriminatoria che si fa religione settaria e intollerante, da smascherare nel suo fine di autoritarismo sottaciuto. Mathieu Bock-Cotè, nel suo Multiculturalisme comme religion politique, ispirato dall’opera di Hannah Arendt, del grande medievista Jacques le Goff e di Alain Finkielkraut, pone al microscopio cinquant’anni di follia ideologica pervenendo alla più ovvia delle conclusioni: l’uomo ha bisogno di stabilità antropologica e di ancoraggio nella durata storica. Nega valore tanto al vacuo individualismo liberale quanto al progressismo desideroso di farla finita con un mondo “troppo vecchio”, visioni destinate entrambe a finire nella tabula rasa.
Dopo l’elettrochoc del Sessantotto e quello del 1989, sono gli sconfitti della storia a vincere la guerra delle idee. Gli araldi della decostruzione si sono assunti, nell’occidente terminale, il compito di chinarsi al capezzale di una rifondazione dottrinale per imprimervi l’unica dinamica che conoscono, quella della dissoluzione. I loro ispiratori sono molteplici. Preme sottolineare l’azione corrosiva di pensatori come Michel Foucault, ma soprattutto Pierre Bourdieu e Emmanuel Lévinas.
Il primo sostenne che gli “agenti sociali dominanti”, in grado di imporre le loro produzioni culturali e simboliche giocano un ruolo decisivo nei rapporti di dominazione, praticando la “violenza simbolica”, ovvero la capacità di celare l’arbitrarietà delle loro costruzioni, che diventano legittime in quanto espressione di un potere. Lévinas assegnò capitale importanza a quella che definì “epifania dell’altro uomo”, il volto dell’Altro. L’Altro di Lévinas diviene la figura rigeneratrice a partire dalla quale reinventare la civiltà occidentale, tra riflessi penitenziali, ideologia no border, egalitarismo polivalente e subcultura della contestazione senza-terra.
Paradosso insensato fondare qualcosa non su se stessa, ma su tutto ciò che le è estraneo. Siamo, diventiamo lo sgabello dell’Altro rinunciando a essere noi stessi, il suicidio per dissanguamento come ideale di una civilizzazione denudata che ha rinunciato a qualsiasi destino. Cambiano i fattori, il prodotto non cambia: un impianto di idee nuovo, un’ulteriore “narrazione” è al lavoro per riconfigurare le menti, con la stessa arbitrarietà che rimprovera al passato pensiero dominante. La distinzione sta nell’obiettivo: non fondare, ma disgregare, decostruire, demitizzare: il mestiere dello sfasciacarrozze. Una volta ricoperto il mondo di detriti, sedersi sulle rovine come Nerone dopo l’incendio di Roma è un gesto di follia.
Il fardello dell’uomo bianco di Jack London si è mutato in progetto politico per una democrazia totalizzante, il cui ultimo nemico da battere è se stessa. Si tratta di rifare completamente la società a partire da un modello inaudito, egalitarismo identitario o diversità inclusiva. Un gioco di ossimori, l’equilibrio impossibile tra opposti in cui ci si deve sbarazzare innanzitutto dello Stato nazione, un modello oppressivo e superato che rallenta l’ineluttabile avvento di un’umanità nuda, liberata dalle costrizioni della propria storia, i cui simboli sono le frontiere. Di qui l’invito quotidiano a tendere ponti e abbattere muri. In Francia il punto di rottura è avvenuto negli anni Ottanta, allorché, sotto Mitterrand, di fronte a una pressione migratoria enorme, si passò dal vecchio modello dell’assimilazione a un multiculturalismo in cui era la società francese a dover cambiare pelle dinanzi ai nuovi arrivati.
La logica sottostante oltrepassa il pur grave problema dell’integrazione tra popolazioni diverse per riflettere il problema più generale delle società europee dopo le tempeste delle due guerre mondiali, il loro rapporto con la storia, diventato aspirazione di fuoriuscire dalle responsabilità. Il progetto multiculturalista, come religione politica, ha infatti per orizzonte l’indifferenziazione generalizzata, in cui la dialettica della storia, fatta di passato e futuro, è sostituita dall’ideologia della compassione e dello sviluppo soggettivo. Il migliore dei mondi possibili postmoderni, anzi l’unico, un mischione indistinto. Conclude Bock-Coté: “a partire dal momento in cui le nazioni non saranno più che etichette che ricoprono tutt’al più una semplice realtà amministrativa, potremo dire che la vera diversità culturale sarà stata polverizzata”.
Per fortuna, emergono resistenze al costruttivismo multiculturale della nuova sinistra umanitaria che intende ridurre l’uomo alle sue sofferenze, speculare al cinismo della destra liberale interessata solo al ruolo di forza-lavoro/consumo delle masse. Le popolazioni, le nazioni danno segni di risveglio, bollati come populismo dall’unanime coro destro-sinistro del sistema. Già una decina d’anni fa lo constatava Milan Kundera nel Sipario: più le nazioni sono piccole, più hanno la tendenza a rivendicare in maniera forte la loro specificità. “Esse si definiscono nel sentimento della loro singolarità culturale, e non hanno mai l’illusione di credersi universali”. Acuta osservazione, poiché l’universalismo è l’ideologia che ha partorito il multiculturalismo, un universalismo presente nella civiltà europea in versione civilizzatrice, oggi il cuore del suo disagio, come se la mistica universalista che permise alle democrazie liberali di trionfare dal 1914 al 1991 non abbia più altra ambizione che dissolvere se stessa.
Il paradosso descritto da Bock-Cotè è che le generazioni post Sessantotto lasciate a se stesse non sarebbero state in grado di difendere la società dei cui vantaggi approfittavano. Si sono attribuite i meriti di vittorie a cui non avevano partecipato e che addirittura non esitavano a demonizzare. Il pensiero del giovane studioso franco canadese ci pare più incerto nel tentativo di abbozzare delle alternative. I suoi riferimenti intellettuali, infatti, nonostante si dichiari sovranista e gollista, “nella misura in cui il gollismo mi appare come una forma di conservatorismo romantico” sono saldamente inscritti nell’orizzonte liberale. In particolare, notevole è il suo debito nei confronti di un coraggioso intellettuale antitotalitario, Raymond Aron, bestia nera per decenni della sinistra francese.
Aron fu un liberale cosciente che il liberalismo deve essere trasceso dal sentimento di appartenenza a una comunità, e Mathieu Bock-Coté, sulle sue piste, invita a ritrovare una “resistenza non liberale, ma nemmeno antiliberale”. Non basta ed è fuorviante. Il liberalismo, anche quello meglio intenzionato, contiene in sé i germi della disgregazione sociale nella neutralità assiologica, nell’indifferenza religiosa, nel disprezzo per la dimensione pubblica. E’, per usare il vocabolario di Durkheim, una forma sofisticata di anomia. La sua crisi è nell’insostenibilità di un sistema fondato sull’utilitarismo, con una morale cangiante, flessibile, “definita solo in base agli scopi dell’agire umano”(Benedetto XVI). L’altra tremenda debolezza è nella sua riduzione liberista, ossia l’economia dell’accumulo come unica dimensione comune. Il liberalismo è il brodo di coltura di ogni libertarismo, il padre del materialismo, del soggettivismo e del relativismo, non può essere uno scudo contro la deriva nichilista della neo sinistra multiculturale, sua figlia uterina.
Lo stesso Bock-Coté ne sembra consapevole in un altro saggio, Valeurs Actuelles, in cui prende di mira il giornalista collettivo postmoderno, capace “di scatenare una purga mediatica per escludere dalla vita pubblica chi lo esaspera. Critico il sistema mediatico e la sua maniera di rappresentare il dibattito pubblico, che tende a patologizzare coloro che non cantano lo spartito dell’epoca. Il conservatore è sempre sospetto e obbligato a giustificare le sue idee, come se il suo ragionamento contenesse un’inquietante zona d’ ombra”. Quindi, se è il conservatore e non certo il liberale il bersaglio del multiculturalismo, è evidentemente lì il punto di svolta, l’elemento di resistenza dell’ultimo devastante mezzo secolo, dall’adesione delle élites culturali all’economia di mercato unita e coincidente con il radicalismo progressista.
Il conservatore, insegnava Moeller Van Den Bruck, ama, difende e riconosce ciò che è solido, permanente. Pratica la democrazia come partecipazione del popolo al proprio destino. E’ radicato in un luogo e in un’identità. La narrazione dominante, che tende a divenire unica e indiscutibile, non crede all’equilibrio tra eredità e cambiamento, memoria e utopia. Conta solo il progresso, l’idolatria del nuovo e la distopia di un mondo senza frontiere. E’ obbligatorio decostruire ogni principio, squalificare la sovranità popolare, sostituire la politica con l’imposizione giudiziaria della neo verità e l’amministrazione economica oligarchica, porre astratti diritti al di sopra del principio democratico rettamente inteso. Bisogna stabilire simbolicamente e concretamente una uguaglianza tra gruppi vittimizzati e gruppi (considerati) dominanti. L’istruzione deve patrocinare la decostruzione piuttosto che la trasmissione.
Il catalogo è questo, il conservatorismo è una fragilità psicologica o più probabilmente una patologia legata a fobie diverse. Dunque, il suo punto di vista è irricevibile, tutt’al più il conservatore va curato o rieducato. A quel punto il multiculturalismo, unico discorso ammesso, diventa una religione politica obbligatoria. Se vogliamo un avvenire diverso dalla melassa “multi” e “trans”, occorre attrezzarsi per una battaglia di lunga durata tesa alla rivoluzione conservatrice, ostile ed estranea all’intero armamentario ideologico postmoderno, riformulando i fondamentali, i principi permanenti, solido versus liquido, spirito contro materia, Dio, Patria, famiglia, lavoro, identità, socialità, noi, gli altri.
Se non avremo questa forza, unita al coraggio morale che ogni giorno di più si trasforma in ardimento fisico, non resta che la rassegnazione, dare ragione all’esteta del tramonto Emil Cioran: la politica è l’arte di discernere tra le tante sfumature del peggio.
1 commento su “Multiculturalismo, la nuova religione politica (seconda e ultima parte) – di Roberto Pecchioli”
Parole condivisibili. Però io spererei, più che in una “rivoluzione conservatrice” che mi pare alleata forte del nemico (cfr. la cd. destra ratzingeriana, etc.) e troppo ambiguamente “moderna” per poter essere al servizio della causa che vorrebbe difendere (e che invece, a mio parere, attacca, una cum inimico), in una vera e proprio RESTAURAZIONE. In primis della fede cattolica, dei modi di vivere e di relazionarsi ad essa conseguenti e con essa coerenti. Il nemico è la modernità, uno dei tanti suoi servi sciocchi è il conservatorismo, laicista e liberale. La tradizione è il nostro obiettivo, anzi meglio, l’ETERNO. Guardando en haut, non limitandosi alla società terrena che è limite e anzi cifra sottesa ad ogni ideologia anticristiana, nel momento in cui scioglie in un utopico veleno orizzontalista il fine unico e olofrasticamente totalizzante dell’essere al mondo, la vita eterna.