Il dottor Grossman, dobbiamo dirlo, era un entusiasta. Lanciato a mille nella rincorsa forsennata del progresso, si protendeva costantemente ad agguantare la scia di un futuro radioso, in un’accanita fiducia nei confronti del genere umano.
Non c’era motivo, per il dottore, di dubitare della buona fede del singolo individuo. Le colpe le aveva semmai quella creatura impalpabile, l’opinione pubblica, che al pari dell’arsenico, avvelenava le masse incolte. Per risolvere il problema della collettivizzazione del pensiero, che doveva essere uniforme certo, ma quanto meno colto e in linea con i più moderni principi etici e culturali, l’intellettuale era convinto dell’esigenza di una rivoluzionaria formazione delle nuove generazioni.
Poco importa se i metodi educativi quali la centralità dell’esperienza, l’importanza dell’apprendimento logico, sensoriale e via dicendo erano ormai storia trita e ritrita. De resto, pensava Grossman, nessuno di essi aveva portato frutto poiché nessuno di essi era stato finora sperimentato con perizia e costanza. Ci avrebbe pensato lui, aio dei futuri pensatori, plasmatore delle nuove menti, ad affinarne il metodo e a raccoglierne i frutti. Il suo posto, lo aveva sempre saputo, era seduto dietro a una cattedra a sciorinare sentenze e arcani segreti, di fronte a una platea adorante di studenti.
Da giorni questo pensiero, o meglio questa ispirazione, non lo lasciava in pace e si era proposto a varie scuole della città per tenere qualche giornata di lezione, una serie di interventi gratuiti, un’occasione unica. Aveva inviato richieste a tutti gli istituti dei dintorni, iniziando dai più prestigiosi fino alle scuolette di provincia, senza ricevere risposta.
– Qualcuno accetterà sicuramente prima o poi…
Grossman si ripeteva questo ritornello tenendosi appresso il telefono, mentre misurava la cucina a lunghi passi. Del resto, come poteva essere rifiutata l’opportunità di avere un precettore di fama internazionale nella propria classe?
Consolata, la sua governante, intenta ad arrotolare un gran polpettone lo ascoltava borbottare nervoso e cercava di renderlo a ragione:
– Senta signore, non ne abbia a male, la settimana scorsa non è riuscito a spiegarmi come aprire la cassetta delle lettere, ieri ha chiamato l’idraulico quattro volte per capire quale fosse il pulsante giusto della caldaia. Ora, mi chiedo se una mente, ehm, teorica, come la sua, sia adatta a spiegare ai bambini quanto fa due più due o quante zampe hanno i paperi. Ci vuole un certo polso con i ragazzetti, sa, e ci vuole un po’ di praticità.
– I paperi! I paperi! Consolata per te nutrire le giovani menti significa numerare le zampe dei paperi? È ben altro quel che bisogna trasmettere al futuro della nostra civiltà: libertà, uguaglianza, diversità, autenticità. I paperi sono robaccia per contadini.
Il dottore lasciò la stanza inveendo contro i pennuti ancora per qualche minuto. La governante gli lanciò un’occhiata carica di compassione è lascio che la questione passasse.
La mattina seguente, tuttavia, qualcosa era cambiato. Grossman si presentò con un sorriso smagliante, i capelli pettinati all’indietro e un abito in tartan verde vecchio di trent’anni, impregnato di naftalina e riesumato per l’occasione.
– Cara la mia governante, oggi si inizia! Non aspettarmi per pranzo, porto i ragazzi in gita!
La Consolata spalancò gli occhi e con aria sbalordita gli chiese cosa intendesse dire. Prese carta e penna e si appuntò i dettagli, nel caso il dottore si perdesse.
– Oh, niente di che cara, mi ha chiamato la scuola di San Gaudenzio, sì quella piccola scuola nel quartiere periferico, quella gestita dalle suore. Sì, d’accordo, chiamalo quartiere della malavita se vuoi, io preferirei considerarlo socialmente difficile. Sì ecco, si è ammalata suor Fernanda e cercavano un sostituto. Pensa che fortuna Consolata, potrò portare quindici giovani uomini sui luoghi di Leonardo. Non è meraviglioso? Imparare lontano dalle aule, toccando, guardando, respirando la cultura e la storia a pieni polmoni. Una bella virata rispetto all’educazione tradizionale delle religiose. Credo finalmente di aver trovato la mia vera missione: l’educazione.
La Consolata si mise le mani nei capelli e lo salutò.
Il dottore arrivò puntualissimo al punto di ritrovo e salì sull’autobus insieme a una dozzina di bambini iperattivi della classe quarta C. Avrebbe voluto iniziare da subito, durante il viaggio, a illustrare l’importanza di quel pellegrinaggio nei meandri della storia, ma proprio quando stava per afferrare il microfono, suor Teresina, un donnone baffuto sulla settantina, gli propose di dirigere la preghiera del mattino. Capì dal suo sguardo che quella non era una richiesta, ma un ordine.
– Bene bambini quindi, ehm, dunque sì, Padre Nostro che sei nei cieli…
Gli arrivò uno schiaffone dritto in testa. La scolaresca si mise a ridere e la suora lo apostrofò:
– In latino!
– Pater Noster qui es in caeli…
Durante tragitto il neo maestro ebbe poco da spiegare perché un bambino vomitò sul sedile, un altro rovesciò la bottiglietta per terra e un paio si presero a cazzotti. Suor Teresina, in più, lo interrogò per un’ora filata sulla rettitudine della sua vita cristiana e più rimaneva insoddisfatta delle risposte, più scuoteva il capo e iniziava con i rimproveri.
Arrivati sulle rive dell’Adda, iniziò la gita. Il dottor Grossman si scrollò di dosso la suora e prese coraggio, la classe era davanti a lui e per cinque ore avrebbe fatto in modo che tutti pendessero dalle sue labbra. Iniziò così una lunga parabola sulla vita di Leonardo da Vinci, invitando gli astanti a non soffermarsi tanto sulle invenzioni dello scienziato, quanto sulle implicazioni sociali che esse ebbero nel corso della storia. Invitò la platea a domandarsi quanto la vita di un singolo individuo fosse in grado di cambiare il corso della Storia del mondo e a concepire la propria esistenza come quella del da Vinci, essere in grado cioè di scoprire la propria genialità recondita e poterla consegnare ai posteri, per migliorare con il proprio ingegno il corso dell’avvenire.
– A me mi scappa la pipì!
Lo interruppe all’improvviso un bambinetto con gli occhiali rossi.
– Dovevi farla in autogrill, ora te la tieni oppure chiedi al maestro di accompagnarti dietro a un cespuglio.
Ruggì la suora che non pareva rapita dallo stesso stato estatico in cui si trovava il professore.
Grossman impettito cercò di riprendere il discorso, ma presto dovette interrompersi di nuovo.
– Il mio papà ha detto che sei uno famoso, che hai scritto della robaccia.
Tutti sghignazzarono, la suora impallidì e Grossman sorrise tirato. Ingoiò il rospo e continuò a elogiare la vita di Leonardo. Quando si soffermò a descrivere il sorriso senza tempo della Gioconda una bambina saltò su:
– A me non mi piace mica quella signora lì, in più è anche grassa!
La suora fece segno al dottore che forse era il caso di tagliare corto e propose di fare un giro al museo. Grossman accettò di buon grado pensando di rincarare la dose una volta entrati. L’esposizione tuttavia, che riproduceva alcune tra le opere più importanti di Leonardo pareva non riscuotere molto successo tra i gli studenti. Qualcosa però colpì nel segno perché una piccola folla si era assiepata attorno alla riproduzione della catapulta. Il neo maestro prese la palla al balzo:
– La catapulta è un tipo di macchina d’assedio che sfrutta un braccio per scagliare con tiro curvo grosse pietre di cento, duecento e più chili, proiettili di metallo o dardi e frecce. Il nome deriva dal greco “kata pelta”, ovvero “attraverso lo scudo”.
Un ragazzetto dai capelli rossi esclamò:
– Caspita, questa la usavano per fare le guerre! I nemici esplodevano in aria, secondo te?
– Ehm, no… io… insomma direi che la guerra è una cosa molto brutta, Leonardo aveva inventato la catapulta non per far esplodere le persone, ma solo per ehm… diciamo per colpire le torri dei nemici. No non dei nemici, i nemici non esistono. Diciamo allora per colpire gli amici! E non in guerra… per… per divertimento!
– Hai sentito Lorenzo? – sussurrò il bambino a un amico – Leonardo faceva saltare in aria i suoi amici.
– Sì, bello stronzo! – gli rispose l’altro seccato.
Grossman uscì dal museo trafelato, niente andava per il verso giusto. Tuttavia non si voleva dare per vinto, aveva ancora una carta da giocare: il giro in traghetto.
I bambini vennero richiamati e messi in fila, l’attracco dell’imbarcazione era poco distante e il neo maestro sembrava aver recuperato il buon umore. Fece salire la scolaresca e iniziò la traversata del fiume.
Neanche il tempo di sedersi e ricominciò la solita parabola sulle imprese leonardiane. Iniziò a descrivere minuziosamente il funzionamento del traghetto, ma dopo qualche minuto aveva perso l’attenzione di tutti, suora compresa. Il fiume aveva un fascino tutto suo e i bambini se ne stavano ad ammirarlo indicando qua e là quel che vedevano:
– Guarda c’è un papero tutto bianco!
– Quelli sono cigni, scemo.
Volarono un paio di sberloni. Suor Teresina ava un destro micidiale e nel giro di trenta secondi aveva recuperato gli sguardi di tutti. Ma dopo un paio di minuti un bambino vedeva un pesce, un altro una nuvola che sembrava una bicicletta e l’attenzione si perdeva di nuovo. Il dottor Grossman si gettò sconsolato sulla panchina, ma non ebbe neanche il tempo di sprofondarsi nel proprio fallimento perché il bambino con gli occhiali gli si avvicinò con aria sofferente:
– Io non ce la faccio più a tenerla la pipì, la faccio qui…
– No! No per carità non farla, stiamo arrivando sull’altra riva, tieni duro, ti porto da qualche parte, resisti.
La suora si intromise. I bambini non sarebbero potuti scendere dal traghetto per alcuna ragione. L’altra sponda implicava un cambio di provincia e la classe non aveva ricevuto il permesso di recarsi in gita fuori dai suoi confini. La suora spiegò che si trattava di inutile burocrazia, ma che comunque il bambino non avrebbe potuto calpestare il suolo di quella sponda.
Il ragazzetto scoppiò a piangere e guardò disperato il professore. Questi, in un moto di compassione, lo prese in braccio e corse giù dal traghetto:
– Molto bene, lo terrò in braccio, non calpesterà con un solo piede il suolo dell’altra provincia . Si tratta di burocrazia giusto?
Corse più che poté tenendo stretto il bambino che si contorceva, entrò in un bar, trangugiò un amaro per darsi coraggio, posizionò il bambino sulla tavoletta e gli lasciò sbrigare la faccenda. Finito riprese il bambino, lo caricò in spalla, gli comprò una caramella perché gli atti di eroismo vanno premiati e tornò sulla barca poco prima che lasciasse il molo.
Tutta la quarta C lo guardava esterrefatta.
– Ce l’abbiamo fatta! Urlò il bambino sventolando la caramella. La scolaresca inziò a saltare e applaudire. Tutti volevano sapere i dettagli dell’avventura e complimentarsi con il neo maestro, etichettato ormai come eroe assoluto. Grossman ebbe addosso quindici paia di occhi sbalorditi, sedici con quello della suora e sentì borbottare da qualcuno che una gita così eccitante non l’avevano mai fatta.
Tornati dall’altra parte, il maestro si sedette qualche minuto sulla riva del fiume. Era esausto. Subito gli si fece vicina tutta la classe.
– Guardate – disse uno – ci sono tre paperi che si avvicinano.
Il dottor Grossman chiese sorridendo:
– Quante zampe hanno i paperi?
– Due zampe signore!
– E tre paperi quante zampe hanno in tutto?
La lezione di matematica andò avanti per un’ora buona. Suor Teresina guardò sbalordita la scena. Quel dottor Grossman mostrava le zampe dei paperi e la classe non si perdeva mezza parola, non aveva mai visto i suoi studenti così attenti. Lì, tutti seduti tra le canne dell’Adda, con le montagne innevate davanti, il fiume che scorreva lento ai loro piedi, parevano quasi un dipinto impressionista e nessuno sentiva più il tempo passare, nemmeno il dottor Grossman, che non era riuscito a trasmettere né l’uguaglianza, né la diversità, né le implicazioni sociali delle scoperte leonardiane, ma che, come spiegava lui le moltiplicazioni, nessuno ci era mai riuscito.
5 commenti su “Misfatti e redenzione del dottor Grossman, insegnante radical chic”
Bentornato, dott Grossman.
Lettura molto piacevole.
…E così, la saggia praticità di Consolata ebbe la meglio.
Concordo: piacevole, acuta e istruttiva. Questi racconti li faccio sempre leggere ai miei nipoti. Mi spiace solo che la signora Melzi non scriva più spesso.
Questa del Leonardo pacifista che non progettava le armi per la guerra è proprio bella. Temo però che non sia invenzione, data la nostra scuola.
Penso che il dottor Grossman debba essere grato a Dio di avere la consolazione del buon senso di Consolata. Ma credo che sia un caso più unico che raro. Grazie all’autrice che ci mostra in bella prosa come la follia non sia nient’altro che follia.