Minima amoralia. Politeismo dei valori, fine dell’etica – di Roberto Pecchioli

di Roberto Pecchioli

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Signora mia, mancano i valori, non c’è più morale! Quante volte ascoltiamo questa frase, pronunciata con tono lamentoso, sospiro finale e scuotendo la testa come il buon signor Veneranda del mitico Bertoldo, il grande giornale satirico di un’Italia migliore.  L’affermazione, per quanto diffusa, non è veritiera. Infatti di valori ce ne sono anche troppi, in genere tra loro incompatibili, più spesso proclamati che praticati. Le morali in campo, a loro volta, sono tante davvero. E’ il dispiegamento di quel politeismo dei valori che Max Weber comprese per primo, come esito della secolarizzazione, del “disincanto del mondo” e dei primi sintomi delle società multiculturali. Il sociologo tedesco morì nel 1920, dopo la macelleria della primo conflitto mondiale che Ernst Nolte chiamò in seguito la prima guerra civile europea.

Quello che manca è un’etica condivisa, purtroppo, e, quanto ai valori, aspettiamo invano che vengano definiti.  Vale dunque la pena riflettere seriamente sul tema, a cominciare dal significato delle parole, in crisi quanto i concetti che pretendono di spiegare. Etica e morale, intanto, non sono sinonimi, per quanto spesso vengano utilizzati come tali, persino da filosofi professionisti come Umberto Galimberti (cfr. Psyche e Techne). Alain De Benoist centra perfettamente il punto nel suo Minima Moralia, per un’etica della virtù, da poco tradotto in italiano. Etica è termine di ascendenza greca, deriva da ethos, residenza, abitazione, rinvia dunque alla provenienza ed all’origine. Latina è invece la morale, da mos, costume, uso. L’etica parla di principi, la morale di valori, e non è distinzione da poco: l’essere contro il divenire, se vogliamo, la comunità di fronte alla società.

Non tutti condividono tale distinzione, qualcuno anzi la rovescia, ma ciò che si constata ovunque è il declino politicamente corretto della parola morale, screditata dal suo “ismo”, il moralismo, connotato in senso normativo e visto come una semplice fonte di divieti, specie di natura sessuale, formulati in un passato oscuro. Nel presente elaborato, l’uso dei due vocaboli sarà inteso nell’accezione proposta da De Benoist.  Comunque la si pensi, sia l’etica sia la morale rinviano alla dimensione del dovere, del sentimento collettivo e del primato della ragione comunitaria. Hegel contrastò la morale formale di Kant (moral), che trasforma l’essere in dover-essere, preferendo riferirsi all’eticità (sittilichkeit), concretamente determinata dalle tradizioni e dal modo di vivere storico sociale di una data comunità. Ovvio dunque che, per cause diverse, morale ed etica non godano di buona salute, in un tempo votato all’utilitarismo ed all’enfatizzazione dell’individuo, della prestazione personale, della performance. Nondimeno, dilaga una morale individualista, figlia e nipote dell’illuminismo di Hélvetius e dell’italiano Cesare Beccaria, nonché del franco pragmatismo britannico di Jeremy Bentham. Le concezioni della specie sono oggi vissute come giustificazioni teoriche del liberalismo, specie nel suo filone principale, quello dell’homo oeconomicus.

Dalla Favola delle Api di Mandeville in poi, transitando per il pensiero economico, i vizi privati diventano pubbliche virtù in quanto alimentano lo scambio di merci, ad avviso degli utilitaristi, tutti liberali, motore della vita e della stessa presenza dell’uomo nel mondo. Singolare coincidenza degli (apparenti) opposti, la liberazione degli istinti repressi è poi divenuto il tratto essenziale dell’etica francofortese, specie in Herbert Marcuse. Minima moralia, Meditazioni sulla vita offesa, è la celebre raccolta di aforismi di Thomas W. Adorno, in polemica con la grande etica (magna moralia) di Aristotele. Invero, ci si deve domandare se l’Homo oeconomicus non si trasformi inevitabilmente in Homo vacuus, vuoto, o meglio svuotato, prigioniero soddisfatto della mercificazione universale, sospeso nel vuoto interiore ed afflitto dalla perenne insoddisfazione che è motore del principio-consumo.

La morale, per questo tipo d’uomo, la maggioranza della post modernità, essendo votata all’utile individuale, declina rapidamente in deontologia, ovvero nella fragile, transitoria indicazione di come è bene, cioè utile, comportarsi nelle circostanze della vita, in base al ruolo ricoperto ed alle convenzioni correnti. Un esempio classico è Benjamin Franklin, e la sua moralina secondo cui onestà e dirittura non sono altro che attitudini vantaggiose, convenienti per stare in società, o meglio ancora, nel mercato. La morale, inoltre, non risponde più alle domande di senso, e più si estende, aspirando all’universalità sin dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo dei rivoluzionari francesi, più perde in profondità e concretezza. Poco senso, peraltro, ha una morale dei diritti, poiché la morale, e più ancora l’etica, attengono inesorabilmente alla sfera dei doveri, dei limiti, del foro interiore di ciascuna persona umana.

Tramonta l’etica, deborda la morale, al plurale. Quella facile, con il dito alzato e la fronte corrugata, di cui sono banditori il nuovo progressismo e, per disgrazia, la nuova chiesa cattolica non tanto apostolica e non più romana. Il rito argentino, anzi prescrive l’accoglienza indiscriminata, la misericordia obbligatoria, specie nei confronti di chi non la richiede e nega valore ai principi millenari, adesso divenuti negoziabili, quindi interpretabili. E’ in questione il cardine dell’etica cristiana, ovvero l’esistenza di principi basici, naturali, posti dal creatore e intelleggibili all’uomo attraverso retta ragione. La nuova morale cristiana, lo comprese un acuto pensatore marxista come Costanzo Preve è l’estremizzazione del discorso della montagna di Gesù, quello detto delle beatitudini, depurato dell’escatologia e della trascendenza. Per questo è così vicino alla sinistra culturale occidentale, il cui postulato essenziale è la propria superiorità antropologica, dedotta per la via della morale.

Già trent’ anni fa, Laurent Fabius, uomo politico francese socialista, molto vicino al Grande Oriente, affermava in tutta serietà “Ciò che ci separa dalla destra è la morale!” La sua carriera ebbe poi qualche intoppo per marachelle poco morali. La polarità economia-morale è stata puntualmente descritta come caratteristica dell’ideologia liberale da Carl Schmitt e prevede la squalifica, l’espulsione dal campo per indegnità (morale) di chiunque non si attenga ai nuovi totem e tabù, dal politicamente corretto alla mistica dei diritti individuali, dall’omosessualismo  all’antirazzismo, al multiculturalismo spinto, sino all’idolatria dell’Uguale, dell’Identico sorprendentemente unito al culto della bizzarria, dell’eccentricità individuale, purché ricompresa nella cornice  gradita ai Venerati Maestri. E’ una morale rovesciata come un guanto, il contrario esatto di quella precedente.

Arnold Gehlen denunciò per tempo il paradossale ipermoralismo dei tempi nuovi, volto a giudicare idee, fatti, comportamenti, principi in funzione della loro desiderabilità in base a vaghi codici ideologico-morali. Anche in questo si verifica un incontro tra il cristianesimo modernista ed il radicalismo liberalprogressista, sul doppio terreno di un’antropologia “debole” e di una politica che pratica senza sorprendersi l’eccesso di prescrizioni (norme antifumo, obbligo di vaccinazioni, salutismo esagitato, medicalizzazione di ogni aspetto della vita, psicologismo occhiuto) e il massimo indifferentismo etico, spacciato come libertà.

E’ in sostanza un nuovo modo di declinare le categorie schmittiane di amico e nemico in una prassi politica e comportamentale fondata su bene e male assoluti. L’assurdo logico è che se la diversità di principi e di valori è giudicata in termini di bene e di male, nessun dialogo è più possibile con il portatore di una diversa visione della vita. Egli è il “male”, va condannato in anticipo, quindi proscritto, estirpato, spesso con autentica violenza, simboleggiata nell’odio dei nuovi mazzieri dei social media, gli “haters”, odiatori di mestiere dal temperamento schizoide, alternanza di insulti e di “mi piace”, lo stupido, ma inevitabile verdetto di Facebook. Non è quindi per caso se sussiste una così diffusa intolleranza per le opinioni non conformiste, giudicate secondo il criterio della morale corrente, addirittura secondo le maggioranze mediatiche del momento. Fu sin troppo facile a Gustave Thibon, il filosofo contadino, stigmatizzare “questa spinta alla moralità senza un corrispettivo nei costumi, che rende l’uomo una specie di mostro separato da stesso” e fornisce la chiave delle enormi contraddizioni del nostro tempo.

Nel nuovo immaginifico mondo tutti, o quasi, si uniscono per predicare “il bene” senza fornirne alcuna descrizione.  Manca un identikit del Bene, il quale, come l’Araba Fenice, che vi sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa. Questo concetto tanto importante finisce in un cono d’ombra, o nell’empireo indefinito di quelli che Lèvy Bruhl chiamò i “valori metamorali”, quelli cioè teoricamente comuni a tutti epperò indimostrati. Diventa un coro assordante alla melassa, ma la bontà eccede solo nelle parole. Michel Maffesoli osservò che i nuovi araldi moralisti a gettone, usi a movimenti simultanei e veloci transumanze in base a mode o sondaggi, “non hanno morale, ma si servono della morale”. Con preciso intuito, proseguì affermando che la morale è diventata una sorta di valore quotato in borsa, su cui ci si industria a speculare. Un’industria del bene, che tuttavia non definisce mai i “valori” di riferimento, e fa benissimo, poiché non solo sono intercambiabili, ma diventano il lavaggio a basso prezzo (uno dei tanti low cost del tempo nostro…) della coscienza – infelice, come sapeva Hegel – in definitiva un trionfo dell’ipocrisia.

Di qui la voluta confusione tra morale e legge scritta, con il primato della cosiddetta “legalità”, la quale altro non è che l’adesione al potere politico, a sua volta semplice notaio delle mutevoli correnti di un’era instabile, il cui compito è realizzare la conformità del diritto ai costumi del momento (mores, donde il termine morale).  Idee, mode, valori che sorgono e decadono sono prodotti fungibili di mercato prodotti nella cucina delle oligarchie che hanno inventato la pentola che bolle (melting pot), ne alimentano ed orientano il fuoco e la direzione ogni giorno.

Sconcerta, e getta un’ombra pesante su intenzioni e fini dei suoi esponenti di punta, il cedimento drammatico alle nuove morali delle chiese cristiane, prima le protestanti, adesso quella cattolica. A ben vedere, anzi, si tratta della sostituzione della trascendenza con l’immanenza, e la trasformazione di questa in opinione. Dai principi, ovvero ciò da cui vi è origine, ai valori, quello che, appunto, vale nella borsa del momento. In fondo, il mercato delle azioni (un’altra parola dall’originario significato etico!) si chiama proprio Borsa Valori. Dio è in discesa, il titolo in Occidente è sospeso per eccesso di ribasso, la Democrazia, il Progresso, la Libertà sono in forte rialzo, ma vengono compravenduti i loro simulacri, i derivati del titolo originario, per usare il lessico vincente dell’economia finanziaria.

Come sul Mercato, nessuno sa chi possieda davvero i pacchetti azionari e che cosa rappresentino in concreto; ci si limita a scommettere sul loro valore futuro e si pongono a garanzia di altre transazioni. I valori, oggi, non sono che collaterali del Bene, sempre evocato, mai definito. Questa, in fin dei conti, è la straordinaria efficacia suggestiva della società di mercato: ognuno può attribuire a qualsiasi cosa il significato che preferisce, o nessun significato. E’ la morale corrente, pret-a-porter come gli abiti in vendita al centro commerciale, seguita entusiasticamente proprio per la sua vaghezza. Responsabilità, ripetiamo, dei (dis)valori borghesi, classe dominante dopo la tempesta di fine Settecento. Uno studioso francese ha potuto affermare che, per la loro genericità e per la loro desolante assenza di profondità i valori della borghesia – diventata estranea a se stessa dopo il Sessantotto – sono i primi nella storia a poter assunti da tutte le altre classi.

Non mancarono, a dire il vero, le buone intenzioni. Il vecchio Kant doveva sospettarlo, pur da solitario pessimo conoscitore del mondo, ristretto tra l’Università di Koenigsberg ed il tragitto verso casa percorso maniacalmente per decenni sempre agli stessi orari, allorché enunciava quella sua morale formale, astratta e tremenda, dedotta dalla ragione pura, ma così impalpabile e individuale – protestantica quanto era luterano l’illuminista tedesco – da perdere ogni significato. Il cielo stellato sopra di me (non Dio, solo il cielo!), la legge morale dentro di me, fatta di intenzioni virtuose, adesione ad un universalismo di cui oggi facciamo le spese. Trattare ogni uomo come fine e mai come mezzo è un programma vasto quanto indeterminato, del tutto inapplicabile nella società della somma algebrica di costi e benefici mercantili prospettata dai suoi amati Lumi. Ogni morale “universale”, infatti, per reggere, può sostenersi solo sull’astrattezza, il minimalismo, un edificio costruito su fondamenta leggere come piume per conformarsi all’Umanità e non all’uomo reale, quello che vive, soffre, gioisce e si incontra per la strada. Ma Kant inclinava alla misantropia,  dipendente in tutto dalle cure della sorella.

Quanto meno, il suo sistema era lontano dall’utilitarismo che avrebbe trionfato di lì a poco. Da Bentham in poi, il nuovo dualismo fu tra piacere e dolore, e la morale non doveva consistere che nel realizzare un mondo in cui offrire il piacere al massimo numero di esseri umani. Non che Aristotele, fondatore con Platone del pensiero occidentale, non l’avesse già proclamato: “E’ impossibile non tendere al piacere; quest’ultimo è dunque una condizione dell’esigenza morale” sta scritto nell’Etica Nicomachea.

Il sommo stagirita chiariva però che l’etica è un’esigenza, una tendenza profonda dell’essere umano, di cui il piacere è solo un elemento. Per i Greci, etico era il comportamento conforme al dettato della natura, l’armonia con il mondo che diventava bellezza, tutt’uno con la bontà. Alieno dagli eccessi, dall’arroganza che prescrive il rovesciamento delle leggi naturali, il greco esaltava una prudenza pratica (la phrònesis) che potremmo tradurre con equilibrio, rispetto, centro. L’obiettivo, l’ideale etico cui tendere era la virtù, quello che poi, in epoca cristiana, Tommaso d’Aquino avrebbe chiamato corrispondenza tra realtà ed intelletto (adaequatio rei et intellectus).

Negli ultimi due secoli, devastanti per il declino della civiltà pur nell’impressionante corsa della civilizzazione, ogni imperativo morale è stato al contrario travolto: dapprima il semplice utilitarismo, quindi la triste morale scientifica secondo cui è giusto ciò che si può realizzare e “funziona”, poi la sconcertante etica situazionale, cara agli ultimi francofortesi. Morale è fornire ragioni, dialogare, in ultima analisi discutere secondo un codice convenuto. L’etica della discussione di Karl Otto Apel, i cui significati incapacitanti erano già stati colti da Donoso Cortés a metà del diciannovesimo secolo: la sfibrante attitudine della nuova classe dominate, la borghesia, ad infinite discussioni senza decisione, un gomitolo tra le zampe del gatto che diventa groviglio senza capo né coda. Clase discutidora, fu la tranciante sentenza di Cortés, che pure in giovinezza fu attratto dalle sirene progressiste liberali.

Poi, nella Vienna della finis Austriae che terremotò l’arte, la musica, la scienza e l’economia, sorse l’astro di un nuovo cattivo maestro, Sigmund Freud, colui che screditò ogni morale e respinse l’etica traendo dal cilindro una mirabolante invenzione: la pulsione. Morale ed etica sono semplici reazioni difensive del Super Io, ovvero della coscienza repressiva annidata dentro di noi dalla società, la resistenza infelice ai desideri ed agli istinti dell’Es, la parte notturna, tenebrosa ed incomprimibile dell’animo nostro. Ecco la giustificazione perfetta, l’arma assoluta. Non c’è più morale, né responsabilità: causa del mio comportamento è l’Es, che ha agito spinto dalla necessità, dall’istinto della specie, dalla pulsione risolta e ridotta nell’ambito sessuale. Europei ed occidentali – famoso fu il trionfale viaggio in America a spiegare al nuovo mondo in ascesa la nuova pseudo scienza chiamata psicanalisi – da allora furono ridotti a centinaia di milioni di piccoli Hans, il bimbo impaurito dai cavalli da cui Freud dedusse il complesso di Edipo e la lotta contro il padre per il possesso sessuale della madre.

Ovvio che altri teorizzassero nuove morali antirepressive, a partire da Herbert Marcuse e Adorno, o che emergessero le posizioni di autentici folli come Wilhelm Reich o Georges Bataille. La sintesi del pensiero europeo degli ultimi settant’anni è quella di Jean Paul Sartre, tipico esponente della categoria degli uomini di potere dal comportamento opposto alle idee pomposamente esibite ex cathedra. “Ogni morale che oggi non si dia semplicemente come impossibile contribuisce alla mistificazione e all’alienazione degli uomini “. Liberi tutti, quindi, ciascuno se la cavi per suo conto, ricercando il piacere individuale. Ma non esiste alcuna morale, non diciamo un’etica, che non riguardi essenzialmente il rapporto con i nostri simili, i conspecifici umani, oltreché con il resto della natura (o del Creato).

Tutte le morali escogitate dall’uomo europeo ed occidentale da circa due secoli e mezzo sono una lotta contro la trascendenza e una giustificazione, diretta o indiretta, delle grandi narrazioni politiche, specialmente il vincente liberalismo. Principio di piacere, lotta per la sopravvivenza (struggle for life) in cui vince il più adatto, che è proclamato sul campo il migliore, talché il primato va inevitabilmente alla forza. Per quante maschere indossi il pensiero dominante, il suo nucleo fondante resta il predominio della forza, chiamata di volta in volta con nomi diversi, unita alla nuova devozione per l’universo degli istinti. Intronizzati gli istinti, deposta la prudenza greca e l’umanesimo, derisa ogni tensione religiosa, non resta che il piacere, il capriccio, la pulsione alla quale viene attribuito il nobile nome di diritto, unito all’altrettanto nobile libertà.

L’enorme contraddizione è che la libertà non può accettare limitazioni senza perdere se stessa, dunque non vi è ragione alcuna di considerare etico – o morale – il rispetto degli altri. Se il confine della mia libertà è quella altrui, prioritario non è il concetto di libertà, bensì quello di uguaglianza. E’ probabilmente questa l’irrisolta aporia di cui è prigioniera l’era terminale che stiamo vivendo. Contigua alla morale utilitarista è quella del “progresso”, ossia della conformità ad un nuovo universale indimostrato, la legge “naturale” dell’evoluzione. Non vi è chi non veda la giustificazione degli spiriti animali del liberismo economico (Keynes).

Singolare è altresì la convergenza tra le morali utilitariste e quelle scientifiche. Un esempio è il tabù dell’incesto, proibizione massima dei costumi sessuali, individuato come elemento comune a tutte le civiltà umane consapevoli (Lévi- Strauss), il quale non sarebbe, a dire dei moralisti “scientifici”, che la constatazione epigenetica dell’esito non conforme ad evoluzione dei figli generati tra consanguinei. Una pietra tombale su qualsiasi tensione o intenzione etica nell’essere umano: esiste solo l’egoismo evolutivo del gene.

La strada è impervia, stretto il sentiero al termine del quale si intravveda una radura. Non resta che percorrere con nuovo spirito le vie abbandonate. L’uomo di oggi non riesce più ad avere una relazione con l’eterno e neanche con lo spirito. Del resto, nessuno più lo insegna. Occorre essere maestri a se stessi, e tentare di fondare l’etica su fondamenta antiche e linguaggio contemporaneo. Pensiamo all’etica della virtù, l’unica che guarda in alto, la sola che, tendendo all’eccellenza delle persone, possa costruire una comunità dotata di senso, moralmente orientata.

Forse è il caso di ripartire da Goethe, e dal suo noto aforisma secondo il quale “il senso della vita è la vita stessa”. Possiamo leggerlo come un gioco di parole, ovvero come la liquidazione di ogni pensiero finalistico, teleologico nel vocabolario oscuro dei filosofi. Ma possiamo anche recuperarne la vitalità e la potenza. Secondo il grande tedesco, dunque, un senso ce l’ha questa vita così strana, e sta nella domanda inevasa che rimbalza in Occidente da due millenni e mezzo, Parmenide, Aristotele, e poi Leibniz, Heidegger. Perché c’è l’Essere (la vita) e non il Nulla? Con Goethe, ritorna quindi la vita come fine, quindi la riproduzione sociale, il senso etico e poi morale dell’esistenza, arco proteso verso il futuro, trasmissione, adesione al progetto della natura. Un fiume carsico che non può non aver influenzato Heidegger ed il suo Esserci (Dasein), l’essere-qui-adesso e non soltanto, come in un’altra piega del pensiero dell’uomo di Messkirch, l’essere-per-la-morte. Risorge il concetto di “cura”, (sorge), l’apriori esistenziale che guarda al di fuori di sé e prende posizione soffrendo.

Certo, anche dalle presenti note, risulta chiaro come ogni discorso sull’etica (ed anche sulla morale) sia una rincorsa vana, una sorta di fatica di Sisifo, per sostituire, nell’Occidente ben più che ateo, l’idea di Dio, espulso dall’orizzonte del pensiero. La stessa idea di persona, e del rispetto assoluto che le si dovrebbe, liberata da qualunque intento o speranza trascendente, diventa parola vuota. Lo dimostra la pacifica accettazione dell’aborto, che di per sé non significa affatto legittimazione morale dell’omicidio, bensì impossibilità di dare un significato condiviso, appunto, all’idea di persona. Simmetricamente, è ormai passata anche l’idea di eutanasia, collegata al principio di qualità della vita, idea postmoderna dai confini incerti e di straordinaria pericolosità antropologica, per i suoi agganci con l’eugenetica e per il terribile combinato disposto con il vincente principio di legalità (“è scritto nel codice della legge”), che ha sconfitto quello di legittimità, figlio dell’idea di Bene e di conformità alla natura.

I fatti, purtroppo, ci dicono che siamo ampiamente fuorusciti dalla strada tracciata dal grande pensiero greco accolto dall’etica cristiana. Per questo, occorre tentare l’ultima carta, la rifondazione etica attraverso il ritorno dell’idea di virtù. Prospettata per primo da Alasdair Mc Intyre nel suo fondamentale “Dopo la virtù”, cercheremo di tratteggiarla sommariamente nella seconda parte di questa riflessione.

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1. (continua)

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