Memoriae tradere. L’insurrezione abruzzese –  di Domenico Rosa

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.MEMORIAE TRADERE. Rubrica del sabato, a cura di Pucci Cipriani

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Ormai, come si dice in Toscana, dalle mie parti, nel Mugello, “siamo alle porte coi sassi”, nel senso che da venerdì 11 marzo della prossima settimana inizierà il Convegno della tradizione Cattolica presso la “Fedelissima” Civitella del Tronto e fino a domenica 13 gli uomini  della Tradizione si incontreranno nella gloriosa Roccaforte borbonica, un luogo pieno di memorie e di storia. Da oltre quarant’anni ci rechiamo a Civitella del Tronto uniti nella preghiera, nel ricordo di tutti martiri della Tradizione, per dibattere i temi di attualità alla luce della Dottrina Cattolica, per continuare il nostro lavoro di “revisione storica” iniziato tanti, tanti anni fa, per dare testimonianza della nostra fede. A Civitella del Tronto hanno “messo le ali” tanti nomi prestigiosi della cultura, allora giovanissimi: Francesco Pappalardo che, ancora ragazzino, fece le prime conferenze su “La Conquista del Sud” e su Giuseppe Garibaldi, lo stesso Massimo Viglione divenuto poi il massimo storico delle Insorgenze, Elena Bianchini Braglia, che pubblicò il suo primo libro con la presentazione della Contessa Leonisa Bayard de Volo, anche Lei “fedelissima” degli Incontri di Civitella, insieme a storici e Maestri affermati come Massimo de Leonardis, Roberto de Mattei, Carlo Alberto Agnoli, Fulvio Izzo…

Grazie all’aiuto dell’On. Fabrizio Di Stefano, che volle creare un Premio Letterario, un nuovo gruppo di storici, letterati, saggisti nacque a Civitella e, tra questi, il nostro amico Domenico Rosa, collaboratore di “Riscossa Cristiana”, del quale anche questa volta, nella rubrica “Memoriae Tradere”, vogliamo pubblicare un saggio sul così detto “brigantaggio” in Abruzzo, la sua terra natale. Lo pubblichiamo come omaggio di Domenico, che attualmente si trova a Roma, dove ha abbracciato un percorso di vita religiosa,ai convegnisti di Civitella che nei giorni di venerdì 11, sabato 12 e domenica 13 marzo 1976 si ritroveranno, giungendo da tutta Italia, su quella Rocca fedeli al motto “Etismsi omnes ego non”.

Pucci Cipriani 

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L’ Insurrezione abruzzese

di Domenico Rosa

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All’indomani dell’unificazione contadini e braccianti meridionali si ribellarono alla politica di pesante tassazione imposta dai nuovi governanti piemontesi. Esplose nel Mezzogiorno una ribellione violenta e sanguinaria per contrastare l’annessione al nuovo Regno d’Italia, definita, per opportunismo politico, brigantaggio.

Col termine brigante si volle marchiare d’infamia chi combatté sotto la propria bandiera nazionale. A dirlo non è un nostalgico neoborbonico, ma il deputato Giuseppe Ferrari nel suo intervento al Parlamento di Torino nel novembre del 1862[1].  Non riconoscere a chi si trova sul fronte opposto alcuna dignità politica, attingere a quel repertorio di parole che definisca l’altro ora “barbaro”, ora ‘brigante’ è il metodo più semplice e antico di demonizzare l’avversario e insieme legittimare se stessi. “Nel Meridione si verificò in anticipo – scrive Arrigo Petacco – quanto accadrà dopo l’armistizio del 8 settembre 1943, quando i soldati italiani, abbandonati dai loro comandi, si rifugiarono sulle montagne per accendere i primi fuochi di resistenza. Non a caso, anche i tedeschi li chiamarono briganti o banditi invece che patrioti. Lo stesso capitò ai soldati borbonici”[2]. Il deputato radicale Giuseppe Ferrari afferma con estrema lucidità: “I padri di questi briganti hanno riportato per due volte i Borboni sul trono di Napoli […]  È possibile, come il governo vuol far credere, che 1.500 uomini comandati da due o tre vagabondi possano tener testa a un intero regno, sorretto da un esercito di 120.000 regolari? Perché questi 1.500 devono essere semidei, eroi!”[3].
Il Regno del Sud non era sicuramente l’Eldorado, ma è innegabile l’attaccamento del popolo al sovrano. Se ne ha la prova quando nel corso del XIX secolo le terre meridionali furono invase ripetutamente e il popolo reagì sempre con un sussulto identitario, che alimentò un sentimento di diffidenza nei confronti dello straniero e che spinse alla difesa di una dinastia diventata indigena dopo oltre un secolo di dominazione[4]. Prima dei Piemontesi furono i Francesi a penetrare nell’Abruzzo nel 1798; le città, tranne una tenue resistenza del capoluogo, caddero senza colpo ferire, ma immediatamente le genuine popolazioni si organizzarono per la riconquista, spronate dal sovrano Ferdinando IV con un accorato appello: “Io accorrerò tra breve con un forte e numeroso esercito a difendervi, ma intanto armatevi e opponete all’inemico, nel caso avesse l’ardimento di passare i confini, la più valida e coraggiosa difesa. […] Pensate che voi avete a difendere il vostro paese, che la natura stessa difende colle vostre montagne, dove nessuna armata si è mai avanzata senza trovarvi il sepolcro. Coraggio bravi Sanniti, coraggio paesani miei, armatevi, correte sotto i miei stendardi, unitevi sotto i capi militari che sono nei luoghi più vicini a voi, accorrete con tutte le armi, invocate Iddio, combattete e state certi di vincere”[5].

zzzzbrg1In pochi mesi le truppe francesi, entrate a dicembre, abbandonarono l’Abruzzo, tra la fine di aprile e i primi di maggio. Anima della vittoriosa insorgenza fu Giuseppe Pronio, coraggioso capo-massa di Introdacqua, che si distinse nella riconquista di Pescara e inflisse due ferite al generale Duschesme nella gola di Castel di Sangro. Ma i francesi tornarono pochi anni dopo, sulla scia dei successi napoleonici. Il Bonaparte, celandosi abilmente dietro le grandi idealità della rivoluzione, diede luogo ad una sorta di familismo amorale, spartendo i regni conquistati tra i suoi congiunti: al fratello Giuseppe affidò il Regno di Napoli. Mentre l’avanzata francese procedeva inesorabile, le uniche fortezze resistenti rimasero, come avverrà più tardi con l’invasione piemontese, Gaeta e la piazza abruzzese di Civitella del Tronto. Quest’ultima, comandata dal generale irlandese Wade che, senza esitazioni, rifiutò la resa intimata dai francesi e assieme al capo-massa Sciabolone, pianificò determinate azioni di guerriglia. Le truppe francesi innervosite dall’accanita resistenza bombardarono la città, ma senza ottenere risultati, cosicché, la notte tra il 15 e il 16 aprile del 1806, si risolsero ad un attacco generale. L’attacco fu respinto dagli abitanti, ben sostenuti dalla guarnigione del forte. Soltanto con l’arrivo del generale Saint-Cyr le sorti volsero a favore dei francesi. Lo spietato generale ordinò di indirizzare tutti gli sforzi, non già contro il forte, scarsamente vulnerabile, ma contro la città, che costituiva il punto debole dell’intero sistema difensivo. Inoltre Saint-Cyr dispose che tutti gli abitanti colti con le armi in mano, dopo la presa della città, fossero immediatamente giustiziati.

Dopo pochi decenni la storia si ripete, e questa volta a porre l’assedio saranno i Piemontesi. Civitella risponderà con il solito eroismo, tanto da guadagnarsi l’appellativo di Fedelissima. Siamo nel marzo del 1861, ormai anche la fortezza di Gaeta è caduta, e il sovrano Francesco II è costretto a riparare nello Stato Pontificio. I soldati e i popolani si battono valorosamente, la regina Maria Sofia ricama per loro una scritta d’oro sul vessillo borbonico: “Senza speranza”, il motto dell’onore. “Qui non c’è vanità, non c’è successo, non c’è ambizione: Ieri forse poteva sembrare più nobile, più alta la parte di là, ma oggi c’è con noi la sventura, e questa è la parte più bella. Perché sopra noi ci possiamo scrivere: Senza speranza”[6]. La spietatezza con cui i Piemontesi agirono è testimoniata anche dalle parole del proclama del generale Pinelli: “Un branco di quella progenie di ladroni ancora si annida sui monti: correte a snidarlo e siate inesorabili come il destino. Contro nemici tali la pietà è un delitto; vili e genuflessi quando vi vedono in numero; proditoriamente vi assalgono alle spalle quando vi credono deboli; e massacrano i feriti. Indifferenti ad ogni principio, avidi solo di preda e di rapina, ora sono i prezzolati scherani del Vicario non di Cristo ma di Satana, pronti a vendere ad altri i loro pugnali, quando l’oro carpito alla stupida credulità dei loro fedeli non basterà più a saziare le loro voglie”[7]. Lo stesso sadico e spietato generale, una volta occupato il paese di Pizzoli in provincia de L’Aquila, fece fucilare il farmacista Alessandro Cicchitelli e sua moglie Marietta – che l’avevano accolto nella propria dimora – solo perché possedevano in un cassetto della casa il ritratto di Francesco II.

La piazzaforte di Civitella cadrà il 20 marzo, quando l’annessione a favore dello Stato Sabaudo era già stata votata tramite plebisciti-farsa, voluti da Vittorio Emanuele II. L’intento del monarca era quello di giustificare l’ingiusta aggressione come conseguenza della volontà popolare. Quando avvenne il plebiscito, il 21 ottobre 1860, il re si trovava proprio in Abruzzo, a Castel di Sangro. Alla sua presenza si svolse la votazione, in piazza dei Cannavini, poi ribattezzata, come altre innumerevoli piazze d’Italia, del Plebiscito. Al voto fu ammesso l’intero Esercito Meridionale, formato in zzzzbrg2maggioranza da piemontesi e da stranieri. I sudditi delle zone ancora presidiate dall’esercito napoletano non poterono votare, come non votarono gli stessi soldati regi che ne avevano diritto. La segretezza dell’urna fu regolarmente violata e non mancarono pressioni psicologiche oltre che naturalmente fisiche. I risultati pro-annessione nel meridione continentale furono schiaccianti: 1.034.258 “Sì” contro 10.327 “ No”. Ma le eccezioni in Abruzzo non mancarono, come a Quadri, nella parte meridionale, dove fu effettuato un vero e proprio sabotaggio. L’orgogliosa popolazione era largamente favorevole al “No”, così al momento di aprire l’urna furono rinvenuti 619 acini d’orzo in luogo dei bollettini[8]. A Caramanico, invece, il plebiscito non si svolse a causa dei tafferugli provocati da Camillo Colafella di Sant’Eufemia, che assieme ad altri facinorosi saccheggiò e devastò la città nei giorni 21-22-23 ottobre, con incursioni anche a Salle, Musellaro e Sant’Eufemia allo scopo di ripristinare il governo dei Borboni; successivamente fu ucciso per vendetta il capitano della guardia nazionale di Pacentro[9]. Nella splendida cornice di Civitaluparella, uno dei tanti “presepi” abruzzesi, sorprendentemente il “No” ebbe la meglio. Su 280 iscritti ne votarono soltanto 120, le cui preferenze risultarono 43 “Sì” e 77 “No”[10]. Già prima dei plebisciti, però, agli inizi del mese di settembre, in diversi punti del Regno emersero ed operarono attivamente bande di contadini accanto all’esercito napoletano, buona parte delle quali furono successivamente accorpate alle truppe regolari al servizio di Francesco II[11]. L’episodio più clamoroso si ebbe a Isernia, all’epoca negli Abruzzi, dove reparti borbonici e masse contadine sconfissero i corpi volontari ed una colonna garibaldina, spazzarono le strutture statali improvvisate dagli unitari, massacrarono le famiglie borghesi in fama di liberalismo, ripristinarono velocemente autorità e simboli dell’antico potere[12]. Alle ribellioni generalizzate il nuovo governo rispose con la più spietata repressione e nel 1863 emanò la famigerata legge Pica, dal nome del deputato abruzzese che la propose. Questa legge prevedeva la fucilazione immediata per chiunque venisse colto con le armi in pugno e l’istituzione di giunte provinciali di sicurezza, atte alla compilazione degli elenchi delle persone da inviare al domicilio coatto, tra i quali favoreggiatori e manutengoli. L’autorità passava dunque dai tribunali civili a quelli militari che sulla base di un mero pettegolezzo decretavano la pena capitale o addirittura la deportazione di anziani, donne e bambini. Ne è un esempio la fortezza di Fenestrelle, nella Val Chisone. La stampa dell’epoca commentava esterrefatta: “Se funesta e draconiana è la legge Pica, peggiore assai è l’applicazione che si fa della medesima nelle nostre province. Le disposizioni ministeriali date posteriormente hanno accresciuto il rigore di essa legge, e quindi agenti governativi, arrestano la gente in massa, in barba alla libertà e alla giustizia”[13]. La repressione di questa grande insorgenza risulterà nella realtà dei fatti come una vera e propria campagna di guerra, lunga e spietata, che solo per ragioni di opportunità politica sarà definita, sia dai governanti dell’epoca, sia dagli storici brigantaggio.

zzzzbrg3Non c’è dubbio che un certo tipo di malcontento rurale fosse endemico in quelle regioni, ma ora la popolazione, oltre alla consueta esosità dei proprietari terrieri, doveva sopportare anche i nuovi balzelli imposti dal governo piemontese[14]. Come per esempio la “legge sulla Vendita delle Terre Demaniali”, che priverà i contadini degli usi civici, fino a quel momento usufruiti (pascolo, taglio della legna, raccolta di bacche), l’impopolarissima tassa sul macinato da versare direttamente ai mugnai e l’istituzione della leva obbligatoria, molto mal vista dalla popolazione, tanto che spesso i chiamati andavano ad ingrossare le file brigantesche. Ne è un caso quello di Geremia Rosa di Sante Marie (AQ), il quale denunciato per insolvenza agli obblighi militari dall’Antonini, signore a cui prestava servizio, si diede alla macchia, organizzando una banda. Per vendicarsi dell’accaduto sequestrò il suo padrone e si racconta che gli rivolse la seguente frase: “Eh patrò, vidi comme so più bono j che tu?! Tu me si fatto zompà dalla finestra e j te so fatto escì dalla porta”; successivamente lo condusse in mezzo alle montagne che da Tagliacozzo si estendono fino a Vallepietra. L’Antonini verrà liberato dietro la somma di un ingente riscatto e la banda di Geremia Rosa sarà sgominata nel 1871 dal carabiniere piemontese Chiaffredo Bergia[15].
Accanto ai loro uomini che si davano alla macchia ebbero un ruolo di rilievo anche le donne abruzzesi, sicure confidenti ed informatrici. Con scaltrezza si muovevano inosservate, riferendo preziose notizie sui movimenti dei carabinieri e portando munizioni sotto le loro ampie sottane. Queste, però, a differenza di quelle lucane, pugliesi o calabresi, non parteciparono agli scontri armati, ma rivestirono soltanto un ruolo logistico, come vivandiere, infermiere e porta ordini[16]. Ricordiamo una di loro, detta “la mamma dei venti”, operante nei pressi del territorio di Borrello (CH). A questo nomignolo, come afferma lo studioso locale Eugenio Maranzano, si possono dare due interpretazioni: o “mamma dei vénti”, perché tanti erano i briganti a cui faceva da vivandiera, o “mamma dei vènti”, in quanto si spostava con incredibile velocità[17]. Ma ciò che è importante sottolineare è come nel brigantaggio non ci fosse solo un fattore di malcontento sociale, ma anche una forte componente legittimista, intesa come rivendicazione identitaria e come ribellione contro il capovolgimento di un sistema di valori[18]. Infatti, i primi ad ingrossare e spesso a formare bande di briganti saranno proprio ex soldati ed ex sottoufficiali borbonici[19], al contrario dei loro comandanti che si integrarono alla perfezione nell’esercito piemontese, mantenendo lo stesso grado e soprattutto la stessa paga[20]. Cosicché le bande brigantesche assunsero una vera e propria fisionomia di reparti militari, organizzati a somiglianza di quelli del disciolto esercito borbonico. Particolarmente attive furono le bande in azione ai confini dello Stato pontificio, nel cui territorio trovarono sicuro appoggio e rifugio. A Palazzo Farnese, nella Roma ancora papale, fu istituito il centro operativo borbonico, dove assieme al sovrano Francesco II si perseguiva tenacemente il disegno di riconquista del perduto regno[21].

zzzzbrg4Tra i briganti abruzzesi più temuti ricordiamo Antonio La Vella, alias Scipione, ex soldato dell’esercito borbonico, protagonista di numerose scorribande assieme ai fratelli Felice e Giuseppe Marinucci. La loro banda, detta dei Sulmontini, operò nella valle Peligna. A Pacentro, invece, fu molto attiva la banda capeggiata da Pasquale Mancini, detto Mercante, che assieme a Luca Pastore di Caramanico si spingerà nei territori più impervi della Majella e con rapide incursioni e inneggiando ai Borboni, saccheggerà e devasterà Pretoro, Pennadiedimonte e Roccacaramanico. Dopo la cattura di Pastore, avvenuta nell’ottobre del 1862, e la scomparsa di Mancini, i briganti della Majella saranno capeggiati da Nicola Marino sul versante occidentale e da Salvatore Scenna e Domenico Di Sciascio sul versante orientale[22]. Degni di nota sono Domenico Valerio, alias Cagnotto, contadino di Casoli, che evaso dal locale carcere diventerà il “più famigerato brigante della provincia” e nell’aquilano Primiano Marcucci di Campo di Giove, Croce di Tola e Nunzio Tamburrini di Roccaraso[23]. Infine, ricordiamo Vincenzo Rosa di Quadri, accusato di “aver promosso la reazione” dal 1860 al 1866 e di aver fatto parte della banda del nipote del famoso brigante Chiavone[24]. Così si esprimeva l’allora sindaco del piccolo borgo in provincia di Chieti, Camillo D’Amico, in una nota informativa al Sottoprefetto di Lanciano: “Sul conto di Vincenzo Rosa di Quadri, le manifesto quanto appresso: Nella reazione avvenuta in questo Comune nel 1860, il Rosa vi ebbe molto parte, anzi ne fu il promotore, perché borbonico. Accorsa la truppa per sedarla, come in effetti fu sedata, il medesimo temendo di essere arrestato si allontanò dal paese, ricoverandosi a Roma, che in quel tempo era il rifugio dei reazionari”[25]. Nel giugno del 1862 partecipò all’attacco di Gamberale dove, afferma il consigliere anziano Raffaele Bucci, “[Il Rosa] faceva parte della banda brigantesca comandata dal nipote di Chiavone quando nel 1862 assalì questo Comune e ne fu respinto”[26].

Dopo più di un decennio di latitanza, soltanto nel maggio del 1872 Vincenzo Rosa sarà arrestato a Napoli e condotto nelle carceri circondariali di Lanciano.
La dura repressione seguita all’unificazione italiana è descritta perfettamente da Antonio Gramsci: “Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti”[27].

La tenacia e la fedeltà al proprio re consentirono la prosecuzione della battaglia pro borbonica. A emblema della resistenza che fu, è rimasto nelle memoria collettiva un vecchio proverbio che si riferisce alla testardaggine degli abruzzesi: “La coccia n’cim o’ cipp, viva Francisc!” (Anche sul patibolo viva re Francesco).

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[1]     Citato in P. K. O’Clery, La Rivoluzione Italiana, come fu fatta l’unità della nazione, Milano, Ares, 2000, pp. 508-510.

[2]     A. Petacco, O Roma O Morte, Milano, Mondadori, 2010, pp. 10-11.

[3]     In P. K. O’Clery, op. Cit. pp. 508-510.

[4]     A. Scirocco, Il brigantaggio e l’Unità d’Italia, in Brigantaggio lealismo repressione nel Mezzogiorno 1860-1870, Napoli, Macchiaroli, 1984, p. 20.

[5]     Citato in R. Canosa, Storia dell’Abruzzo in età borbonica, Ortona, Menabò, 2005, pp. 180-181.

[6]     C. Alianello, L’Alfiere, Venosa, Osanna, 1943 p. 429.

[7]     G. Maffei, M. de Leonardis, P. Cipriani, La fedelissima Civitella del Tronto. L’ultimo baluardo del Regno delle due Sicilie, Firenze Controrivoluzione, 2006, p 26.

[8]     Archivio di Stato di Chieti, Risultati dei plebisciti del 1860, cfr. anche E. Maranzano, Borrello, tra i vicini paesi della Val di Sangro, Casoli, 1998, p. 260 e G. O. D’Amico Quadri un paese del medio Sangro, Sanbuceto, Edizione Quale dita 2006, p.76.

[9]     Archivio di Stato di Chieti, Risultati dei plebisciti del 1860.

[10]    Ibidem.

[11]    Cfr. F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1964, pp. 12-21.

[12]    Cfr. A. Scirocco, Il brigantaggio e l’Unità d’Italia, in Brigantaggio lealismo nel mezzogiorno, 1860-1870, cit, p. 20.

[13]    Citato in L. Torres, Il Brigantaggio nell’Abruzzo Peligno e nell’Alto Sangro, Alessandria, Majella, 2001, p. 124.

[14]    Cfr. A. Petacco, O Roma O Morte, cit. p. 10.

[15]    C. Zocchi, I Carabinieri nella lotta al brigantaggio post-unitario in Abruzzo, Presidenza del Consiglio della Regione Abruzzo, Teramo, 1998, p. 49.

[16]    L. Torres, Il Brigantaggio nell’Abruzzo Peligno e nell’Alto Sangro, cit. p. 125.

[17]    E. Maranzano, Borrello, tra i vicini paesi della Val di Sangro, p. 263.

[18]    Cfr. S. Lupo, Il grande brigantaggio. Interpretazione e memoria di una guerra civile, in Storia d’Italia, Annali 18, Guerra e Pace, a cura di W. Barberis, Torino, Einaudi 2002, p. 468.

[19]    Cfr.  A. Scirocco, Il brigantaggio e l’Unità d’Italia, in Brigantaggio lealismo nel Mezzogiorno, 1860-1870, p.20.

[20]    Cfr. A. Petacco, O Roma O Morte, cit. p.10.

[21]    L. Torres, Il Brigantaggio nell’Abruzzo Peligno e nell’Alto Sangro, cit. p. 126.

[22]    A cura di C. Viggiani, Brigantaggio Ottocentesco in Abruzzo, Archivio di Stato Chieti, pp. 27-28.

[23]    Ibidem pp. 47-48.

[24]    Archivio di Stato Sezione di Lanciano, Sottoprefettura, Busta 152/2-1.

[25]    Ibidem

[26]    Ibidem

[27]    A. Gramsci, da Ordine Nuovo, 1920.

1 commento su “Memoriae tradere. L’insurrezione abruzzese –  di Domenico Rosa”

  1. Uh che bell’articolo.
    Grazie.

    Da abruzzese, non conoscevo neanche la metà delle cose descritte. La scuola era troppo impegnata a decantarmi la bellezza di Garibaldi e Mazzini, prima che la mia coscienza, da daulto e cristiano, si svegliasse e iniziasse a vedere il male dello stato italiano.

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