Al Meeting di Rimini impazza il ’68. Si potrebbe dire che sia il vero protagonista della manifestazione riminese. Un protagonista all’insegna della nostalgia e dell’amarcord, come se fosse una rimpatriata tra vecchi indossatori di eskimo anziché la kermesse di quello che un tempo era considerato un movimento cattolico “integralista”. E in effetti forse è proprio questa voglia matta di essere accettati e accreditati dal mondo che muove CL a rimpiangere i “bei tempi” delle contestazioni e delle okkupazioni. Un ’68 mitizzato e selezionato, in un Meeting assolutamente dimentico di altri avvenimenti e personaggi di quell’anno terribile, che avrebbero meritato da parte di CL un ricordo con incontri o mostre, come l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, la strage di Città del Messico che venne testimoniata da Oriana Fallaci, la morte di Padre Pio, l’uscita dell’Enciclica Humanae Vitae e il polverone di polemiche e contestazioni da parte del progressismo teologico e la nascita del “Dissenso” all’interno dello stesso mondo cattolico. Volendo si poteva anche ricordare uno dei momenti più esaltanti del ’68 per lo sport italiano, cioè i due titoli mondiali pugilistici conquistati da Benvenuti e Mazzinghi.
Invece questo Meeting dal sapore peace and love privilegia la nostalgia e il rimpianto per la rivoluzione mutilata. Così non può stupire l’intervento, ieri sera, di Aldo Brandirali, fondatore di uno dei movimenti più estremisti di quei “formidabili” anni: Servire il popolo, poi convertito al Cristianesimo in seguito all’incontro con don Giussani. Del suo periodo rivoluzionario pregiussaniano, comunque, Brandirali tuttavia non butta via niente, come col maiale. “Se non avessi fatto il ’68 pieno di domande, di contraddizioni, di fallimenti, non corrispondente con i bisogni e il reale – ha detto al pubblico – non avrei incontrato don Giussani che trentasei anni fa mi ha fatto il dono di Gesù, che restituisce me a me stesso”.
Brandirali racconta che da piccolo frequentava l’oratorio, il papà lo mandava in chiesa, faceva il chierichetto, ma qualcosa non lo convinceva; non lo convinceva – dice- “soprattutto il moralismo dominante e bacchettone del periodo”. Eccola qua una delle parole magiche di CL: moralismo. Quante volte la si è sentita negli scorsi anni, in particolare di fronte alle obiezioni su comportamenti politici o affaristici “disinvolti” da parte di esponenti del Movimento: non facciamo i moralisti. E così tutto era concesso e permesso. Ovviamente, per Brandirali la “Chiesa moralista” era quella dei sacerdoti con la tonaca, che insegnavano il catechismo e le preghiere, la Chiesa di sempre.
Durante la rivoluzione studentesca, Brandirali ha 27 anni. Fa prima l’operaio, poi il sindacalista, il militante del partito comunista, poi è curatore del giornale “Servire il Popolo”. È in questo periodo che scoppia la voglia di rompere col passato e incominciano a germinare le domande sulla vita, sul significato dell’esistenza, sul senso comune degli uomini e della storia. Aggiunge: “Anche la partecipazione nella ‘comune’, dove mettevamo insieme i soldi per gli ideali, era il tentativo per dare risposte utili alla gente, era il nostro modo di servire il Popolo; dopo un po’, però, mi sono accorto che non avevo riferimenti culturali”.
Il ’68 ha rappresentato uno spartiacque nei rapporti fra figli e genitori. “Ci chiedevamo – prosegue Brandirali – quali fossero i punti in comune con i nostri padri, contestavamo il loro modo di pensare e agire, era il periodo della lotta fra la classe operaia e quella borghese”. Era il periodo delle teorie marxiste, del popolo sfruttato contrapposto agli sfruttatori, del popolo come massa contro la classe borghese, proletariato contro capitalismo.
Anche in questi anni, Brandirali non si ferma, si interroga, è alla ricerca di risposte, è critico contro le sue stesse idee. Le risposte arrivano agli inizi degli anni Ottanta, quando incontra don Giussani. “Di lui – dice – mi ha colpito profondamente il suo approccio con la realtà. Quando l’ho visto per la prima volta mi ha detto ‘Aldo, che entusiasmo, che passione!’”. La conversione è un cammino lento e ci vuole tempo per capire, dice. Intanto riprende a fare politica e segue il Movimento che sceglie di schierarsi con Berlusconi. Da Servire il Popolo a servire Mediaset.
Decide quindi di lasciare definitivamente la politica. Oggi si definisce un educatore. “Oggi posso dire che, come nel ‘68 si può servire il popolo, ma in un modo diverso. Oggi servire il popolo, per me, è servire Cristo, il vero Amore. Il pensiero moderno ti dice che c’è contraddizione fra l’io e il tu. Invece ho imparato che non c’è contraddizione, è la stessa cosa. Cristo è rivoluzionario, la battaglia per l’affermazione dell’amore è faticosa, ma lascia una bellezza e un gusto di vivere unici”.
Molto più pragmatico l’intervento due ore dopo, nell’Auditorium Intesa Sanpaolo (ah, questi sponsor), di Mario Calabresi, il direttore di “Repubblica”.
Il direttore risponde alla domanda sul cambiare il mondo prendendo le mosse dall’impressione che Marchionne gli riferì aver avuto dal Meeting: “Ho visto dei giovani con un’energia negli occhi che non credevo possibile”. Passa poi all’esempio di sua zia, che partecipò alla prima occupazione, alla Statale di Milano, nel ’67; vista la piega che presero gli eventi (dimostrazioni, scontri) la zia, laureatasi medico, decise di andare a fondare un ospedale in Uganda; fece la lista nozze indicando come regali il necessario per il piccolo ospedale (una stanza nella savana) si sposò e partì col marito. Calabresi, tornato dopo 45 anni a vedere cosa avesse prodotto quella lista di nozze, ha trovato un ospedale che (tra l’altro) assiste diecimila parti l’anno: “Questo significa andare ad aiutarli a casa loro; non è sbagliato dire aiutiamoli a casa loro, bisogna però poi anche farlo”. Non poteva mancare, evidentemente, la stoccata alla Lega.
L’aneddoto della zia è comunque significativo: come un tempo ci si vantava di qualche parente che aveva partecipato alla Marcia su Roma, così ora fa col vantare qualche congiunto che abbia “fatto il ’68”. Calabresi poteva anche non chiamare in causa la zia: anche suo padre infatti era stato protagonista di quegli anni, dalla parte però delle forze dell’ordine, e dell’onda lunga della rivoluzione rimase drammaticamente vittima. Ma Mario, come l’Alice di De Gregori, tutto questo non lo sa. In compenso Calabresi Junior spiega che negli anni ’60 nacque il consumismo, nemico dell’”autenticità”.
La giornata sessantottesca si è conclusa con la presentazione dell’autobiografia del cardinale Angelo Scola, al suo ritorno al Meeting dopo anni di assenza, dovuta a gravosi impegni pastorali. Scola ha dato un piccolo saggio del suo pensiero teologico-antropologico, con chicche come la locuzione che segue, in cui il cardinale del “meticciato culturale” espone in maniera limpida la sua visione del momento presente: “E’ un’epoca che definirei della post-secolarizzazione: si è interamente compiuto il processo di negazione della possibilità che un Fatto particolare, un Uomo, sia la ragione e il senso di tutto. L’esito finale è il nichilismo, un problematicismo radicale e la censura delle domande e del dialogo sul senso della vita. Occorre rialzare lo sguardo, non soffocare l’attesa di una novità di vita, poterla incontrare e sperimentare”. Non manca un significativo giudizio sull’attuale pontificato: “Lo stile è l’uomo – prende a dire Scola – e Francesco ha uno stile molto personale e sorprendente per noi. La sua elezione è stata un salutare pugno nello stomaco per noi, membri di chiese europee spesso stanche e poco vivaci. Il ministero di papa Bergoglio è fatto di gesti, linguaggio, esempi, senso di appartenenza al popolo (el pueblo fiel) che costituiscono una novità che dobbiamo imparare”.
Il cardinale coglie l’occasione per definire una “fake news” quanto si scrisse a suo tempo, che fosse entrato in Conclave da papa: “Era evidente a me e ad altri che la stanchezza delle chiese europee, la perdita del senso di presenza di Gesù nella vita concreta dei cristiani, le rendeva non in grado di esprimere un Pontefice. Via, non ho proprio mai pensato di diventare papa”. Scola insiste: “Abbiamo il dovere di imparare la novità che questo papa testimonia, accoglierlo e seguirlo senza riserve”. All’intervistatore che gli pone la questione di una Chiesa in cui c’è un filone conservatore che critica il papa e uno progressista che lo sostiene, Scola risponde: “I primi sostengono che il papa sbaglia perché non dice le cose che pensano loro. I secondi dicono che finalmente c’è un papa che dice le cose che loro sostenevano già 50 anni fa. Io dico che sbagliano gli uni e gli altri, e gravemente”.
Chi è dunque nel giusto? La risposta il cardinale non la dà, forse perchè come cantava Bob Dylan nel mitico ’68: “Risposta non c’è o forse chi lo sa…”.
7 commenti su “MEETING DI RIMINI 2018. Quella voglia matta di ’68 – di Paolo Gulisano”
Fin dall’inizio CL ha guardato con simpatia a sinistra. I compagni erano gli interlocutori privilegiati, perché (secondo CL) non erano appiattiti come gli altri, ma in ricerca, seppure sbagliata, di un senso alla vita. In certi luoghi gli appartenenti al movimento partecipavano alle manifestazioni studentesche insieme ai compagni. Ci fu anche chi passò da CL a gruppi di estrema sinistra. Fu la sinistra che in un secondo tempo li attaccò a causa della loro fede, non loro che si staccarono di propria iniziativa dai compagni. Identica simpatia era riservata ad alcuni movimenti di liberazione operanti in paesi del terzo mondo. Basta guardare alle pubblicazioni della Jaca Book dei primi anni settanta: si trova almeno un titolo sull’MPLA (movimento popolare per la liberazione dell’Angola) insieme a un altro sull’andare a scuola in Corea del nord (quest’ultimo dovrebbe trovarsi anche su google books; una lettura niente male…).
Quel che è venuto dopo nella storia del movimento era già presente in germe dall’origine. Ciò che si vede adesso non stupisce.
Aggiungo che si pubblicavano libri sulla costruzione del socialismo nella Mongolia Esterna e si ostentava, all’Università di Roma, un antifascismo militante da far invdia ai compagni
Non avevo mai sentito di “antifascismo” di CL dei primi anni, o decenni. A me risultava (finché don Giussani era in salute) un movimento “fascistoide”, nel senso di “molto lontano dalla pressione propagandistica rossa e volentieri collegato all’ Italia cattolica”.
Potrei avere qualche esempio di antifascismo ciellino a Roma?
Grazie
Nel 1974 apparvero scritte missine sui muri dell’Università di Roma (allora c’era solo la Sapienza) Immediata reazione dei compagni con manifesti traboccanti di sdegno. CL si accodò tempestivamente, con manifesti infuriati contro la “provocazione fascista”. Questo episodio l’ho visto coi miei occhi
La ringrazio
Non mi stupisce l’attuale direzione ad opera di Carron. Mi sembra (posso anche sbagliare, non frequento più il movimento da una quarantina d’anni, per grazia di Dio) in sintonia con quanto ascoltato più di una volta da don Giussani, che – mi preme sottolineare – non ci sono dubbi che fosse animato da buone intenzioni e una grande fede. Soleva ripetere che la cosa più importante è l’obbedienza. L’autorità può anche sbagliare, diceva, ma tu obbedendo non sbagli. Frase che può anche andare bene in tempi normali. Ma oggi non sono tempi normali, il principe della menzogna ha sferrato un attacco molto sottile volendo far deviare dalla verità proprio in nome dell’obbedienza.
Per quanto riguarda invece il titolo del meeting, bisogna decriptare il linguaggio di CL. Giustamente don Giussani diceva che le forze che muovono la storia non sono i ‘grandi’ o quelli che compaiono sui libri di storia. In apparenza sembrano loro i protagonisti, ma dietro esiste la mano di Dio che davvero guida. Penso sia questo il vero senso del titolo. Certo bisogna spiegarlo meglio.
“Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”. Questa frase celebre dell’apostolo san Pietro, primo Papa, è tecnicamente chiamata il “canone petrino”. E’ la carta di identità di chi San Pietro è diventato e ciò che il ministero petrino rappresenta oggi nella Chiesa, nonché una chiave di lettura per ben comprendere il concetto di “Obbedienza” nella dottrina cattolica.
Quando saremo davanti al Tribunale di Dio non potremo scusarci dicendo che papa Bergoglio diceva un’altra cosa. Anche se affermiamo che il VdR, in Vaticano, lo chiamano “Trinità”, questa è una giustificazione che non regge.