“Pittore, ti voglio parlare mentre dipingi un altare. Io sono un povero negro e di una cosa ti prego”.
Nel clima rovente della contestazione giovanile e della rivoluzione dei costumi degli anni ’60, Fausto Leali cantava una cover di un brano di Pedro Infante del 1948, tratto dall’omonimo film: “Angeli negri” in cui il cantante bresciano interpretava con quel suo timbro “nero” inconfondibile quella preghiera-lamento che persino i preti dell’epoca canticchiavano (me lo ricordo) fieramente: “Pur se la Vergine è bianca, fammi un angelo negro … tutti i bimbi vanno in cielo anche se son solo negri”. Era l’epoca dell’egualitarismo, dell’America dei bianchi come John Fitzgerald Kennedy e dei neri come Martin Luther King, delle giuste battaglie antirazziste ma anche delle rivendicazioni ingiuste contro ogni tipo di autorità (a partire da quella dei padri e delle madri fino a quella contro ogni potere legittimo costituito). Quella voce rauca e possente, che imitava il Joe Cocker dei raduni rock internazionali, aveva già riscosso nel 1967 un grande successo (più di un milione di copie di dischi venduti) con la celebre: “A chi”, anche quest’ultima ripresa da una hit di Roy Hamilton.
Con quella prima vocale ( la “a”) vibrante ed interminabile, Leali faceva propria la musica nera soul degli afroamericani come Wilson Pickett, il quale canterà con lui la famosa Deborah , ispirata dalla nascita della sua prima figlia: “Deborah, ascoltami…”. Lo stesso artista americano fu padrino al battesimo della medesima figlia di Leali. Erano gli anni dei capelloni e delle mode stravaganti e perniciose, come l’assunzione di droghe ed altri allucinogeni, che mieteranno vittime ed a cui Leali dedicherà nel 1970 una canzone emblematica, Hippy, che presagiva la disillusione ed il successivo riflusso o disimpegno degli anni ’80: “Hippy credi a me, non sognare il mondo che non c’è … un castello di storia che non serve più, il passato è morto”.
Nelle canzoni di Leali si trovano principalmente testi semplici di storie d’amore, dalla già menzionata e fortunata A chi (A chi sorriderò se non a te … a chi racconterò tutti i sogni miei) ad un altro successo del 1987, Io amo (Tu solamente tu non sarai più sola) interpretate con appassionata veemenza e con grande calore. Interessante la riproposizione di Malafemmena di Totò, che fece da sigla televisiva ad una bella serie in onore del grande comico napoletano, che andò in onda negli anni ’80. Un’altra sua canzone d’amore, Mi manchi, fu interpretata da Andrea Bocelli nel 1988; l’anno successivo, con Anna Oxa, Fausto Leali vinse il Festival di Sanremo con: “Ti lascerò”. Colgo l’occasione per puntualizzare un chiarimento su questa rubrica “musicale”, anche per rispondere alle critiche (corrette) riguardo la vita personale di parecchi interpreti. Non si tratta di stilare una classifica di chi salvare o chi buttare giù dalla torre. L’intento non è quello di cercare di far scorgere la coerenza tra testi delle canzoni e vita personale degli artisti ma piuttosto di far trasparire quanto, anche attraverso la cosiddetta “musica leggera”, si possa veicolare una rivoluzione (di costume, di valori, di principi).
Pertanto anche Fausto Leali nel cantare l’amore, come lui fece, con vigore, con energia, con impegno è necessario saper cogliere, dietro la scorza arrabbiata di uno che ha urlato l’amore, tutte quelle contraddizioni di una società che ha perduto l’orizzonte dell’amore divino anteponendo a Dio altri idoli, incensando altri altari, prostrandosi ad altri dei. In poche parole cercando risposte (a quell’Amore mai corrisposto), riponendole in aspettative mondane e illusorie.