Il signor anarchico G come Gaber
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“Quando non c’è nessuna appartenenza la mia normale, la mia sola verità è una gran dose di egoismo, magari un po’ attenuato, da un vago amore per l’umanità”.
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Un capitolo a parte nel panorama canoro italiano è stato quello rappresentato significativamente da Giorgio Gaber (1939-2003), accorciamento del suo vero cognome Gaberscik . Si è soliti, nel definire la carriera di Gaber, partire da quello che apparentemente potrebbe sembrare un periodo di definitiva rottura con il passato, ovvero con il Signor G del 1970 (quello che nella copertina del disco mostrava un volto sorridente da una parte, segno della felicità borghese del potere e dall’altra uno sguardo disperato e triste, causato dall’emarginazione e dall’ingiustizia dei ricchi). Una divisione tra precedente e successivo Gaber che contesto e che cercherò qui di spiegare analizzando i suoi brani.
Un primo Gaber, secondo molti suoi critici, con canzoni banali e un po’ strampalate, giocate con singolari suoni ed espressioni onomatopeiche (“Torpedo blu”, “Goganga”) o su ritratti di alienante vita cittadina (“Il Riccardo”, “Com’è bella la città”) con realismo e umorismo. Un Gaber quindi diverso, meno impegnato, lontano anni luce da quello del teatro-canzone che lo ha fatto conoscere sotto altra veste. Un Gaber, questo secondo, preso a modello per tanti altri cantautori impegnati (segno ancora una volta di un’egemonia culturale di sinistra che tanti cattolici non hanno pienamente considerato).
Non credo che le cose stiano esattamente così. Proviamo allora ad analizzare una delle sue canzoni più celebri del suo repertorio classico: “La ballata del Cerutti”.
Con il celebre refrain “Il suo nome era Cerutti Gino ma lo chiamavan drago; gli amici al bar del Giambellino dicevan che era un mago” con il sottolineato finale corale “era un mago” la musica, scarna ed eseguita con pochi accordi alla chitarra, era in funzione soprattutto del testo, per rilevarne i contenuti. Il Cerutti della ballata, infatti, è uno dei tanti personaggi dell’universo gaberiano che testimoniano la mediocrità della vita cittadina su un fondale di tristezza e squallore (“Vent’anni, biondo, mai una lira, per non passare guai fiutava intorno che aria tira e non sgobbava mai”). Con il suo tipico fare ammiccante, Gaber rivolgeva così una feroce e corrosiva critica alla società dei consumi, all’angoscia metropolitana ed al mondo piccolo borghese (in un’altra canzone griderà che i borghesi son tutti dei porci, più sono grassi e più sono lerci). Il “drago” Cerutti che fa rima con “mago” è un uomo che vive illegalmente di espedienti e di furti notturni (“Una sera in una strada scura occhio c’è una Lambretta: fingendo di non aver paura il Cerutti monta in fretta”) e che finisce in galera, prototipo di una umanità disillusa e che potremmo definire, con un gergo ormai in disuso, tipica espressione del sottoproletariato urbano. Non c’è possibilità di redenzione, non c’è aspirazione ad una migliore dignità sociale: lo spaccato “realistico” delle canzoni di Gaber, compresa la ballata triste del Cerutti, non permettono illusioni di alcun tipo (Anche per oggi non si vola affermerà in un’altra canzone).
La divertita ironia dai toni scanzonati che hanno connotato il personaggio Giorgio Gaber non traggano in inganno: le sue canzoni non esprimono semplici banalità né tantomeno amenità ma descrivono il disincanto e la crudezza di una società senza speranza (“Ora è triste e un poco manomesso, si trova al terzo raggio: è lì che attende il suo processo … S’è beccato un bel tre mesi il Gino”). Non bisogna quindi farsi abbindolare dall’apparente ingenuità di quattro semplici accordi e di quattro battute in rima: nella filosofia di Gaber c’è una spietata analisi sociale e umana che nella reiterata ed ossessiva denuncia (da ascoltarsi attentamente la già menzionata “Com’è bella la città”) arriva alla descrizione biasimevole dell’uomo e delle sue relazioni sociali, come in “Trani a gogò” dove “Si passa la sera scolando barbera ed una vecchia zitella nel Valpolicella cerca l’amor”. Anche il Cerutti Gino, ritornato al bar dopo la prigione, avrà nel suo futuro la nomea di essere un tipo duro. Duro che fa rima con futuro, drago che fa rima con mago, sera che fa rima con galera.
L’anarchismo celato da Gaber emerge prepotentemente in un’altra sua canzone apparentemente scherzosa: “Lo shampoo”. Questo brano, spesso canticchiato negli oratori parrocchiali, è uno dei pezzi più dissacranti e distruttivi della civiltà cristiana: attraverso lo shampoo ci si libera, sciacquando la schiuma dell’oppressione e della moralità, spezzando il legame con la famiglia e la religione (“La schiuma è una cosa buona come la mamma, la schiuma è una cosa sacra come la Santa Messa”). Molti sorridono al ritmo cadenzato e soffice (come la schiuma) di questa anarchica canzone, nella quale Gaber arriva nel finale all’urlo liberatorio e rivoluzionario: “Sciacquo…sciacquo!”. Medesima situazione avviene in una delle sue ultime canzoni, emblematica della sua anarchia sin dal titolo, “La canzone della non appartenenza”, dove si può sottolineare il testo, disilluso e triste, connotato da un “io” senza Dio con le drammatiche e ineludibili conseguenze: “La mia anima è vuota e non è abitata se non da me stesso. Non so bene da quando l’amore per il mondo mi sembra un paradosso…Tutto quello che provo è una vana protesta, è solo questa mia coscienza che non mi basta”.
Altro che umorismo!
6 commenti su “MA CHE MUSICA MAESTRO – rubrica quindicinale di Fabio Trevisan”
Gaber: testi e musica di una banalità che si ammanta di un filosofeggiare d’accatto, tipo esistenzialista engagé, che non lascia traccia disperdendosi nell’aria come fumo e come schiuma nell’acqua (Inf. XXIV, 51). Anni or sono, credo una decina, durante una trasmissione tv, dedicata al Gaber, fu chiesto alla figlia come classificasse il padre nel generico contesto italiano. La suddetta affermò esser stato, il padre, un punto fondamentale del pensiero del ‘900. Se è vero che la massa della universitaria gioventù italica sta, in termini di grammatica, alla terza elementare, l’intellighentzja tv sta all’asilo. Kronos è un gran giudice. Spazzati tanti miti del ’68 anche il Gaber, il De Andrè, “profeti” del loro tempo stanno evaporando nel brumoso fluire delle stagioni, sotto una coltre di oblìo omerico.
“La suddetta affermò esser stato, il padre, un punto fondamentale del pensiero del ‘900. ” L’esaltata vanagloria degli intellettualoidi. Tale padre, tale figlia.
Giusto: altro che umorismo. Mi è apparso sempre dissacratorio Gaber, anche se alcuni suoi motivetti erano simpatici e orecchiabili, tipo “Torpedo blu”. Per il resto l’ho sempre guardato con sospetto, insieme con la sua sodale consorte che l’incauto (?) Silvio inserì fra le fila del suo partito.
Cara Tonietta, le dico francamente, che del Silvio mi son stancato gia’ da un pezzo, e aggiungo che come il suo concittadino Gaber, anche lui ha usato la simpatia e l’umorismo da bar dello sport per far abboccare all’amo tanti cattolici insomma piu’ o meno, per traghettare l’Italia nel pantano liberale in cui siamo, e in cui probabilmente moriremmo.
Ove moriremmo di liberta’ di fare tutto.
Perfettamente d’accordo.
Gaber? il solito “sinistroso” che fa finta di amare il povero, mentre lui( il gaber e compagnia) amava vivere da ricchi.
Facile così…