La desolazione spirituale di Luigi Tenco
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“Un giorno dopo l’altro il tempo se ne va: le strade sempre uguali, le stesse case e tutto è come prima”.
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La desolazione spirituale e morale di Luigi Tenco (1938-1967), culminata nel clamoroso suicidio del 27 gennaio 1967 a Sanremo con un colpo di pistola alla tempia all’Hotel Savoy, va ricercata, a mio modesto parere, all’interno di una visione del mondo che ha perduto la dimensione trascendente della persona e la centralità di Dio nella vita dell’uomo. In una delle sue tristi e drammatiche canzoni più famose, dal titolo emblematico: “Una vita inutile”, Tenco cercava di interpretare le parole di un poeta che gli spiegava il senso della vita: “Una vita inutile vivrai se non saprai capire il mondo… provai ad essere qualcuno però sono rimasto nessuno. Provai a diventare un poeta, ma il mondo non l’ho capito ancora”.
Il completo orizzonte mondano in cui il cantautore di origini piemontesi, ascritto alla cosiddetta “scuola di Genova”, inseriva i suoi brani non poteva che condurre ad un esito drammatico, considerato il fatto che lui stesso credeva in ciò che cantava con tanta appassionata partecipazione. In quel condensato della “vita inutile” si rintraccia infatti l’epilogo amaro che lo avrebbe condotto a quell’estremo disperato gesto: “Una vita inutile vivrai se non farai di te ciò che vuoi, mi disse un uomo guardando il mare”. Un altro elemento che depone per una desolazione spirituale è la mancata accettazione del proprio posto nel mondo, come nel pezzo: “Io vorrei essere là”, dove Luigi Tenco con l’accompagnamento di fisarmonica e flauto tenta di rispondere a dei bambini sul significato, appunto, del proprio posto nel mondo. Ecco la risposta contenuta nel testo della canzone: “Io vorrei essere là dove i bambini imparano che il mondo in cui viviamo è tanto tanto grande, per dire a quei bambini che tanta gente non ha un posto per vivere. Vorrei essere là ma devo rimanere perché non ho trovato il mio posto nel mondo”.
Il finale del brano, intenso e un po’ ipnotico, rimane così sospeso in attesa di una risposta: “Io vorrei essere là ma resto qui ad attendere, perché anche qui domani qualcosa cambierà”. Dell’indistinta e onirica fuga dalla realtà, dai contorni incerti e da un futuro opaco, Tenco parlerà anche nella celeberrima: “Vedrai vedrai”, dove cercherà di convincere e convincersi di un nuovo cambiamento, senza prospettarne il tempo e la qualità della realizzazione: “Vedrai vedrai che cambierà, forse non sarà domani, ma un bel giorno cambierà”. Un tempo lontano, come suggerisce il titolo di un’altra sua canzone, lontano nel tempo e nel mondo.
La fatica del vivere quotidiano, quando mancano le virtù teologali della fede, della speranza e della carità è difficilmente accettabile, poiché tutto diventa grigio, di routine e persino un “ciao” ha il sapore triste di un addio: “La solita strada, bianca come il sale, il grano da crescere, i campi da arare. Guardare ogni giorno se piove o c’è il sole, per saper se domani si vive o si muore e un bel giorno dire basta e andare via. Ciao amore, ciao amore, andare via lontano a cercare un altro mondo, dire addio al cortile, andarsene sognando”. Tutto in Tenco è davvero come prima, un passo dopo passo; sempre la stessa vita ed il desiderio di attraversare la vita saltando il tempo: “Saltare cento anni in un giorno solo, dai carri dei campi agli aerei nel cielo e non capirci niente…”. Persino nella sincera constatazione dell’innamoramento rimane un velo di tristezza e di abbandono della vita: “Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare: il giorno volevo qualcuno da incontrare, la notte volevo qualcosa da sognare”.
L’epilogo drammatico della triste storia di Luigi Tenco è riassumibile nel suo testamento di desolazione spirituale, lasciato amaramente alla memoria della gente da parte di un uomo che nella “rivoluzione” (testo dell’ultima sua canzone al Festival di Sanremo) senza Dio ha ingenuamente creduto: “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda “Io tu e le rose” in finale e ad una commissione che seleziona “La rivoluzione”. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi”.
Il mito che è sorto ed è stato fatto crescere dalla cultura dominante atea e materialista sul suo nome sta a testimoniare la ribellione contro un ordine e una volontà divina, contro ogni autorità religiosa e morale. A comprova di questo basterebbe andarsi a sentire altri brani di Tenco come: “Cara maestra”, “Se tu fossi una brava ragazza” o “La ballata della moda”.
10 commenti su “MA CHE MUSICA MAESTRO – rubrica quindicinale di Fabio Trevisan”
Dobbiamo pensare che quando prima di suicidarsi scrisse queste parole avesse perso completamente il senso della realtà, altrimenti dovremmo concludere che si sia suicidato per invidia.
Tenco era di Cassine, fra Acqui Terme e Alessandria.
Alessandria, piazza militare fondamentale per le manovre espansionistiche del Piemonte sabaudo, era stata sede della vittoria fondamentale del giovane Napoleone (Marengo, in agro di Alessandria – 1800), e a quanto pare fu sede della fondazione della prima loggia massonica “istituzionale” in Italia, quando Napoleone era caduto e i suoi “convertiti” intendevano far continuare la neo-religione dell’ Albero della Libertà.
Ci sono riusciti !
Povero Tenco, così lontano dalla vita e così digiuno della vita che credeva consistesse nel raggiungimento di qualcosa che rivoluzionasse la semplicità della vita stessa. Quel “provare ad essere qualcuno”, quel cercare un altro mondo dove “andarsene sognando”, quell’innamoramento scaturito dal “non aver niente da fare”, dimostrano chiaramente la mancanza di una prospettiva alta, quella che gli avrebbe consentito di comprendere il valore e il significato della vita stessa, con le meraviglie della sua quotidianità, con l’accettazione del posto a cui siamo stati destinati, per diventare sì grandi, ma cogliendo la grandezza di tutto ciò che viviamo e che ci circonda, fosse anche il dolore e la sofferenza, se di essi sappiamo riconoscere il senso. Sono stati purtroppo i danni di una ideologia perversa che ha allontanato tanti giovani da Dio facendo loro credere che la felicità è chissà dove, persino nella vacuità di un Sanremo, illusorio paradiso di canzonette. Eppure a Domenico Modugno, nel suo “Meraviglioso” riuscì di volare un po’ più in alto (e sì, che gli piaceva volare…).Ma non so se gli avvenne per caso o per profondità e serietà di pensiero.
Devo dire che trovo molto più avvilente la frase “Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda “Io tu e le rose” in finale e ad una commissione che seleziona “La rivoluzione”” che la canzone stessa, un vero concentrato di sciocchezze tipiche dell’epoca. Negli anni 60 sorsero molti falsi “poeti”…..Quella stessa cultura, da loro abbracciata, li ha illusi. Bastava dire due frasi fatte per credersi un intellettuale, come se non esistessero i talenti, gli ingegni. Quasi non si dovesse studiare ed impegnarsi. Quasi non ci fosse bisogno dei concetti e dei valori.
Chi abbraccia il vuoto esprime inevitabilmente …. il vuoto.
Caro Tenco Io tu e le rose sarà melensa, ma almeno parla d’amore. Se tu avessi amato la vita …..L’hai barattata con una canzone sessantottarda….
Chissà, forse questa attesa dolorosa e struggente, ricorrente nei suoi testi, era l’espressione di un desiderio di Dio che il cantante, forse, soffocava, non accettava..
Direi che l’autore ha colto nel segno, con ” …..quando mancano le virtù teologali della fede, della speranza e della carità è difficilmente accettabile, poiché tutto diventa grigio, di routine e persino un “ciao” ha il sapore triste di un addio:….. E poi il naturale esito di costruire un mito, e una leggenda non tanto per le canzoni che ha scritto o interpretato questo non sò, ma sicuramente per come ha deciso di uscire di scena, togliendosi da se stesso la vita: padrone assoluto del suo destino, pietra angolare per la costruzione del nuovo edificio sociale in cui Dio è il grande assente, credo che su questo ” martirio ” sia iniziata quella tragedia chiamata : “sessantotto”.
….Dio, fra le sue braccia soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte. Così Fabrizio de Andrè dice in Preghiera in Gennaio ricordando Luigi Tenco. Quell’abbraccio dice tutto!!!!!
le canzonette “impegnate” – tristi surrogati e sottoprodotti della poesia “intellettuale”, decadente e lugubre, penso a “verrà la morte e avrà i tuoi occhi” di Cesare Pavese – furono l’espressione “liturgica” del movimento rivoluzionario (a bassa intensità culturale e mentale) avviato da atei e “beccamorti”, marcianti in direzione della devastante e mortifera noia – ha la ragione il mio amico Francesco quando dice “Renzi, almeno, fa ridere” – la tentazione di guardare oltre i “valori” della cultura della sinistra (il suicidio e il funerale squillante) è tuttavia invincibile
in altre parola: la cultura della sinistra perenne oscilla tra la triste morte e la comparsata -si affaccia il sospetto che la politica sia altra cosa
I giovani che si preparavano al ’68 versarono calde lacrime incolpandone il “sistema”. Non sono ancora cambiati né loro né i loro emuli di oggi.
Mi perdoni l’autore dell’ articolo se mi permetto di dissentire su molte cose. Inanzitutto ciò che avvenne quella sera di quasi 51 anni fa non è stato mai del tutto chiarito e non è affatto sicuro al 100% che si sia trattato di un suicidio. Premetto che sono una persona di fede ma questo non mi impedisce di apprezzare Tenco e la sua arte. Forse non tutti sapranno che sua madre era profondamente religiosa e uno che avrebbe voluto prendere i voti sulle orme di S. Agostino e S. Ignazio da Loyola, non può diventare di colpo ateo. Sono apolitica ma credo che considerare atei tutti quelli votati a sinistra, sia un pregiudizio atavico. E se anche in un momento di sconforto , avesse ceduto, mi piace pensare che quel Dio di misericordia abbia abbracciato anche lui… come canta De André (altro “ateo” più credete di molti credenti) Poi i funerali furono religiosi, segno che erano evidentemente conosciute la bontà e al la fede della persona in questione