di Piero Vassallo
Prima del risorgimento l’Italia era divisa dal punto di vista amministrativo ma spiritualmente unita. Nel XVIII secolo le parrocchie italiane registravano una popolazione che adempiva il precetto pasquale con percentuali intorno al novanta per cento.
L’orgoglio di appartenere alla Chiesa cattolica e all’Italia, peraltro, è testimoniato dall’italianissimo Vico, un filosofo che contestò duramente le teorie assolutiste di Hobbes riguardanti il primato del potere statale sui corpi sociali intermedi e sulle comunità locali.
Nella dedica della Scienza Nuova (opera capitale della resistenza cattolica alla statolatria europea) il grande napoletano si rivolge al cardinale Lorenzo Corsini, per rivendicare la cattolicità del pensiero italiano di cui era interprete: “I principii del diritto natural delle genti, del qual finora han ragionato uomini, per altro dottissimi, tutti oltramontani, ma divisi in parte dalla nostra religione, ed ora per la prima volta da italiano ingegno trattati con la scoperta di una nuova Scienza dintorno alla natura delle nazioni, ed in grado dell’Italia scritti in nostra volgar favella e con massime tutte conformi alla sana dottrina che si custodisce dalla Chiesa romana”.
Il più autorevole filosofo del diritto del Novecento, il bolognese Giorgio Del Vecchio, nel saggio sullo stato edito da Studium nel 1952, ha sviluppato le obiezioni vichiane allo statalismo europeo, dimostrando che lo stato nasce dalle società intermedie e dunque che non ha senso proclamare il primato “ontologico” dello stato centrale.
Per imporre il modello giacobino e napoleonico del centralismo amministrativo e dell’uniformismo giuridico, i protagonisti del risorgimento (a cominciare dai collaborazionisti di Reggio Emilia, quelli che scrivevano sulla loro bandiera “obbedienza alle leggi” francesi) avevano dovuto avvelenare le fonti spirituali dell’unità italiana, attuando una dura persecuzione della Chiesa cattolica.
Di recente, la storica Anna Pellicciari ha magistralmente documentato, nel saggio sul parlamento piemontese del 1848, l’intenzione anticattolica dei massoni travestiti da “patrioti”.
L’unità spirituale rivendicata da Vico, d’altra parte è il vero movente della sola guerra di popolo che, in età moderna, fu condotta vittoriosamente dagli italiani: l’eroica insorgenza – antigiacobina – dei sanfedisti guidati dal cardinale Fabrizio Ruffo.
Rinnegando lo spirito unitario che animò Vico e armò il cardinale Ruffo e i suoi combattenti, i protagonisti del risorgimento hanno imposto l’uniformità amministrativa – più propriamente detta mala unità – dissolvendo l’unità spirituale della nazione italiana.
I presunti padri della patria – Mazzini, Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi – erano apostati, insensibili alla tradizione italiana, strumentalizzati dalle cancellerie dei paesi ostili al cattolicesimo.
Essi hanno umiliato l’anima religiosa dell’Italia per costruire il corpo di una burocrazia farraginosa e molesta.
Sono queste le sgradevoli verità che non si dovrebbero nascondere quando si discute della tradizione autonomista e del federalismo.
La rivendicazione delle autonomie, infatti, rappresenta il tentativo di correggere l’infelice risultato che l’oligarchia laica e perciò strutturalmente antitaliana ha ottenuto con il c.d. risorgimento.
Non è un caso che gli attuali eredi della tradizione oligarchica, gli esponenti della sinistra laica e i frequentatori del salotto radical chic e dalle logge massoniche, siano ferocemente ostili alla riforma autonomista dello stato.
Stupisce invece lo schieramento dei cattolici dell’Udc sulla fronte dei politicanti che si dichiarano a favore del centralismo.
Nella riforma federalista, infatti, si contempla un’occasione di rivincita per quell’Italia cattolica e autenticamente popolare, che fu disgregata e oppressa dalle agenzie laiche e massoniche che amministravano la mala unità.
La riforma dello stato è odiata dalla gauche réactionnaire perché costituisce l’occasione di ricostruire l’unità degli italiani diminuendo l’influsso di quella burocrazia che ha mortificato la società imponendo una cultura aliena e intralciando la creatività del lavoro italiano.
C’è da augurarsi che la maggioranza di centrodestra non sciupi la storica opportunità costituita dal federalismo e non dia dare credito alle parodie patriottiche messe in scena dagli amici di Fini, Dallavedova, Granata e Barbareschi.