La lezione di Marcel De Corte
di Piero Vassallo
Marcel De Corte
Dal gorgo oscuro, in cui Armando Plebe e i suoi ectoplasmi neodestri avevano immerso l’ingente e preziosa eredità del Novecento antimoderno, il sagace e instancabile Rodolfo Gordini ha salvato la memoria del filosofo belga Marcel de Corte (1905-1994) geniale interprete dell’aristotelismo cristiano.
Durante gli anni di piombo, De Corte, insieme con Ettore Paratore, Marino Gentile, Nicola Petruzzellis, Thomas Molnar, Vintila Horia, Alexandr Maximov, Maurice Bardèche, Francesco Pallottino, Ugo Spirito, Giano Accame, Giuseppe Sermonti Augusto Del Noce, Fausto Gianfranceschi, Mario Attilio Levi, Francesco Grisi, Marco Tangheroni, Roberto De Mattei, Cristina D’Ancona fu impavido protagonista degli Incontri romani della cultura refrattaria, splendidamente organizzati, da Giovanni Volpe, in un assediato e silenziato margine.
Risultato del salvataggio compiuto da Gordini è la splendida riflessione decorteiana sulla giustizia, un’opera idealmente dedicata agli orfani della cultura di destra, pubblicata da Cantagalli editore anticonformista di lungo corso in Siena.
Con scelta felice, Gordini ha affidato a un insigne filosofo del diritto, Danilo Castellano, il compito di selezionare e commentare i saggi controcorrente dell’insigne studioso belga.
Castellano, che negli anni settanta si laureò discutendo, con Augusto Del Noce, una tesi sulla filosofia di De Corte (tesi che fu immediatamente pubblicata da Pucci Cipriani, editore controrivoluzionario in Firenze) è, infatti, l’esponente di punta della scuola di pensiero, costituita da cattolici intransigenti per la difesa e la restaurazione del diritto naturale, oggi tenuto sotto schiaffo dai testimoni cadaverici dei sogni mummificati dalla chiacchiera laica intorno alla giustizia democratica e progressiva.
Castellano rammenta, infatti, che “La polemica di De Corte è costruttiva sua perché ha per presupposto la metafisica della realtà sia perché è propriamente una denuncia delle assurdità della Modernità”. E puntualmente cita i più vistosi controsensi: “La storia non ha, infatti, una direzione obbligata (la libertà dell’uomo sarebbe, in questo caso, un flatus vocis) l’evoluzionismo è una credenza ingenua (l’uomo, per esempio, continua ad essere uomo perché nato dall’uomo), la scienza non può avere per oggetto il proprio metodo anche se proposto e usato con rigore (la logica, infatti, non è fondativa ma dimostrativa) la filosofia non è un esercizio intellettuale ma apprensione di ciò che è in conformità alla sua essenza e al suo fine”.
Castellano osa aggredire il feticcio della sovranità popolare, un prodotto della elucubrazione irrealistica, che capovolge le verità stabilite dal senso comune e impone leggi conformi all’assolutismo democratico: “L’elaborazione inflazionata di teorie sulla e della giustizia nel nostro tempo rappresenta la prova della riduzione della giustizia a strumento usato contro la vera giustizia. Spesso, infatti la giustizia ai nostri tempi è usata contro la giustizia, perché anziché essere cercata e individuata viene invocata ed elaborata sulla base e per l’applicazione di una teoria”.
In anni avvelenati dalle ideologia a trazione soggettivistica, De Corte ha osato rivendicare i principi del realismo filosofico. Ha stabilito, infatti, che “la società reale non si fonda sulle decisioni di chi ne fa parte, ma su realtà oggettive e fisiche che sono loro comuni, anteriori alle loro rispettive volontà che, volenti o nolenti, devono regolarsi su queste realtà”.
Di qui la puntuale e drastica confutazione delle ideologie che fondano il diritto sulla volontà e sulle passioni dei singoli: “La giustizia istituisce tra uomo e uomo una relazione sociale caratterizzata da una realtà per se stessa indipendente dalle passioni, sempre soggettive”.
Fonte della legge non è il desiderio del soggetto fantasticante ma la società naturale, la famiglia, da cui il singolo dipende: “La società reale non si fonda sulle decisioni di chi ne fa parte, ma su realtà oggettive e fisiche che sono loro comuni, anteriori alle loro rispettive volontà che, volenti o nolenti, devono regolarsi su queste realtà“.
Separate dal loro naturale fondamento, le società ispirate alle ideologie sono pseudo-comunità, “entità prive di esistenza reale i cui spettri dissimulano, per coloro che le immaginano, l’esistenza terribilmente reale, ma inavvertita delle loro vittime, di protesi più vive in apparenza, ma più costrittive quanto alle relazioni naturali con gli altri nelle varie società cui apparteniamo“.
La società fondata dall’ideologia promuove la guerra contro la legge naturale ossia l’eversione e la dissoluzione della famiglia, onde l’imposizione di leggi infami e grottesche a vantaggio dell’infedeltà coniugale, della sterilità, della rivolta dei figli.
De Corte annuncia il destino di una società fondata da utopisti e demagoghi sul rifiuto di obbedire alla legge naturale: “la rivoluzione distruttrice di tutte le assise sociali naturali arriva rapidamente al suo apogeo, la dissocietà lascia il posto ad una ricostruzione della vita secondo lo schema ideologico; questa società nuova, privata dei suoi fondamenti di giustizia, può stare in equilibrio solo grazie a ciò che Nietzsche i ganci d’acciaio di uno Stato senza società”.
Il fantasma della sovranità popolare abolisce la famiglia per istituire una società dominata da deformi controfigure dei genitori.
Generata dalla dissocietà moderna, la democrazia assoluta si rovescia in oligarchia e mette in scena i promotori dell’infelicità generale: il banchiere vampiresco, il parassita politicante, topo nel formaggio, il gabelliere sadico, il ministro sproloquiante, il pubblico ministero fustigante, il giornalista comiziante arroventato, la meretrice filosofante, l’assistente sociale dissociante, la levatrice mortuaria, lo psichiatra sfrenante, il pederasta etico, il teologo ateo.
Il rito del suffragio universale uguale per tutti è una parentesi: “Non c’è uguaglianza tra il popolo e i suoi rappresentanti e ministri. Non c’è uguaglianza tra la maggioranza e la minoranza. La democrazia è in realtà una aristocrazia camuffata. … Sotto il presunto regno del Numero e della Massa si nasconde il potere di un’oligarchia in cui si combinano, in misura variabile, la potenza del Denaro e quella del Sofisma, che hanno per scopo di far prendere ai cittadini imbrogliati lucciole per lanterne“.
De Corte sostiene appunto che la democrazia moderna prospera su un ordine sociale alterato dalla falsa giustizia: “La rivoluzione conserva come una mummia la pseudo-società da essa generata”.
In ultima analisi, si dimostra la vanità e la sterilità della politica nutrita dall’illusione di restaurare l’ordine usando gli strumenti consegnati dal potere democratico e rinunciando all’azione intesa alla bonifica del pensiero moderno.
L’ordine sociale, infatti, può essere restaurato solo dalla politica al seguito dell’azione propriamente missionaria svolta da una società di pensiero cristianamente ispirata e culturalmente attrezzata e perciò capace di contrastare efficacemente il Sofisma.
Già esistente ma divisa da infantili gelosie, tale società dovrebbe aderire alle ragioni dell’unità ed agire, per quanto oggi possibile, imitando l’esempio dei missionari che hanno convertito l’Europa pagana.
Le cocenti delusioni procurate dai reiterati e umilianti fallimenti della destra italiana dimostrano, ad ogni modo, l’illusorietà della politica pura, cioè priva del sostegno di un adeguato pensiero.
La lettura del testo decorteiani è pertanto suggerita al vasto popolo dei delusi in sosta dolente nel deserto prodotto dai discepoli politicanti di Plebe e dai successori di Gaucci. Un vuoto desolante, che solo la fedeltà al diritto naturale e alla sua fonte religiosa potrebbe finalmente colmare.