Egregio Ministro Valditara,
in uno dei Suoi ultimi interventi (su Rai 1, a “Porta a porta”) Ella – oltre a esprimere la sacrosanta intenzione di vietare l’uso dei cellulari a scuola – si è soffermato sul fenomeno del bullismo: problema annoso, spesso strumentalizzato, e inflazionato al punto da far risuonare a vuoto l’etichetta; ma senza dubbio reale e ingravescente. Per contrastarlo, propone l’utilizzo dei «lavori socialmente utili», perché il ragazzo «non può essere lasciato solo col suo ego ipertrofico».
«Parlando di bullismo – Ella precisa – parliamo di qualcosa che ha effetti devastanti». E aggiunge che si tratta di «una persecuzione sistematica» visto che«quasi il 25% dei ragazzi ha subito episodi di bullismo con una diminuzione, secondo degli studi, addirittura di attesa di vita, depressione e abbandono scolastico». Ne consegue che «non possiamo rimanere inerti».
Tutto vero, purtroppo. Dopo quasi tre anni di regime emergenziale – abbattutosi sulle scuole con straordinaria asprezza e inflessibilità, al confine con una vera e propria ossessione securitaria – il termometro della sofferenza dei più giovani registra temperature inedite e, di fronte alla magnitudine di un dramma collettivo destinato a segnare il futuro di tutti, certo «non possiamo rimanere inerti». D’altra parte, bulli e bullizzati sono figli della stessa temperie “educativa”, che passa anche per quell’ipertrofia digitale, causa di una diffusa alienazione alla vita, cui Ella vuole giustamente mettere un freno.
Sui danni immani provocati dall’isolamento forzato e prolungato, dalla alterazione dei ritmi quotidiani, dal condizionamento comportamentale sistematico, dalla sistematica discriminazione, insomma dagli abusi più vari subiti dai nostri figli nei due anni appena trascorsi, si spalanca un fronte smisurato, e dolente. Che richiede uno spazio di analisi ben più ampio di un trafiletto. Resta il fatto, comunque, che l’allarme rosso è risuonato un po’ ovunque, perché il mostro che il sistema ha alimentato non si può nascondere o minimizzare, essendo troppo grosso e troppo vorace: ogni genitore è testimone, più o meno diretto, di un patimento profondo che lascerà in molti casi cicatrici indelebili.
Presa contezza di questo scenario, torniamo dunque al bullismo. Tanti ragazzi – è vero – sfogano sui coetanei ritenuti più deboli e indifesi il disagio covato dentro di sé, ed è dovere degli adulti e delle istituzioni arginare questo flagello: aiutando gli uni, se necessario anche con adeguate misure disciplinari, a maturare e a recuperare un equilibrio compatibile con la vita sociale; proteggendo gli altri, vittime incolpevoli di malesseri altrui. Tuttavia, non possiamo limitarci a guardare gli effetti trascurando le cause, che sono molteplici. Tra queste, vale la pena considerare quale sia l’esempio che gli scolari hanno assorbito nell’ultimo triennio, un tempo proporzionalmente decisivo nella economia della loro ancor breve esistenza. Che modello è stato fornito loro, troppo spesso, da quanti avrebbero dovuto esserne maestri? Ebbene, sotto l’ombrello di una pletora di disposizioni – legislative e amministrative – farraginose, contraddittorie, troppe volte irragionevoli e del tutto sproporzionate; al riparo della impunità garantita dal ruolo istituzionale; sull’onda di un rigorismo ingiustificato, scollato dalla realtà dei fatti e al di fuori di qualsiasi controllo, non pochi rappresentanti delle istituzioni cosiddette “educative” si sono sentiti legittimati a esercitare la propria quota di potere con una disumanità al confine con il cinismo, manifestando così, anche loro, un qualche genere di frustrazione repressa.
Nel manuale sul bullismo, allora, bisognerebbe cominciare a scrivere anche questo capitolo. E parlare delle fattispecie, per nulla rare, di «bullismo» istituzionale. E dell’«ego ipertrofico» esibito da titolari di incarichi delicati, con funzioni educative e di garanzia verso i minori di età. E degli «effetti devastanti» che tanta inadeguatezza umana, prima ancora che professionale, ha provocato. Quale strumento correttivo o redentivo suggerirebbe per costoro, signor ministro? Lavori socialmente utili, o altro?
È doveroso, eccome, insegnare a chi ci succede la responsabilità delle proprie azioni, insieme alla misura, alla creanza, al buon senso, alla pietà: tutti tratti di una umanità pressoché dimenticata. Forse, però, occorre prima guardare al pulpito cui si affiderebbe la predica. Perché da quello stesso pulpito si va decantando un mondo dove comanda e vince il più forte, cioè il bullo.
Abbiamo una responsabilità molto più grande dei nostri ragazzi, noi della generazione precedente, specie chi veste panni istituzionali: in primo luogo, quella di dare l’esempio. Molti hanno dimostrato di averne rimossa ogni consapevolezza, e questo dovrebbe farci riflettere.