di Piero Nicola
“Lei è democratico?”
“Lo ero”
“Lo sarà ancora?”
“Spero di no”
“Perché?”
“Perché dovrebbe tornare il fascismo; soltanto sotto una dittatura riesco a credere alla democrazia”.
Queste poche battute contengono tutto Longanesi, critico sagace, caustico, schietto anticonformista, sebbene egli abbia acconsentito al fascismo in varie occasioni, anche in tempo di guerra mondiale, e poi abbia partecipato a trasmissioni radiofoniche antifasciste, nella Napoli appena liberata.
È opportuno opporgli subito due contestazioni: il non aver fin da principio tenuto nel debito conto le umane miserie e le corruzioni inevitabili in esponenti d’ogni regime; il non aver raggiunto la verità filosofica e politica complessiva, ultima e inconcussa, sebbene il suo senso morale si dimostri alquanto valevole.
Tuttavia è istruttivo, soprattutto per avere un’idea della storia, sfogliare le sue pagine argute e spregiudicate. Tra i libelli che egli pubblicò nel dopoguerra e ristampati in questo secolo dalla Casa Editrice Longanesi da lui fondata, ho scelto Parliamo dell’elefante (1947) e Ci salveranno le vecchie zie? (1953).
Il primo libro è un diario che va dal 1° marzo 1938 al 18 novembre 1946. Contiene note eterogenee e una narrazione frammentaria di vicende avventurose che da Roma portarono l’autore ad attraversare il fronte per raggiungere Napoli. Essendosi compromesso col proprio antifascismo all’avvento del governo Badoglio, fuggì al Sud con amici e compagni occasionali, per far ritorno nella Capitale nel 1944 e a Milano nel 1946. Ma, al centro del diario, scorre un racconto filato e molto gustoso, fuori dei bozzetti significativi e degli aforismi, che rivela qualità letterarie non comuni, ovvero la competenza nei giudizi da lui pure espressi nel campo delle lettere.
Parliamo dell’elefante significa parlare d’altro adoprando le ambiguità e non correndo rischi. In vero, egli si esprime alquanto chiaramente, mentre sono i suoi compagni di strada ad arrischiare deviazioni dal conformismo ricorrendo ai sottintesi. Però non si esclude che egli alludesse a un’impossibilità di vuotare il sacco senza incorrere in sanzioni legali insostenibili, allora come quando gli avevano interrotto la pubblicazione del settimanale Omnibus nel 1939, benché senza ulteriori provvedimenti a suo carico. E può darsi che, per gli stessi motivi, egli si sia astenuto dal dare valutazioni totali, dicendo il contro senza trascurare il pro, in merito alla vita pubblica dei diversi periodi.
Il diario comincia con un attacco alla retorica che contagiava anche l’arte, con quell’imparzialità pungente, beffarda, di bastiancontrario, che nascondeva un’intenzione moralista e correttiva. Ma subito compare, d’altro lato, una Parigi grigia, bottegaia, decadente, straordinaria, dove “si sente la presenza di un verme colossale, un verme storico, che gode di una pensione governativa”.
Ora, “la noia segue l’ordine e precede le bufere”. La sua preveggenza non fallisce quasi mai. “Mangiano le farfalle per farsi un’anima aviatoria”. E giù sarcasmi sulle parate e la magniloquenza stucchevole.
Uno psichiatra celebre e riverito curò benissimo le donne prendendole a calci nel sedere. Discredito gettato sull’architetto Valdier e sulla romana via Cavour: Ottocento liberale cupo e fuori luogo, avendo introdotto una supposta grandezza europea. Nella sua obiettività, per così dire, ostinata, egli frequenta in amicizia Moravia e vari intellettuali antiregime, si commuove umanamente al funerale di Tilgher, dove il modernista Buonaiuti tiene un discorso. Egli starà in buona compagnia anche coi peggiori, senza dare ad intendere di doverli studiare o i motivi reconditi che possano muoverlo.
Alla fine del 1941 gli italiani sono adattati alla guerra e non mostrano insofferenza verso Mussolini. Ma Longanesi già li vede comunemente atei e materialisti. Ciano e colui che riporta le sue parole sperano nella vittoria degli inglesi. Un vuoto temporale, e siamo al 15 settembre del ’43. Tira brutta aria per chi si compiacque della libertà. Distacco dalle famiglie, poi in treno sino a Guardiagrele – Abruzzo orientale. Nel quartetto dei fuggitivi c’è il regista Steno, Riccardo, facile ad attaccarsi a certi personaggi incontrati, Massimo, ex pugile e attore in America, vanitoso e donnaiolo. A loro si aggregano due soldati che intendono passare le linee per tornare a casa nel Meridione, ma si scopre che uno di loro veste mentite spoglie. Al villaggio si è formata una comunità di internati polacchi ed ebrei, più alcuni socialisti agitatori, giunti da Venezia. Un consigliere comunale, ipocrita untuoso, e un sarto combinano una riunione per organizzare la resistenza ai tedeschi; di già recano aiuti ai prigionieri alleati sui monti, sotto gli occhi di un maresciallo dei carabinieri che deve ubbidire alla repubblica di Mussolini, nonostante il vincolo che lo lega al re. La comparsa di militari germanici su camionette, venuti ad affiggere un bando contro chi soccorra i prigionieri anglosassoni datisi alla macchia, suscita in Steno soggezione, di fronte alla debolezza italiana. E nessuno ha qualcosa da obiettare. Un tenente deciso e battagliero, che crede in una imprecisata rivoluzione, li condurrà nel territorio conquistato dagli Alleati. Con lui Steno, Riccardo e il protagonista proseguono verso la meta. Ma, sotto il fuoco di una pattuglia tedesca, il baldo militare ex fascista, già combattente in Africa e in Russia, insensibile al dolore di una napoletana, cui hanno ucciso il marito fedele al Duce e riparata lassù con una figlioletta, questo sedicente rivoluzionario di nessun colore e quasi per partito preso, trema sotto le raffiche. Quando se la saranno cavata, costui scomparirà, forse vergognandosi.
I tipi più stravaganti, gli aneddoti più atroci e assurdi riferiti dai reduci dalle steppe nevose, le estreme miserie materiali e morali popolano il racconto. Finché il 1° novembre si raggiunge Napoli, città ancora di retrovia, città distrutta e in un caos deplorevole. I rimasti della compagnia si trovano insieme a Freda e Soldati.
Al disordine degli abitanti fa riscontro il disordine incredibile delle truppe bianche o negre. In una via centrale, soldati americani ubriachi, sguaiati (sarà uno spettacolo consueto), vanno a palpeggiare le lavoranti di un negozio-laboratorio. Il marito della padrona viene brutalmente spinto via. Poi, il gruppo circonda due ragazze malcapitate e le sveste, sotto gli occhi divertiti dei loro ufficiali di passaggio. I militari di colore, senza contegno, sono a caccia di piaceri d’ogni genere. Calato il sole, diventano volgari predoni a mano armata. I napoletani, che hanno odiato i teutonici, adesso odiano gli americani e si danno a commerci indegni e truffaldini per sopravvivere. Delusione. Il Comitato di liberazione insediato è pigro e inetto. Professori rientrati dall’esilio e giovani turbolenti vogliono formare un reggimento di volontari combattenti, sotto il comando di un generale anziano e obeso. Sono pochi, raccogliticci, disorganizzati.
4 novembre. Università. Fuori, militari alticci e signorine scorrazzano sulle Jeep. Dentro, i loro commilitoni fanno toeletta. Sulle scale, studenti e giovani scioperati. Negri accampati nell’atrio. Agitatori politici lanciano manifestini contrari alla monarchia. Altri inneggiano al Re. Esce lo stato maggiore dei politici e degli accademici. Si fa avanti il conte Sforza. Inviti al battimano. Il Rettore magnifico prende la parola: discorso incomprensibile nella confusione rumorosa. Applausi, cui partecipano i negri divertiti. Tre giovani gridano evviva al Duce. Parla Sforza: non bisogna odiare i fascisti, “nostri fratelli stupidi”. L’intellettuale Soldati lo ritiene “un povero oratore”. Si dice che Croce è amareggiato e medita di ritirarsi dalla politica attiva. Le divisioni e gli attriti sono forti tra chi difende Vittorio Emanuele, chi spinge per l’abdicazione in favore del figlio e i repubblicani. Discussione con Soldati scettico: non distingue il bene dal male, perché sono troppo commisti l’uno con l’altro. Leo oppone che la coscienza è in grado di distinguere. Soldati cede all’incalzare degli argomenti di colui che ritiene gli voglia male. Steno si lamenta: desidera dormire. Soldati accusa Leo di non aver pietà per nessuno, ma è un ipocrita che ama recitare, la sincerità non è affar suo. Tuttavia i due si riconciliano
Le scene di americani e giovani pervertite fanno esclamare a Longanesi: “Napoli maledetta!” “Stranieri maledettamente stupidi e orgogliosi, che giudicano tutti gli italiani ladri e ruffiani”. Per giunta, gli occupanti danno stipendi da fame ai loro dipendenti partenopei, quando spendono dollari per farsi lustrare le scarpe.
“L’antifascismo è molto meschino”, invidioso. “La maggior preoccupazione degli antifascisti è quella di non allargare la propria cerchia […] e custodiscono i loro meschini sogni di vendetta con l’astio e il moralismo delle vecchie zitelle contro le giovani spose”. Ambiziosi, i rimpatriati già fuorusciti; pettegoli e provinciali quantunque abbiano girato il mondo; demagoghi nel prendersela coi fascisti. “Quel che vogliono costruire in Italia è stato all’incirca fatto dal fascismo”. Essi vivono in virtù del nemico. L’Italia è un qualcosa di astratto che ben poco li interessa […] uno sfondo sul quale rappresentano la grande commedia democratica che stanno preparando da anni”. “Non li vedrete mai interessarsi a un preciso problema economico o politico”. Sono rassegnati, insensibili ai mali e alle condizioni pietose che hanno sotto gli occhi: il fascismo è responsabile di tutto. “Trent’anni fa, la miseria qui era colore locale, sano, allegro, variopinto colore napoletano, spunti per curiosità partenopee del senatore Croce; oggi, quella stessa disperata miseria è frutto del fascismo”.
Napoletani allegri e ciarlieri nel tragico squallore e fra i morti ancora sotto le macerie, come se la morte infine sia una fortuna. “Spettacolo sinistro”.
“La radio fascista mi ha coperto di insulti. Sono preoccupato per casa mia” (24 novembre).
Squallido darsi d’attorno dei politici e dei profittatori. Croce parla all’Università. Vuole la reggenza provvisoria della monarchia. Lettere anonime per denunciare i rivali, per esempio Malaparte. Gentaglia si costruisce una posizione stabile nel disordine stabilizzato. Sorge così la nuova classe dirigente italiana. “Non c’è più fantasia, il nuovo mondo non sa che farsene della fantasia. I grandi problemi della produzione, i monotoni miti dei nuovi ceti non tollerano più la fantasia. Tutto è destinato a ubbidire alle leggi del peso e della quantità […] Si tende a mettere tutto in scatola: idee, frutta, sentimenti, carne […] La libertà è morta perché si è troppo estesa; il suffragio universale della libertà ha ucciso la libertà”. Senso di stupidità, di inutilità, di malinconia, di nostalgia per la propria terra e per la famiglia. Sempre soldati statunitensi sbronzi e ciondoloni, sentimentali e maldestri con le prostitute, oppure violenti, e strade malsicure nell’oscurità.
Il genere di collaborazione prestata da Longanesi ai programmi radiofonici non piace al “senatore”, che non tollera critiche: “ambiente in cui siamo disgraziatamente caduti”. Servilismo a piene mani. “Chi non è crociano è nemico della libertà, perciò degli alleati” e può finire in galera. Le malattie veneree dilagano, come la prostituzione. C’è chi spiega che gli americani in Italia si dimostrano incapaci perché negli USA governano le donne.
8 gennaio 1944. Vittorio Emanuele III ha conferito al maresciallo Stalin il collare dell’Annunziata. Da adesso, sono diventati cugini. Disinfezione contro il tifo petecchiale. L’infermiere addetto alle vaccinazioni antitifiche manovra la siringa come un veterinario con gli animali. “La carne in scatola americana la mangio, ma le ideologie che l’accompagnano le lascio sul piatto”. Antipatia per i piemontesi (che si comportarono da felloni procurando la conquista dell’Italia Meridionale): “da Cialdini fino al maresciallo Badoglio”. In occasione di una visita a una vecchia sede socialista egli dubita sulla propria posizione politica e ideale. E torna la scarsa considerazione per le qualità morali e intellettuali degli americani.
A Roma il 1° luglio 1944, Longanesi è tornato in seno alla famiglia. I partiti rinnovano la retorica. Sete di vendette e di punizioni. “Si ha sete di punizioni perché si crede con ciò di liberarsi di un triste passato nel quale tutti sono stati benissimo”. “I nostri letterati vanno a sinistra; essi sperano che a sinistra la fantasia sia più fertile”. Viltà diffusa di antifascisti, comunisti, nobili e democristiani, che non disdegnano la borsa nera. “Presunzione settaria dei nuovi moralisti che mette paura”. La stupidità d’Oltre Oceano non si smentisce.
Roma 4 maggio 1945. “Ci si accorge, a un tratto, che Gabriele D’Annunzio a paragone delle polpette di oggi è un gigante”. “La monarchia in Italia, ha tradizioni politiche; la repubblica ha soltanto tradizioni letterarie”.
Milano 1946. “I presenti non sono mai stati fascisti”. “Una domanda che non dobbiamo mai rivolgere a nessuno: ‘Ma noi dove ci siamo già incontrati?’” Ignazio Silone: “i suoi personaggi sanno di vivere in un romanzo che sarà tradotto all’estero”.
Ci salveranno le vecchie zie? è imperniato sulla condizione in cui versava l’alta borghesia e, attraverso il ritratto del nuovo ricco accanto all’erede del vecchio ceto imprenditoriale, si viene a conoscere la disgraziata involuzione dei costumi. La vita di casa nostra procedeva in un misterioso progresso del fare e disfare, contraddittorio e disordinato. Sembrava strano che permanesse un certo assetto.
La borghesia formò l’ossatura dell’Italia unificata, ma quella di ieri è ormai finita. I borghesi attuali rinnegano il loro nome vilipeso e la loro storia; sono prevalentemente venali, gente senza nerbo, conformista al pari dei commercianti. Conducono un’esistenza meschina. Si appoggiano allo stato. La classe dirigente manca di iniziativa e vive nel disordine nondimeno politico. Si ingrossano le aziende per motivi sociali, a spese dello stato. Lo stato non cura il bene del cittadino: cattive amministrazioni corrotte dai pescicani. L’italiano è stretto tra lo stato e il grosso borghese. Stampa partigiana, liberale o comunista. Non ci sono validi modelli: i vizi borghesi e quelli proletari li hanno distrutti.
Il bru-bru è diventato un personaggio chiave nel giro degli affari. Il borghese agiato è più ricco e meno solido. I lestofanti, abili negli intrallazzi, stanno prendendo il sopravvento. I faccendieri al servizio del borghese ne scalzano il potere. Molti parassiti anche politici lo danneggiano. La modernizzazione è all’americana, ma il borghese ha perduto il comando, l’intraprendenza, mentre si ritrova democratico e pacifista; qualsiasi guerra lo spaventa, è disposto a firmare armistizi “come Badoglio”, accetterebbe che il paese sia un protettorato, una colonia, acconsentirebbe di buon grado d’essere un rappresentante con “l’esclusiva per l’Italia”. Anche il suo factotum astuto e pragmatico è pronto alle aperture a sinistra, essendo amico di tutti. Poi, il tirapiedi si sistema meglio piantando in asso il povero capitalista. Il bru-bru che sostituisce l’infedele si procaccia l’amicizia di personaggi di ogni risma e professione, in modo da aggirare la legge mediante le corruzioni.
Riguardo all’amore e alla letteratura, il borghese dei primi anni ’50, disincantato, non fa una piega di fronte “alle audacie più risolute di Milena Milani”. Nel linguaggio corrente entrano frasi oscene e triviali; “la letteratura si nutre di erotismo e accanto al problema sociale si affaccia quello sessuale”. È venuto in auge un eroe pagano, dalla mascolinità effeminata, decorativo e mitizzato come un Tarzan, cui corrisponde il culto della salute. Per il nuovo borghese l’igiene prende il posto della morale. “Benché si viva in tempi democratici, il pubblico ammira la forza e la volgarità più di quanto non facesse in tempi tirannici”. “La stupida lezione del socialismo ci ha regalato l’illuminismo elementare del bisogno, che la borghesia ha fatto suo”.
Quanti borghesi ignoranti disprezzano la cultura! “La rivoluzione russa, ai loro occhi, è soltanto il frutto della barbarie asiatica, la religione il residuo medioevale di una superstizione necessaria, l’America un colosso industriale, il fascismo un sopruso… I borghesi non credono nella cultura come forza della loro classe […] non credono più nella tradizione, nella civiltà da cui sono usciti […] credono nel presente, nel presente senza storia”. “Ieri, il borghese difendeva l’‘ordine’ […] L’ordine era una struttura sociale che posava sui solidi pilastri della famiglia, della patria e della religione”. Le simpatie socialiste riformiste, colorate di religione, non cambiavano i principi. “Il borghese aveva ereditato dall’aristocrazia una certa idea del rango” e del decoro, delle tradizioni. I nuovi possidenti non si curano della regolarità: arricchiti nei subbugli e nelle illegalità di due guerre. Si adeguano alle esigenze di un progresso provvisorio, che chiede dall’oggi al domani riforme e che cede sotto il peso di quelle riforme che non riformano il fradicio costume del paese.
È invalso lo stile proletario. Operaio, il protagonista di film, racconti e pittura. Egli è esemplare. Niente di nuovo in questa valutazione del proletariato dopo Zola e il verismo umanitario parigino. Non già, un verismo del popolo: si tratta d’un verismo borghese, d’uno snobismo, di volgarità borghese. “La pederastia, dai ceti borghesi, è passata al proletariato”.
Charlot ha fatto un film banalmente patetico e pedagogico. La borghesia applaude. “L’anima dei ricchi geme a sinistra”. La conversazione declina paurosamente. Diffidenza e sospetto inibiscono le confidenze e la libera espressione. Le barzellette sciolgono il borghese, che non ama le idee. Egli soffre il complesso di inferiorità rispetto a Marx e agli intellettuali populisti; Poust, Henry Miller tengono in soggezione le signore nei loro salotti. Il borghese comunista Einaudi, figlio di chi risiede al Quirinale, pubblica il borghesume malsano di Proust.
Il borghese non è neppure cinico. Egli non segue la logica, non ha una sua logica, è ottimista, è sentimentale in modo contraddittorio e meschino, “ben radicato nell’astrazione patetica”. Egoista, si compiange, prescindendo da ogni morale e logica. Odia e ammira il nobile, va a caccia di titoli, non gli piace fare il soldato, non crede nelle virtù guerriere, ma si commuove agli inni della patria. Ammira anche il protestantesimo, è contrario ai retrogradi, alla “Chiesa cattolica che uccide i diritti dell’uomo”. È la contraddizione personificata, senza tormenti. Si tiene gli ideali cui lascia funzioni astratte, sentimentali, liriche. Al suo umanitarismo contribuiscono le umili origini.
L’automobile potente costituisce il mezzo del suo eroismo piuttosto incosciente. Egli gusta l’ebbrezza della velocità e acquista la potenza che non ha. Privo di immaginazione, cessate le sue occupazioni, si annoia. Ignora la morte, anche alla guida ardita della sua fuoriserie di grossa cilindrata, come un giovane eroe. “La giovinezza è nel ritmo accelerato della tecnica, della novità”.
“Il cattolico, oggi democratico, cerca di alleggerire il peso della sua fede e delle sue modeste virtù, per aderire ai miti di una società che s’accontenta di beni provvisori”. “La fede cristiana e la fede giacobina si afflosciano nella reciproca finzione”, poiché “il democratico si finge cristiano” e viceversa, “e più non si scorgono i confini delle due morali”.
I governanti finanziano le riviste teatrali per rallegrare sia i borghesi cattolici sia i proletari comunisti, che ridendo diventano inoffensivi. “Anch’io andai a teatro, da buon parrocchiano, per ridere, per difendermi col riso”. Egli assiste a una parodia del Diluvio Universale, con Noè vestito da pescatore e circondato da ballerine camuffate. Il comico fa il suo ingresso e dice sconcezze. Risate sonore per facezie stupidissime. Passaggio dal tono semiserio a quello licenzioso. La buona borghesia in sala assomiglia al popolo becero di periferia, che è scusato dal candore e dall’ignoranza. “I mille spettatori borghesi, al contrario, non erano affatto ingenui, né poveri, né serbavano amore a quelle virtù e a quelle regole che sul palcoscenico venivano derise. Essi ridevano perché erano persone volgari: essi erano plebei arricchiti, divenuti scettici grazie al denaro loro, erano i nuovi borghesi cattolici”. Sulla scena appaiono quattro pellegrini in tenuta fratesca. Ballano lamentandosi dei calli, dovuti al loro recarsi di chiesa in chiesa. Il tutto per un gioco di parole su san Calisto. Signore e signorine elegantissime e leziose ridono decisamente. “Se la nostra borghesia ride dei santi, a teatro, e ride perché si parla dei calli di san Calisto, è segno che davvero qualcosa di grave è accaduto”. “Ogni cosa perde forma e carattere […] tutto s’accorda e si mescola e si confonde in un grigio quadro di bassi interessi, in quella generale concordia dei marci e degli inetti e dei furfanti, che ora si chiama democrazia, che ieri si chiamava in altro modo e che non muta mai”.
“La grossa borghesia reagisce agli scioperi quando questi scioperi la danneggiano, ma non reagisce alla minaccia della cultura comunista e ride di McCarthy”. “Il variare dei gusti e delle abitudini non la turba. Essa crede che la politica sia un equilibrio di forze e che occorra patteggiare con l’avversario piuttosto che rafforzare se stessa. Rafforzarsi significherebbe compiere sforzi e sacrifici assai più costosi del lento retrocedere a cui si piega di giorno in giorno”. “Come il proletario, il borghese aspira alla libertà dalla fatica e dai doveri”. “Il mondo tende alla semplicità, all’essenziale, all’infantile, all’idiozia: è allo stato che si affidano coscienza e doveri”. “E questa libertà, ch’è soltanto l’abitudine a precisi privilegi, rotola di giorno in giorno nelle mani della burocrazia politica dei partiti e del governo”. “La morale è un peso; soltanto le scienze esatte servono”. “Da questa offensiva borghese contro la morale in favore della pratica, vien fuori il più sciocco materialismo […] ridotto a poche nozioni utilitarie e igieniche, un materialismo volgare e godereccio già vecchio di cent’anni, da cui nasce il culto dell’inconscio, del caso, del provvisorio. Una borghesia freudiana, che non sa di esserlo…” Il desiderio di semplicità e praticità “porta questa nostra borghesia nella più oscura anticamera dell’irrazionale”.
Per costoro la patria è soltanto il luogo dove sorgono le loro fabbriche e dove godono prestigio e credito. Il resto sono illusioni di vecchi uomini. Ora essi appartengono alla grande internazionale capitalista dei borghesi erranti. L’Italia è soltanto il loro pied-à-terre europeo.
Il milanese è moderno, orgoglioso, lavoratore, ottimista; disdegna il vecchio e la propria storia e tradizione, quando non sono assimilabili alla modernità. I monumenti, come il Duomo, sono cimeli prestigiosi e nulla più. Ma il milanese non è cattivo: i napoletani possono farsi strada tra i meneghini.
In compenso, alla metà del secolo scorso esistevano i borghesi minuti ancorati al passato, risentiti contro il capitale disinvolto e il popolo minaccioso. Si sentivano custodi dell’ordine che reggeva ancora il paese. Era una “piccola borghesia che sembra rimasta fuori del tempo, fedele a un risparmio che non serve più”. Il ceto medio “crede nelle proprie virtù”, “crede soltanto nel proprio ordine, oltre il quale non scorge che rovina”. “Tutto, in Italia, procede nel peggiore dei modi, a giudizio del piccolo borghese, ma egli crede di potervi porre rimedio; è certo di riuscirvi spendendo di meno, lavorando di più e meglio […] crede in sé, crede in ciò che ha imparato a scuola; egli disprezza ricconi e straccioni, lavori vili e ‘carrozzoni’”, “ha un concetto ancora nobile del lavoro e del denaro; conserva il disprezzo cristiano del lusso e dell’usura; ha coscienza dei suoi limiti e rispetto delle miserie umane. La storia non è trascorsa invano: qualcosa hanno lasciato in lui le rivoluzioni e le guerre, le idee e i miti […] Possedere un ideale è la sua vera ricchezza, il suo vanto, il suo segno di distinzione”. “Egli si sente autorevole e ama l’autorità […] perché l’autorità, ai suoi occhi, è un’astrazione che nasce dal bene e dal giusto, e che nessuna forza, né la ricchezza né la massa, corrompe: è un reame cui egli appartiene, di cui si sente soldato”. “Il piccolo borghese, pur incalzato dalla miseria, non ha mutato di molto. E possiamo ancora rintracciare i suoi pregi nella borghesia di cui parla Balzac”. Il quale dice che essa è tuttavia “buona, servizievole, devota, sensibile, pietosa” e sottoscrive “per i greci, le cui piraterie le sono ignote”; dice che “è vittima delle proprie virtù, e derisa per i suoi difetti da una società che vale meno di lei”. Essa “educa fanciulle candide, assuefatte al lavoro, piene di qualità che poi vengono diminuite al contatto delle classi superiori”.
“Tutti abbiamo almeno una zia che non va al cinematografo e che conosce dieci modi di cucinare il lesso rimasto a colazione; una zia che, passata fra due guerre, conserva intatta la sua fede nell’avarizia”. E tale avarizia “ormai, è soltanto un segno di decoro, un atto di fede, un principio morale, una norma pedagogica”. Quella nostra parente è consapevole che “i santi in cui ancora crede non fanno più miracoli. Tuttavia non ha fiducia nei nuovi”. “Osserva la prosperità dei borghesi con occhio diffidente, in attesa del peggio. E questo peggio verrà, è alle porte, è questione di tempo”. Le vecchie zie abitano le “vere case” nelle “strade che il piccone progressista degli speculatori borghesi squarcia, le ultime fortezze del decoro nazionale”. Esse sono “custodi dell’ordine classico, nutrito da un’ironia un po’ laica che non tollera il patetico cristiano e il patetico socialista; di un ordine classico, sorretto dalla scarsa fiducia nel progresso e nella bontà degli uomini e che non invita a colazione Rousseau”. “Non erano, non sono, non saranno i Cadorna, i Badoglio, i Marras i capi dell’esercito italiano: sono le zie, sono le maestre che formano le fanterie e le artiglierie, che insegnano a non fuggire, a morire. Non erano, non sono, non saranno i Giolitti, i Mussolini, i De Gasperi a tener saldo lo stato: sono le zie, le maestre: esse solo insegnarono, insegnano e insegneranno a non rubare, a non ‘fregare’, a far pulito”.
“Tutto procede nel modo più tranquillo e la tranquillità è il massimo scopo di ognuno, e ognuno è ben lieto di essere servo, pur di rimanere tranquillo: la morale non interessa più, la morale è un lusso; le idee, i miti, la fede che animano la morale non interessano più; sono vizi di un tempo meno felice, vizi che occorre perdere”. La “nuova tecnica della felicità” comporta il ripudio di “ciò che non lascia tranquilli”. “C’è una pratica, una povera filosofia della pratica che distrugge ogni passione, ogni sentimento, ogni mito. Ed è il meccanismo del benessere, il frutto del socialismo e del capitalismo associati”.
Così si comprende il principio di questa nostra era, dalla quale le “vecchie zie” non ci hanno salvato; e si è estinta la loro razza. Non è scomparsa però la fede di alcuni, la preghiera di alcuni e la speranza in Dio; il Quale, se vorrà, potrà suscitare lo spirito delle antiche maestre.