Werner Sombart (1863-1941) è stato il maggiore sociologo del suo tempo, per decenni professore
ordinario a Berlino. Fu l’inventore della parola capitalismo nel significato che ancora attribuiamo al
termine, riportò lo studio di Marx al centro della cultura tedesca e fu l’autore dello studio più
completo sullo spirito del capitalismo e sulla natura borghese. Ciononostante, il suo destino è quello
di essere pressoché dimenticato. Difficile reperire le sue opere in libreria e persino in biblioteca,
anche le due capitali, Il Borghese (1913) e Il Capitalismo Moderno (1902), entrambe riviste sino al
termine della vita.
Gli è preferito Max Weber, assai meno critico con la contemporaneità e gli viene rimproverata, con
la consueta reductio ad hitlerum, una breve adesione al nazionalsocialismo, di cui fu poi critico,
anzi, con le sue parole, “nemico mortale”. Un altro torto del grande prussiano sarebbe quello di aver
studiato scientificamente il ruolo degli ebrei nella vita economica e nello sviluppo dello spirito che
chiamiamo capitalistico. Nessun antisemitismo, anzi la vigorosa affermazione dell’importanza della
componente ebraica nella cultura e nella nazione tedesca, ma il destino complicato di chi cerca la
verità al di là di pregiudizi e convenienze.
L’opera di Sombart resta di fondamentale importanza e va studiata con attenzione non solo per
comprendere la realtà, ma per trarne munizioni ideali per una lotta storica, culturale e metapolitica
di lunga lena. Egli può essere considerato un autore anticapitalista e antiborghese, tanto che in
gioventù fu chiamato il professore rosso. Strano destino per un intellettuale destinato, dopo la
morte, a essere letto e studiato soprattutto da una certa destra.
“Poeticamente vive l’uomo”, è un verso del romantico Hoederlin; forse una delle ragioni della
scarsa fortuna dell’opera di Sombart presso le ultime generazioni è la sua natura anti accademica, la
sua preferenza per uno studio non tassonomico, freddamente espositivo di fatti o presunti tali,
avalutativo avrebbe detto il suo collega e avversario Weber, ma costituito da un approccio forte,
pervaso dal calore, impregnato di passione, interessato alle fonti più varie, dalla storia alla cronaca
del costume, dalla filosofia alla cultura materiale sino all’etnologia e all’antropologia culturale. Fu
forse l’ultimo grande della scuola storica tedesca, che tanto ha dato a discipline come il diritto, la
filosofia, l’economia, la sociologia, la scienza politica.
Il Borghese da lui descritto, protagonista della storia europea degli ultimi secoli, è l’individuo
dall’”attivismo insonne”; il capitalismo, nel suo giudizio storico, nasce “dal profondo dell’anima
europea”. Il rapporto tra la figura del borghese e il fenomeno capitalistico è l’architrave del
pensiero del Nostro, la fiamma che ha fatto divampare l’incendio che ha cambiato il volto del nostro
mondo. Nel perenne stato di insoddisfazione del borghese ritroviamo “lo spirito di Faust, lo spirito
dell’irrequietezza e dell’ansia”. Quando questo rovello continuo, la tensione inesausta tra desiderio
e zione oltrepassa la pura avidità per dedicarsi a realizzare obiettivi, rintracciare risorse e capacità
nasce l’impresa, ovvero sorge “lo spirito dell’impresa capitalistica”. È la piena, concreta
realizzazione dell’anima borghese, sconfitta a partire del 1968, data di nascita di un nuovo singolare
esperimento neo capitalista, antiborghese e del tutto alieno da qualunque considerazione morale.
Come Karl Marx, Sombart descrisse l’”immensa forza distruttrice di tutte le vecchie formazioni”,
ma lo fece con sgomento, senza il compiacimento dell’uomo di Treviri, ammiratore del percorso
distruttivo del passato intrapreso dalla borghesia. Egli mosse dal medioevo, dall’epoca dei comuni,
da un’Europa attraversata da eserciti ma anche da mercanti che trasportavano lettere di credito e
annotavano i loro affari su quaderni di partita doppia.
L’efficacia culturale di Sombart sta nella sua capacità di scoprire, dall’alto di un’erudizione
sterminata, costruita in anni di pazienti ricerche in biblioteca, le diverse espressioni dello spirito
capitalistico nei vari popoli europei e poi negli Stati Uniti, la potenza nuova di cui intuì il ruolo
capitale. Analizzò e portò alla luce fattori extra economici, comportamentali, la tempra morale dei
singoli e il clima culturale circostante, l’importanza delle scoperte tecniche, della religione,
l’organizzazione concreta dello Stato, il ruolo dei consumi di alto livello, cui dedicò un’intera
opera, Lusso e capitalismo, le diverse attitudini dei popoli. Straordinaria è la sua capacità di servirsi
dell’opera di grandi del passato, letterati come Daniel De Foe, e poi personalità del tipo di Benjamin
Franklin, passando agevolmente dalla poliedrica figura rinascimentale di Leon Battista Alberti alla
tradizione religiosa medievale britannica di Beowulf fino a citare la Voluspa, parte della saga
nordica dell’Edda.
Il quadro tratteggiato da Sombart è di grande complessità, problematico e consapevole della carica
eversiva dei fenomeni che studia. Nel Borghese c’è un brano iniziale che ci sembra emblematico del
suo intero approccio: “L’uomo precapitalistico è l’uomo naturale, l’uomo come Dio lo ha fatto. È
l’uomo che non si pone in equilibrio sulla testa, camminando sulle mani, ma sta saldo in terra sulle
sue gambe e su esse traversa il mondo”. Crediamo che basti da solo a spiegare l’universo di
Sombart, le sue preferenze e convinzioni, spiegando altresì l’ostracismo di cui è circondata da
decenni la sua figura. Per analogia, ci sovviene un grande anti liberale di matrice cattolica del
secolo XIX, la cui opera Sombart certamente conobbe, Donoso Cortés: “Non si possono conciliare
le utopie liberali con le leggi naturali della vita, con i dogmi della fede cattolica, con la stessa
realtà quotidiana”.
L’utopia è diventata realtà, la natura è combattuta, negata in radice, Dio è un ipotesi del passato
buio, infanzia dell’umanità. Vince non tanto il weberiano disincanto del mondo, ma l’inesausta sete
di accumulo, cambiamento, il materialismo dialettico. L’opera di Sombart dà conto di cambiamenti
epocali dell’anima europea, studiati in ogni loro componente, smascherando magistralmente
motivazioni, moventi e fini di un fenomeno, il capitalismo, il cui spirito si è realizzato attraverso un
particolare tipo umano, il borghese divenuto prima mercante, poi imprenditore.
Secondo alcuni, il limite della trattazione sombartiana sta nella natura intuitivo-artistica di molte
pagine, tanto lontane dalla seriosità un po’ grigia di altri studiosi. Al contrario, proprio lì risiede il
fascino della limpida prosa del professore di Ersleben, che, nell’autunno della vita e in mezzo alla
tempesta nazionalsocialista trovò modo di scrivere un testo di antropologia culturale, Von Menschen
(A proposito dell’uomo), in cui smontò i presupposti del razzismo biologico. Non fu senza
significato il titolo Metafisica del capitalismo di una sua raccolta di scritti pubblicata da una piccola
casa editrice anticonformista, che abbiamo posto come titolo delle presenti note.
Il nucleo centrale della sua opera resta la scoperta della relazione tra i rapporti di produzione di tipo
capitalistico e la società moderna, concepita come realtà globale composta di struttura, cultura,
personalità, motivazioni e valori. Esiste una sorprendente convergenza tra Sombart, Marx e Max
Weber sul terreno delle contraddizioni strutturali e funzionali del capitalismo e più ancora nella
scoperta della burocratizzazione dei rapporti sociali e della vita che si colloca al di là del
capitalismo e del suo avversario di ieri, il socialismo, investendoli entrambi. Ciò che determina
l’originalità sombartiana è piuttosto l’insistenza sullo “spirito” del capitalismo, ovvero l’analisi
sinottica delle mentalità, dei valori, orientamenti e condotte alla base del fenomeno.
La gelida indole dello scienziato sociale cede volentieri al poeta della civiltà, allorché afferma che il
capitalismo è nato dal profondo dell’anima europea. Era, per così dire, iscritto in taluni principi che
il tempo e le circostanze hanno portato alla luce. Così prosegue: lo stesso spirito da cui è sorta la
nuova scienza e la nuova tecnica, crea anche la nuova vita economica. Si tratta di uno spirito terreno
e mondano, uno spirito che dispone di un’immensa forza distruttrice di tutte le formazioni naturali,
dei vecchi legami, delle antiche barriere, ma forte anche perché capace di costruire nuove forme di
vita, nuove creazioni, artistiche e artificiali. Uno spirito, appunto, un “geist” di lungo periodo, che è
il medesimo di Faust, “lo spirito dell’irrequietezza, dell’ansia che anima ora gli uomini. Questo
stesso spirito comincia a dominare anche nella vita economica. Esso spezza le barriere
dell’economia tendente alla copertura del bisogno, fondata sulla moderazione e l’equilibrio, statica,
artigianale e feudale e sospinge gli uomini nel vortice dell’economia acquisitiva.”.
A differenza di Weber, che ricostruisce freddamente i nessi del capitalismo sezionato con il bisturi
del patologo sociale, Sombart esprime una netta condanna morale, poiché, accanto allo spirito
innovativo, vede svilupparsi e vincere il principio materiale, lo “spirito borghese”, dedito a ordinare
e conservare ciò che l’animus imprenditoriale guadagna e conquista. Grande è la divergenza con
Weber anche nel giudizio sulle radici religiose. Se per Weber il ruolo innovatore è legato all’etica
protestantica, che santifica il lavoro come vocazione (beruf), esso è al contrario per il prussiano un
fattore involutivo per la sua insistenza su ascesi e sacrificio, eccetto il calvinismo nelle sue versioni
ginevrina e scozzese. Per Sombart è invece il cattolicesimo, per il tramite del tomismo, a meglio
interpretare la tendenza al guadagno puramente mondana, pur nella cornice aristotelica della
condanna dell’usura (crematistica).
Al di là delle polemiche, la grande intuizione dell’ex professore rosso è stata quella di aver mostrato
e compreso i limiti di una società altamente progredita dal vista tecnico, ma incerta, divisa
egoisticamente e priva di mete ultime. Molto interessante è una riflessione di Sombart che muove
dalla critica al marxismo, ma può essere letta oggi in chiave anti liberale: “Comincerò la mia critica
con l’esame di quelle teorie che sono false perché i loro autori […] credevano di porre tesi
scientificamente dimostrabili e proponevano invece un sistema metafisico. Pongo fra questi quasi
l’intera filosofia della storia di Karl Marx: il suo naturalismo sociale, la sua concezione
materialistica (economica) della storia, il suo evoluzionismo. Non corrisponde certo ad un dato
dell’esperienza che la storia umana sia una parte della storia naturale e che sia dominata da leggi
naturali. L’esperienza anzi dimostra l’autonomia irriducibile delle leggi dello spirito e delle sue
creazioni. L’esperienza ci insegna che gli uomini hanno la capacità di decidersi liberamente e di
entrare o no con piena coscienza in rapporti collettivi di produzione. L’esperienza ci dice che non
sono sempre gli interessi economici, ma più spesso altri interessi – religiosi, politici – che tengono il
primato nella storia”.
Oggi siamo al triste trionfo di un principio assurdo e antistorico. Affermano che “non c’è
alternativa”, acronimo TINA (there is no alternative) al presente stato di cose. Il liberismo
economico sarebbe un dato di natura, la presenza umana nel mondo avrebbe come scopo lo scambio
di beni sul mercato, unico ambiente “razionale” e quindi autenticamente umano. Una follia.