di Don Marcello Stanzione
L’esistenza di Dio salta agli occhi per chi ha occhi da vedere. I cieli veramente narrano la gloria di Dio e l’universo si rivela come opera delle sue mani. Per affermare che Dio esiste realmente dobbiamo partire dalla realtà: non la sua (che non risulta) ma del mondo, l’unico a noi accessibile. Resta allora da chiedersi se il mondo debba la propria realtà “da se stesso” o da un “Altro”.
Il mondo interrogato, risponde esibendo indizi inequivocabili della sua insufficienza a spiegare la propria realtà. Sono: la “composizione”, che esige un Componente …; la “contingenza”, che rimanda al Necessario …; il “divenire”, che postula l’Atto Puro …; la “causalità particolare e relativa, dipendente e compresa da una Causa universale e assoluta …; l’ “eteronomia” che suppone una Legge suprema o Mente ordinatrice …
Ed ecco la dimostrazione a posteriori dell’esistenza di Dio: col suo dato positivo offerto dall’esperienza del reale (appunto gl’indizi dell’insufficienza del mondo ora elencati), e l’applicazione del principio di causalità quale principio dell’ente, astraendo dal quale il mondo sarebbe contradditorio, se non dipendesse da un “Altro”.
La metafisica generale rivela la fecondità delle sue conclusioni scendendo dal livello dell’ente in quanto ente a quello dell’ente-che-si-determina nel mondo e soprattutto nell’uomo o persona, il più vero e perfetto di tutti gli enti. Perciò, cosmologia e antropologia, spingendo le proprie ricerche per raggiungere la soluzione definitiva dei rispettivi problemi, non possono – dal loro versante – non risalire a Dio, l’Assoluto, Causa Prima e Fine Ultimo di quanto riguarda “cose” e “persone”.
Da qui la molteplicità delle prove dell’esistenza di Dio, le quali, nell’ambito della riflessione metafisica, ripetono la propria efficacia dimostrativa solo a condizione che gli aspetti propri della natura e dell’uomo siano penetrati e interpretati in ultima istanza alla luce dell’essere.
Quelli che negano l’esistenza di Dio sono senza scusa, come dice S. Paolo; infatti “gli attributi invisibili di lui, l’eterna sua potenza e la sua divinità, fin dalla creazione del mondo si possono intuire, con l’applicazione della mente, attraverso le sue opera” (Romani 1,20).
Per negare Dio si deve andare contro la convinzione del genere umano, contro i principi più evidenti del senso comune e contro la più elementare logica. Senza con questo riuscire a distruggere Dio, perché negare non è distruggere: Dio si libra ancora intatto nei cieli e aspetta la sua ora.
Ammessa l’esistenza di Dio, derivano logiche tre conclusioni.
- Dio è il principio della razionalità dell’universo. Certamente il mistero di Dio in fondo resta intatto: noi concepiamo Dio come l’opposto agli effetti da spiegare, e quindi sappiamo piuttosto quel che Dio non è. Dio resta un abisso di oscurità. E quando tentiamo di analizzarlo in se stesso, o peggio quando analizziamo il nostro rapporto con lui, ci imbattiamo in difficoltà e in (apparenti) antinomie. Dio resta un punto oscuro. E tuttavia è proprio quel punto oscuro che fonda la razionalità dell’universo e risolve tutti i nostri problemi. Ammesso Dio, tutto il resto diventa chiaro, anche se Dio stesso resta oscuro; negato Dio, tutto diventa incomprensibile e assurdo. Se Dio c’è, nessun’altra spiegazione è necessaria; se Dio non ci fosse, nessuna spiegazione sarebbe possibile. O Dio col suo mistero, o l’assurdità radicale.
- Dio è il punto che dà una direzione alla nostra vita pratica, morale. La vita con o senza Dio scava, deve scavare un abisso di differenza. Negato Dio, non c’è che da abbandonarsi agli impulsi che capitano, momento per momento, senza meta e senza scopo. La vita, ripeterebbe Shakespeare, è come il racconto di un idiota, pieno di confusione e di terrore, che però in fondo non significa nulla. Ammesso Dio, soprattutto, in tutto, prima di tutto, si deve cercare Dio, obbedire a Dio, seguendo i dettami della propria coscienza debitamente formata e illuminata. Ritorna qui il gioco del “pari” di Pascal, ma in senso ormai assoluto. Bisogna puntare su Dio, costi quel che costi: e vincere, vuol dire vincere tutto e per sempre. Puntare su qualunque altra cosa che non sia Dio, è un suicidio incommensurabile: perdere la partita della vita, e per sempre.
- All’umanità si pone il problema se Dio abbia parlato in modo speciale, con particolari rivelazioni. I Greci ricorrevano all’oracolo di Delfi, come i Romani dicevano che la divinità aveva rivelato leggi e ordinamenti a Numa Pompilio mediante la Ninfa Egeria. E Platone (Fedone, 85 c–d) fa dire a Simmia che per l’immortalità dell’anima e altri problemi vitali l’uomo deve indagare al massimo per trovare un argomento convincente; e deve almeno “accogliere quello dei ragionamenti umani che sia se non altro il migliore e il meno confutabile, e, lasciandosi trarre su codesto come sopra una zattera, attraversare così, a proprio rischio, il mare della vita: salvo che uno non sia in grado di fare il tragitto più sicuramente e meno pericolosamente su più solida barca, affidandosi a una divina rivelazione”. Nel fatto questa divina rivelazione c’è stata. A tutti si impone quel filone storico che va da Abramo alla Chiesa attuale, e si incentra in Gesù di Nazareth. Gesù di Nazareth si pone di fronte a tutti, e tutti devono prendere posizione: il non prendere posizione, è già un rigettarlo, è un prendere posizione. Gesù si è proclamato fermamente e chiaramente inviato di Dio, figlio di Dio. Chi non lo ammette per tale, in realtà lo liquida, alla sbrigativa, come un pazzo o un demonio. Ma la partita resta aperta. E … se veramente Gesù fosse inviato di Dio, figlio di Dio? Allora i suoi sbrigativi giudici e schernitori saranno a loro volta un giorno giudicati da lui, questa volta senza appello, e per l’eternità. Chi invece ammette che Gesù è inviato, Figlio di Dio, deve quindi ammettere che Dio ha parlato per mezzo di Gesù. E bisogna credere a ogni parola di Gesù, anche se enuncia misteri; e dobbiamo obbedire a ogni sua parola, anche se ci costa. Perché è Parola di Dio.