1° agosto 2016
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Nell’anno della conversione = = = = = = = = =
di Fabio Trevisan
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“Il problema del mondo moderno è il mondo moderno e la cura verrà da un altro mondo”
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Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) si convertì ufficialmente alla Chiesa Cattolica Romana (come amava definirla) nel 1922. Lo stesso anno pubblicava delle interessanti riflessioni, raccogliendole in un volume di memorie del suo recente viaggio del 1921 negli Stati Uniti d’America, dal titolo: “Quello che ho visto in America”.
Come si sa, lo scrittore inglese era pure un grande giornalista e tra i mali del mondo moderno che sovente denunciava c’era anche il modo di fare giornalismo, che rimaneva per lui non una mera descrizione di un fatto di cronaca: “Il fatto senza verità è una cosa futile; perché il fatto senza la verità è una cosa falsa”. Quando morì nel 1901 la regina Vittoria, Chesterton scrisse alla sua futura moglie Frances Blogg (che sposerà lo stesso anno) una commovente lettera nella quale affermava che avrebbe voluto donare all’Inghilterra l’amore per la Verità (il testo completo della lettera si può leggere nella biografia curata da Michael Finch). Per Chesterton quindi l’adesione alla verità del cattolicesimo, alla sua ortodossia e ai suoi dogmi era stata una conquista faticosa e la proclamava in modo chiaro e solenne: “La Chiesa è il luogo dove tutte le verità si danno appuntamento”.
Sapendo tuttavia delle sofferenze patite e del martirio subito di tanti cattolici in Inghilterra, egli celebrò con queste parole la città di Baltimora negli U.S.A. : “Lo Stato del Maryland fu il primo esperimento di libertà religiosa della storia”. Chesterton intendeva così rendere memoria a Cecilius Calvert, Barone di Baltimore (1605-1675), che era stato il fondatore della colonia del Maryland, voluta come rifugio per i cattolici perseguitati in Inghilterra.
Durante il suo viaggio statunitense, dove tenne delle brillanti ed applaudite conferenze, Chesterton appuntò alcune riflessioni sul modo di vivere del giovane popolo americano e sull’abbandono della campagna. Era stato al cinema, ma egli preferiva l’osteria, la taverna della vecchia Europa dove davvero oltre a riconoscere se stesso umilmente come un “semplice umano” era possibile incontrare l’uomo comune: “Il cinema si vanta di essere il sostituto della taverna, ma io penso che sia un sostituto davvero pessimo. Nessuno ama il cinema più di me, ma lì per divertirsi un uomo deve solo guardare, non importa neppure che ascolti, mentre alla taverna deve parlare. Talvolta, lo ammetto, deve fare a botte; ma al cinema bisogna che stia attento a non muoversi”.
Questi pensieri apparentemente innocui costituivano la cifra essenziale del suo essere “anti-moderno”. Erano considerazioni che, prese tutte assieme, rendevano palese come la sfera e la croce, il mondo e la Chiesa Cattolica fossero incompatibili, come ebbe a dire in un altro suo saggio: “Noi non vogliamo una Chiesa che si muova con il mondo, ma che muova il mondo; anzi, che lo rimuova da ciò verso cui il mondo sta muovendo”. Non erano quindi impressioni vaghe e “soggettive” quelle che lui fece durante il soggiorno in America: “Ciò che di sbagliato c’è nel mondo moderno non verrà aggiustato rovesciando l’intera responsabilità della malattia a turno su ciascuno dei sintomi; prima alle osterie e poi al cinema e poi all’ufficio dei giornalisti. Il male del giornalismo non è nel giornalismo. Non è nei poveri uomini che stanno ai piedi della piramide professionale, ma negli uomini ricchi che stanno in cima a essa…è la plutocrazia americana, non la stampa americana”.
Osservando città come Philadelphia e Boston egli annotava la volgarità moderna prodotta , secondo sue testuali parole, dall’avarizia e dalla pubblicità e si poneva il problema di cosa fosse la “tradizione” per gli americani. Riconosceva in loro che: “Non hanno mai udito l’antico rumore degli artigiani e delle armi, la fabbrica di una cattedrale o la marcia dei crociati. Ma se non altro non hanno deliberatamente diffamato le Crociate e sfregiato le cattedrali…Sanno seminare e arare e mietere e vivere di queste cose immortali”. Ricordava e ci ricorda ancora adesso il vero significato della tradizione: “Tradizione non significa una città morta; non significa che i vivi sono morti, ma che i morti sono vivi”.
4 commenti su “L’angolo di Gilbert K. Chesterton – Grandezza e attualità di uno scrittore cattolico – rubrica quindicinale di Fabio Trevisan”
Vorrei incorniciare quest’ultima frase “Tradizione non significa una città morta; non significa che i vivi sono morti, ma che i morti sono vivi”. ha in sè la sntesi delle nostre più alte aspirazioni ,quando i cattolici torneranno a vedere con questi occhi , il nostro povero mondo risorgerà.
Gli americani di allora sapevano seminare, arare e mietere e probabilmente lo sapranno fare tuttora, ma chissà se ancora sanno vivere di queste cose immortali, infarciti come sono di una mentalitá che si ispira alla necessità dell’utile e del successo, costi quel che costi. L’America non è più q uella che era o che ci hanno fatto credere che fosse. Ma chissà che non si svegli e dai piedi della piramide riesca a intravvedere il male che imperversa sopra la sua cima e in un sussulto di orgoglio e di sana memoria dimostri quanto sia giusto che i morti siano ancora vivi.
Mi ha colpito molto la frase: “Il cinema si vanta di essere il sostituto della taverna (…)”. Che cosa direbbe oggi di internet e dei cosiddetti “social network”? Sono la morte della socializzazione faccia a faccia.
Anche il discorso sulle responsabilità sociali della “plutocrazia” americana fa riflettere e ricorda un po’ Mussolini.
Sto leggendo proprio adesso questo libro e anche a me la frase che più mi è rimasta impressa è quella del titolo: il problema del mondo moderno è il mondo moderno e la cura verrà da un altro mondo.