Un importante prelato cattolico ha recentemente asserito che la Cina sarebbe un modello di applicazione della dottrina sociale della Chiesa. Dichiarazioni folli e insensate, giacché avvicinare il tecno capitalismo autoritario in salsa comunista e confuciana dell’Impero di Mezzo e la dottrina sociale è impresa che richiede grandi doti acrobatiche oltreché una formidabile faccia tosta.
In tempi di iper capitalismo e per converso di nuovi statalismi, è urgente restituire voce a una delle più limpide figure di intellettuale del secolo XX, Gilbert K. Chesterton. Non si tratta soltanto di rileggere la sua vasta produzione letteraria o di rammentare la straordinaria vena di polemista ed ironista dell’inventore di Padre Brown. Ci interessa in particolare il suo intenso lavoro di animatore e divulgatore di una teoria economica, il distributismo, concreta traduzione in realtà della dottrina sociale cattolica, ispirata da Leone XIII (Rerum Novarum, 1891), Pio XI (Quadragesimo Anno, 1931) e più recentemente da Giovanni Paolo II, con le encicliche Sollicitudo Rei Socialis (1987) e Centesimus Annus (1991).
Ancora più importante è riferirci al grande scrittore cattolico inglese (1874-1936) dopo che Jorge Mario Bergoglio, in Fratelli tutti, ha fornito una lettura distorta, assai vicina a quella collettivista, dell’istituto della proprietà privata. Chesterton, in linea con la dottrina di sempre e con il diritto naturale, pensava che Il problema del capitalismo non fossero i troppi capitalisti, ma i troppo pochi capitalisti. Voleva cioè combattere concentrazioni e monopoli per estendere al massimo la proprietà, distribuirla al maggior numero di persone e soggetti sociali. Una visione profetica che anticipa il presente, in cui pochi iper ricchi, i padroni universali, cumulano una ricchezza e un potere immensi, impensabili al tempo di Chesterton. L’idea chiave del distributismo, una sorta di uovo di Colombo economico, è che la proprietà – della casa, della terra, dei “mezzi di produzione” – è un potente elemento di crescita personale e comunitaria, nonché di responsabilità civica da diffondere (distribuire) il più possibile.
Sono sempre stati numerosi i tentativi di sfigurare, distorcere e denigrare il pensiero economico di Chesterton. Non stupiscono gli attacchi di chi lo ha posto nel mirino in quanto apologeta della fede; colpiscono di più le false rappresentazioni provenienti da un cattolicesimo guardingo, difensivo, che ha spesso manipolato Chesterton concentrando gli attacchi sul suo pensiero economico, attraverso la totale elusione e la falsa rappresentazione. Costoro, con irritante sufficienza, hanno spesso descritto il distributismo come una dottrina economica insoddisfacente. In verità Chesterton non ha mai preteso di essere un economista, né ha inteso formulare una precisa dottrina economica, come è assai chiaro a chi legga Il profilo della ragionevolezza, considerato il manifesto distributista. Piuttosto, ha tracciato alcune linee guida per un’organizzazione economica basata sulla distribuzione della proprietà privata – in opposizione alla concentrazione monopolistica su cui si basa il capitalismo – sempre sostenuta dal pensiero tradizionale.
Chesterton non si addentra nelle formulazioni tecniche, né pretende di elaborare un sistema al modo di un Keynes o di Milton Friedman; si sforza piuttosto di restituire ai suoi lettori un criterio mentale e morale cristiano, sottolineando che il capitalismo “crea un’atmosfera e forma una mentalità”, ossia non si limita a organizzare l’economia, ma impone una devastante agenda antropologica. Qualcuno, per distorcere le intenzioni del pensiero economico di Chesterton, afferma che le proposte distributiste mirano a combattere allo stesso modo il capitalismo e il comunismo. Questo non è del tutto vero. Chesterton avvertiva che spesso quelli che più gridano contro il comunismo sono gli stessi che applaudono le calamità che il capitalismo ci ha portato. “Mentre quel vecchio signore urlava contro i ladri immaginari che chiama socialisti”, scrive nel Profilo della ragionevolezza, “è stato effettivamente catturato e portato via da veri ladri che non poteva nemmeno immaginare“.
Fu consapevole dell’errore storico che stavano commettendo molti cattolici nella difesa del capitalismo, impegnato – esattamente come il comunismo – a creare “una civiltà centralizzata, impersonale e mono- tona capace di distruggere ogni resistenza umana.” Non si stancò di proclamare che “il capitalismo ha fatto tutto ciò che il socialismo minacciava di fare”. Osò anche sottolineare che i “piaceri permissivi” offerti dal capitalismo corrompono assai più di quelli offerti dal socialismo. Il tempo gli ha dato ragione: senza dubbio, il comunismo ha ucciso più corpi del capitalismo, ma non ha distrutto così tante anime.
Chesterton sapeva bene che il capitalismo non è solo una meccanica economica nefasta, che “costringe le persone a comprare ciò che non vogliono comprare e produrre così goffamente affinché il prodotto si rompa, supponendo che lo vogliano acquistare ancora una volta, mantenendo in rapida circolazione robaccia, paccottiglia”, il che lo colloca tra i primi critici del consumismo. Il male oscuro capitalista è la sua antropologia distruttiva che, per raggiungere i suoi obiettivi, ha bisogno di dissolvere le comunità umane, materialmente – costringendole alla povertà e all’emigrazione- e spiritualmente – interrompendo la loro vita morale e smantellando le strutture che la sostengono, a cominciare dalla famiglia. Il capitalismo e l’anti natalismo sono due facce della stessa medaglia, poiché il capitalismo ha bisogno di stimolare tutte le forme di “religione erotica” che prevengono o ostacolano la fertilità.
Quest’inesausta opera di distruzione antropologica si dispiega astutamente, attraverso alibi emotivi e maschere umanitarie, presentandosi come campione dei movimenti sociali e delle ideologie che interessano il suo scopo primario, l’accrescimento, il monopolio, la dominazione. Interessante e profetico è anche il disvelamento “consumistico” del soggettivismo contrario alle nascite. Citiamo dal Profilo della ragionevolezza: le nascite sono impedite perché la gente vuole” essere libera di andare al cinema o di comprare un giradischi o una radio. Quello che mi fa venir voglia di calpestare queste persone come zerbini è che usano la parola libero, quando con ciascuno di questi atti sono incatenati al sistema più servile e meccanico che sia stato tollerato dagli uomini. “Parole dure come pietre, da gettare in faccia per primi ai “cattolici liberali”, poiché questo sistema “servile e meccanico” non si limita all’organizzazione dell’economia, ma è innanzitutto un immenso sistema operativo di ingegneria sociale che distrugge le comunità umane.
Troppo spesso idee come quelle distributiste sono liquidate dagli osservatori pigri come “terza via”, intermedia tra il collettivismo e il socialismo. Non è così: il distributismo è un’altra cosa. Capitalismo e comunismo, è ormai evidente da decenni, sono fratelli; fratelli – coltelli, ma figli della medesima cultura materialista e giacobina. Le nostre generazioni sono state educate in dicotomie superate, rozze e manichee, lievito di passioni settarie che si rivelano il modo migliore per tenere prigionieri i popoli nella caverna platonica.
Il profondo sodalizio di amicizia e affinità spirituale tra Chesterton e lo scrittore naturalizzato britannico Hilaire Belloc fu alla base dell’avventura distributista. Tale fu l’importanza della loro intesa che George Bernard Shaw, avversario in anni di dispute intellettuali, coniò per loro il termine “Chesterbelloc”. Nel suo testo fondamentale, Lo Stato servile (1912), Belloc scrisse: “definiamo Stato servile l’ordinamento di una società nella quale il numero di famiglie e di individui costretti dalla legge a lavorare a beneficio di altre famiglie e altri individui è tanto grande da far sì che questo lavoro si imprima sull’intera comunità come un marchio. Capitalismo da un lato e socialismo dall’altro, a dispetto dei loro proclami inneggianti alle libertà, hanno assoggettato la massa degli individui a una nuova schiavitù. E se questi due modelli, per il resto antitetici, hanno un elemento che li fa simili, esso è l’esproprio della libertà del cittadino che entrambi ugualmente operano: il primo indennizzandone il prezzo con i lauti consumi che è in grado di assicurare; il secondo con la sussistenza e la previdenza garantite“.
Hilaire Belloc ritrae con sorprendente chiaroveggenza l’intima comunione tra capitalismo e comunismo, i quali condividono una realtà, lo Stato servile, in cui una massa di individui senza libertà e proprietà lavorano a vantaggio di una plutocrazia (o di una burocrazia, nel caso comunista) che monopolizza tutta la proprietà. Si generano così, sotto le spoglie democratiche, due classi di uomini: una prima classe, piccolissima, in possesso dei mezzi di produzione; e una seconda, priva di libertà economica o politica, sempre più animalizzata, alla quale è assicurata la soddisfazione di alcuni bisogni vitali, con l’aggiunta di nuovi “diritti” intimi che la rendono sterile e di alcuni droghe spirituali- dalle serie televisive all’ eutanasia – per rendere più sopportabile il tedio di vivere.
Per combattere il capitalismo ci sono due metodi: negare la proprietà privata, attraverso l’istituzione del comunismo; o promuovere la distribuzione equa e più ampia possibile della proprietà. Curiosamente, il capitalismo rifiuta il secondo modello, facendo credere alle masse cretinizzate che sia inapplicabile, e finisce sempre per allearsi con il collettivismo. Perché? Perché sa che ogni riforma di ispirazione socialista finisce per produrre una società in cui i proprietari continuano ad essere pochi e in cui le masse preferiscono una pur minima sicurezza economica in cambio della servitù. La distribuzione della proprietà, d’altra parte, è inaccettabile per il capitalismo; i suoi difensori sono sistematicamente demonizzati sia dai sostenitori del capitalismo sia dalla sinistra progressista, che finge di sostenere il comunismo, ma ha il compito di condurre le greggi umane verso gli ovili dello stato servile.
Il problema è che l’economia distributista propone la soluzione più difficile, contraria alle inerzie del capitalismo e alla comoda pigrizia collettivista. É complicato convincere un paziente, riconosce Chesterton, che per recuperare le sue membra atrofizzate, deve sacrificarsi ed eseguire certi esercizi con perseveranza e disciplina, mentre il comunista mette a disposizione del malato una sedia a rotelle. Inoltre, il comunista si adatta completamente alla società capitalista degenerata che intende sostituire: lavora con gli stessi metodi e strumenti del capitalismo; parla e pensa negli stessi termini; coltiva ed esacerba gli stessi appetiti, le medesime ambizioni e risentimenti. Entrambi, liberali e collettivisti, deridono come antiquate e chimeriche le antiche virtù cristiane “la cui memoria è stata uccisa dal capitalismo nelle anime degli uomini dovunque arrivasse il suo flagello”.
Così, la lega di capitalismo e comunismo consegue lo stato servile, in cui una folla di diseredati si congratula per la propria servitù e plaude con gratitudine il demagogo che fornisce la pastura. Così le società moderne finiscono per assimilare “quel principio servile che era il fondamento prima dell’arrivo della fede cristiana, principio da cui questa fede l’ha lentamente emancipata, e al quale ritorna naturalmente con il suo declino”.
Il distributismo ha un’ulteriore caratteristica, quella di agire in nome della ragionevolezza e del senso comune: nessuna utopia o ansia di raddrizzare il legno storto di cui è fatta l’umanità, bensì l’unione del capitale nel lavoro, una moneta libera da debito e la rinascita dei “corpi intermedi”, ossia delle varie funzioni e compagini sociali in cui si svolge concretamente la vita umana, insieme con il primato della famiglia naturale fondata sul matrimonio. Ne Il Pozzo e la Pozzanghera Chesterton pronuncia parole definitive. “Non si ripeterà mai abbastanza che ciò che distrusse la famiglia nel mondo moderno fu il capitalismo. Nessun dubbio che potrebbe essere stato il comunismo, se il comunismo avesse mai la possibilità di uscire da quei confini primitivi e quasi mongoli in cui è fiorito. Ma per quanto ci riguarda, ciò che ha spaccato i focolari, e incoraggiato i divorzi, e ha guardato con sempre più disprezzo alle virtù domestiche, è l’epoca e la potenza del capitalismo. E’ il capitalismo che ha portato le tensioni morali e la competizione affaristica tra i sessi, che ha sostituito all’influenza del genitore l’influenza del datore di lavoro; che ha fatto sì che gli uomini abbandonassero le loro case per cercare lavoro; che li ha costretti a vivere vicino alle loro fabbriche o alle loro ditte invece che vicino alle loro famiglie; e soprattutto che ha incoraggiato per ragioni commerciali, una valanga di pubblicità e di mode appariscenti che per loro natura uccidono tutto ciò che erano la dignità e il pudore dei nostri padri e delle nostre madri”.
La proprietà va difesa in quanto, sostiene Chesterton, è “un punto d’onore”. La sua abolizione è giudicata con tipico humour britannico, come qualcosa che, oltreché sbagliato, è altamente improbabile: “devo sforzarmi non poco per immaginare lo scenario bizzarro e innaturale in cui un giorno l’umanità dimenticherà completamente il pronome possessivo.” La pensava allo stesso modo Belloc, che così si esprimeva nello Stato servile: “se non restaureremo l’istituzione della proprietà, non potremo scampare all’instaurazione della schiavitù”. Era il 1912, prima della rivoluzione bolscevica, e il riferimento era al capitalismo monopolistico. Più volte ci è toccato ripetere che nel secolo globalista l’attacco alla proprietà privata non viene dai collettivisti di ieri, ma dai capitalisti di sempre, il cui monopolio avanza verso la concentrazione di tutto- acqua, conoscenza e vita umana compresa- nelle loro mani.
Profondamente realista è l’accento posto sui bisogni dell’uomo come provenienti dal “cuore”, un’espressione che esprime l’unione inscindibile di corpo, spirito e materia della persona umana. Il lavoro non è una merce ed è alla proprietà privata diffusa che si lega la vera libertà: famiglia, proprietà, terra e organismi di solidarietà sociale (gilde, corporazioni, libere associazioni) devono camminare insieme. Amico e collaboratore di Chesterton fu Vincent Mc Nabb, sacerdote cattolico, per il quale lo Stato non deve vivere in modo parassitario sulle famiglie e l’atomizzazione sociale; l’individualismo, il rifiuto deliberato di costruire nuove famiglie distrugge alla fine sia la società sia lo Stato. “É più vero dire che lo Stato ha dei doveri verso la famiglia piuttosto che la famiglia ha dei doveri verso lo Stato”.
L’essenza del capitalismo, per i distributisti, è la separazione tra capitale e lavoro. Da questo sistema di pensiero ha avuto origine la moneta-debito, il denaro in grado di crearsi e moltiplicarsi da solo, in mano al potere finanziario. Per Chesterton, la vera utopia, o meglio la distopia compiutamente realizzata negli ultimi decenni, “è quella dei banchieri usurai, che sono riusciti, con strumenti convenzionali privi di logica e di senso comune, a creare un mondo artificiale staccato dalla realtà, in cui l’ordine naturale delle cose si è rovesciato e l’uomo si è trovato asservito all’economia, e l’economia asservita al denaro.“ Parole struggenti e profetiche, la cui verità sperimentiamo dolorosamente sulla pelle.
Meraviglia che la grande lezione di Chesterton e dei distributisti non sia rimessa al centro del pensiero tradizionale, nella stagione in cui più violento è l’attacco del capitalismo globalista, alleato con il marxismo sconfitto sul piano economico, ma vincente sul terreno metaculturale. Occorre riprendere in mano, rileggere e inserire nell’agenda politica del XXI secolo le idee di Belloc e Chesterton, insieme con le opere del più influente dei distributisti contemporanei, John C. Mèdaille e con la lezione di Ernst Friedrich Schumacher, autore di Piccolo è bello e Guida per i perplessi, influenzato dal distributismo e cattolico convertito.
“Il capitalismo è contradditorio nel momento stesso in cui è completo. Infatti il padrone cerca sempre di ridurre ciò che il suo servitore richiede, e nel fare ciò riduce ciò che il suo cliente può spendere. Vuole insomma trattare la stessa persona in due modi contradditori: la vuole pagare come un povero ma si aspetta che spenda come un principe”. Quindi la indebita, aggiungiamo noi. Quanto alla proprietà privata, “va difesa contro la criminalità privata, proprio come l’ordine pubblico è protetto contro il giudizio privato. Ma la proprietà privata va protetta da cose molto più grandi dei ladri e dei borseggiatori. Ha bisogno di protezione contro le congiure di un’intera plutocrazia”.
1 commento su “L’alternativa distributista di Gilbert K. Chesterton”
Il capitalismo è un mostro che ha permesso a tante persone di migliorare la loro condizione di vita, ma è anche un usuraio che chiede interessi materiali ed umani spropositati .
Per vincere un mostro – usuraio ci vogliono solidi principi , e i principi hanno un costo .
Chi di noi è disposto a pagarlo ?