“La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce. Nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa, desiderio di avere e desiderio di essere. Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subito, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto”.
Così è scritto nella quarta di copertina di un libro del 2014, Critica della vittima, dello scrittore e docente universitario Daniele Giglioli. Pur muovendo da una visione del mondo assai diversa da quella del professore bergamasco, ne siamo convinti anche noi. La volontà d’impotenza che ci domina ha bisogno di una figura simbolica alla quale intestare la sua azione dissolvente. Si tratta, in verità, della maschera dietro la quale si nascondono vecchi carnefici. È tempo di superare questo paradigma paralizzante e “ridisegnare i tracciati di una prassi, di un’azione del soggetto nel mondo: in credito di futuro, non di passato”. Al di là del linguaggio che svela il debito nei confronti della cultura marxista, la rivelazione di Giglioli è una boccata di aria fresca e pulita da respirare a pieni polmoni.
Dalla politica al costume, dalla storia alla letteratura, dal diritto alla psicologia, si diffonde la sintomatologia della vittima contemporanea: l’eroe del nostro tempo, come il capitano Peçorin del romanzo omonimo di Michail Lermontov, anti eroe di una generazione priva di cause a cui votarsi. Tra le manifestazioni più vistose del neo-vittimismo, la celebrazione ossessiva della propria specifica memoria, il credo umanitario che mantiene “inermi i disarmati” e “lascia intatti gli arsenali dei forti”, l’imperativo del diritto al benessere che si rovescia in frustrazione e inadeguatezza. In ogni caso, la responsabilità del male è altrove, fuori da noi, principalmente nel passato demonizzato. Che cosa significa quindi essere vittime e quali sono le implicazioni etiche del sentirsi tali? Qual è il significato di parole come innocenza, diritto inalienabile o immunità? Si consolida una vera e propria ideologia della vittima, una strategia della lamentazione che divide la società a priori in campi nemici: rei e innocenti, vittime e aguzzini.
Ogni discussione pubblica si esprime in termini di vittime e carnefici. Le donne sono vittime degli uomini, i neri dei bianchi, gli omosessuali degli eterosessuali, gli invalidi dei non invalidi, i discendenti delle popolazioni native dei conquistatori di secoli fa, gli immigrati degli autoctoni. La lista potrebbe proseguire ed esistono ragioni per giustificare tale prospettiva. Il mondo è stato ed è una fabbrica di vittime; in molti casi questa condizione è vincolata all’appartenenza a determinate categorie. Per la prima volta, viviamo nello schema di una vera e propria cultura del vittimismo, che alimenta potentemente l’odio di sé dell’umanità occidentale contemporanea. Il vittimismo si diffonde e dilaga mano a mano che la sinistra culturale, quella che Jean Claude Michéa chiama “sinistra dei costumi” avanza rivendicazioni sempre nuove, tutte legate all’agenda dell’identitarismo vittimista degli “umiliati e offesi”.
Il libro di Giglioli, da sinistra, ne denuncia limiti, contraddizioni e miti incapacitanti. È ovvio che nessuno intende pronunciare un giudizio contrario alle vittime autentiche, ma è utile riconoscere l’esistenza e i guasti drammatici della cultura del vittimismo, ristabilendo altresì una delimitazione tra torti veri e immaginari. Per i nazisti, essere ebreo era una colpa anteriore a qualunque azione, buona o cattiva, compiuta dagli israeliti. Per i bolscevichi, era una colpa essere nobili, proprietari, borghesi, ecclesiastici, credenti. Ci stiamo tornando: siamo testimoni quotidiani di situazioni nelle quali prima di valutare un fatto, domandiamo chi lo ha commesso e chi lo ha subito. In base alla scala vittimistica corrente, emettiamo il verdetto, riscriviamo la legge, riformuliamo il senso comune. Il bene e il male dipendono dalle circostanze, da qual è l’identità collettiva del carnefice (uomo, bianco, europeo, marito, padre, eterosessuale, preferibilmente) e della vittima. Non si perde solo il senso del diritto, ma si vive di priori, ossia di nuovi pregiudizi. Alcuni rei lo sono più di altri, a prescindere da fatti e circostanze, alcune vittime si convertono in martiri.
Essere vittima conferisce un’identità. In un tempo che ha gettato tra i rifiuti le vecchie identità comuni, inventarne di nuove, artificiose, rivendicative, aggressive, è il gesto di una rivoluzione che dissolve e nega, il segno dei tempi. Le sinistre culturali hanno sostituito quelle politiche. Alla tradizionale domanda “che fare? “, con l’obiettivo della trasformazione del mondo attraverso il ribaltamento dei “rapporti di produzione” hanno sostituito un interrogativo falsamente introspettivo, solipsistico: chi sono? “Che fare” porta all’esterno e all’azione. “Chi sono” conduce all’interno di ogni soggettività, all’indagine sul terreno delle singolarità che ciascuno può attribuirsi, a ciò che è già dato. Da “che fare “può scaturire una rivoluzione; da “chi sono”, deriva un manuale di lamenti, il massimario del vittimismo.
Il problema lambisce il perimetro del diritto: tornano i “delitti d’autore”, nei quali non si giudicano l’azione e le sue circostanze, ma la natura e le caratteristiche dell’imputato e della vittima. È un delitto di genere? Lo ha commesso un uomo o una donna? Un nero o un bianco? Un etero o un gay? Un cittadino autoctono, un discendente di conquistatori o un immigrato? Quel che è fatto, persino se lo si è fatto, passa in secondo piano. Il caso di George Floyd in America è l’esempio più lampante, ma non hanno meno importanza la tendenza a considerare diversamente gli atti di violenza se commessi da uomini verso donne e la continua estensione di legislazioni che colpiscono idee, pensieri, sentimenti.
Da una parte il mondo delle vittime a prescindere – in quanto membri di gruppi con l’etichetta di perseguitati – dall’altro, per lo stesso motivo, uguale e contrario, i carnefici “strutturali”, gli oppressori Se non si trattasse di una drammatica distorsione della realtà con effetti devastanti, sarebbe comica la deriva illiberale e collettiva della società aperta, liberale e individualista. L’elemento centrale, inaccettabile, distrugge l’idea di società: la cultura del vittimismo presuppone che la condizione di vittima o colpevole non dipenda da fatti concreti, reali, da qualcosa che si è subito o commesso, non è cioè circostanziale, ma essenziale.
Siamo vittime o carnefici in funzione dell’identità a cui apparteniamo, della categoria o etichetta che ci viene attribuita o che rivendichiamo. L’unica differenza con il passato, nella forma caricaturale descritta dall’armata del Progresso, è il capovolgimento. Il pregiudizio è uguale, cambia soltanto la definizione di bene e male. Se siamo nati in una famiglia che ci ha fornito un’educazione, un’ istruzione e principi “tradizionali”; se, orrore, siamo maschi bianchi eterosessuali europei, possediamo tutte le condizioni per essere colpevoli, carnefici strutturali, malvagi per essenza.
I privilegi ereditati dal postmoderno malommo sono individuati a priori, poiché il concetto di colpa (personale, individuale) si è secolarizzato e si è trasformato in debito. La pena a carico del privilegiato/carnefice strutturale è un debito inestinguibile, imprescrittibile, eterno. In bizzarra controtendenza con il soggettivismo liberale (e con la civiltà giuridica dal tempo di Roma) regna una particolare concezione in base alla quale la condizione di vittima e di colpevole è ereditaria, si trasmette di generazione in generazione al punto che si ha pieno titolo di sentirsi vittima di ciò che soffrì 500 anni fa un antenato della comunità cui si appartiene. Queste rivendicazioni tentano – con crescente successo per paralisi degli oppositori – di diventare effettive attraverso specifiche politiche pubbliche e discutibili fattispecie giuridiche. L’idea dell’esistenza di carnefici “essenziali” con obbligazioni per definizione inestinguibili dovrebbe escludere le dispute dal terreno delle decisioni giudiziarie. Lo stato di diritto dovrebbe impedire l’estensione del concetto, poiché il suo compito è decidere su fatti specifici delimitati nello spazio e nel tempo. Non esistono, né possono esistere, in regimi retti dal senso comune e dalla legge scritta, colpevoli strutturali, aprioristici.
La figura che più gli somiglia è il capro espiatorio, l’essere capace di accogliere sopra di sé i mali e le colpe della comunità, liberata da tale processo di trasferimento. Dopo il sacrificio, la comunità riprende il suo cammino senza macchia. Impossibile, non basta nel regime del debito eterno e della vittima collettiva ed ereditaria. Notava René Girard ne La violenza e il sacro che anche i nichilisti più conseguenti decostruiscono tutto salvo il principio dell’innocenza della vittima. Nelle accuse del vittimismo contemporaneo, amplificate dalle reti sociali, dalle manifestazioni e dalla comunicazione di massa, il reo segnalato, il carnefice, l’eterno Cattivik perde ogni presunzione di innocenza, deve farsi carico delle colpe storiche collettive degli antenati. La pena, automatica e priva di attenuanti o esimenti, poiché la colpevolezza sta nell’esistenza in vita dell’erede, è la condanna della memoria, la scomunica morale e culturale retroattiva da trasmettere all’intera discendenza. Il debito è più inestinguibile di quello finanziario. Come per gli ergastolani, è stampato a lettere di fuoco “fine pena mai”.
La questione della verità si opacizza: nella cultura del vittimismo, chi ottiene lo statuto di vittima, diventa immune da ogni critica. Alla vittima si perdona tutto ed è vietata ogni discussione con argomenti razionali. La condizione postmoderna di vittima intrattiene una relazione speciale con la verità, indiscutibile, scolpita nel marmo, paradossale in tempi convinti che tutto è relativo, nulla è vero, ogni sguardo non è che una prospettiva, che le grandi narrazioni si sono esaurite (Jean François Lyotard, La condizione post moderna). La realtà è diversa: semplicemente, i grandi “racconti” di verità non sono stati sostituiti. Tuttavia, abbiamo bisogno di credere in qualcosa di solido anche in tempi liquidi: la fede nel vittimismo e in chi riesca ad affermare la condizione di vittima.
In conclusione, se il criterio per distinguere il giusto dall’ingiusto è ambiguo, chi sta con la vittima non sbaglia mai. Questo spiega l’abbraccio collettivo che riceve chi è o è creduto tale. Nessuna obiezione alla solidarietà umana, ma l’essenziale, divenuto invisibile, è che l’appoggio a chi appare vittima serve per rassicurarsi, convincersi di essere dalla parte giusta in un mondo in cui tutto è liquido. È una posizione adottata per comodità, per se stessi, più per debolezza che per empatia. Infatti, in genere nessuno muove un dito per la vere vittime e le grandi sofferenze: è sufficiente mettersi a posto a buon mercato con la coscienza infelice. La verità è un dettaglio insignificante, quando interessa afferrarsi a qualche certezza. Quel che importa è che la vittima appaia tale, designata, proclamata: tanto basta alla maggioranza. Nessuna verità; dibattito interrotto prima di cominciare, comodo, rassicurante.
La vittima diventa un Dio dei tempi secolarizzati. Quando parliamo di verità, parliamo anche di potere. Giglioli mette il dito nella piaga: “La vittima è irresponsabile, non risponde di nulla, non ha bisogno di giustificarsi: è il sogno di ogni tipo di potere”. La retorica del vittimismo non sta innalzando le vere vittime, ma creando una grottesca concorrenza tra veri e presunti dannati della terra, in cui le oligarchie sono più a loro agio che mai e assorbono, cooptano le figure emergenti dal discorso ribelle, nella misura in cui le rivendicazioni non mettono in pericolo i loro privilegi di classe. In effetti, la cultura del piagnisteo sta facendo emergere una forma nuova di potere irresistibile, un potere totale che annulla ogni dibattito in quanto predica dal pulpito una verità dichiarata inappellabile. È un potere tanto devastante che persino i veri potenti ne adottano il linguaggio per legittimarsi, un sintomo ulteriore di un cinismo formidabile che- dice il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, non si esercita contro, ma dall’interno del potere.
Quando Sigmund Freud parlava di psicologia delle masse, affermava che l’attrazione verso i leader carismatici derivava dal fascino del potere come potenza; oggi capita esattamente il contrario: si celebra l’impotenza. Non avrà il comando chi avrà realizzato azioni encomiabili, ma chi avrà sofferto, o fatto credere di aver patito gravi ingiustizie. Azzardiamo un’ipotesi: viviamo tempi controrivoluzionari, nel senso che l’idea di rivoluzione è stata sempre associata a valori come l’attivismo, la potenza, la responsabilità. Al contrario, la post modernità, interminabile tempo supplementare manierista, innalza (dis)valori opposti: un’identità spuria, ancorata alla sofferenza – propria o ancestrale – passività e impotenza, assenza di responsabilità, vittimismo. Se la modernità, per Immanuel Kant, fu la scommessa dell’umanità per abbandonare l’infanzia, la post modernità sembra un tempo in cui si torna a supplicare tutela e in cui si vuole incatenare l’umanità nel carcere di un’identità cristallizzata dalla condizione di vittime o di carnefici, come se il destino fosse fissato per sempre. Il contrario della pretesa progressista.
Una singolare eterogenesi dei fini: dalla liberazione proclamata, dal soggettivismo assoluto a un nuovo comunitarismo invalicabile delle vittime, degli umiliati e degli offesi. Il clima è velenoso, da fine impero; che fare è sostituito da chi sono in un mondo diviso programmaticamente tra innocenti e colpevoli ab initio, in cui la verità riguarda solo chi riesce a convincere di aver subito un’ingiustizia o di esserne il legittimo erede. Il cambiamento culturale si percepisce e ha ormai diretta incidenza nelle architetture istituzionali e nelle politiche pubbliche, tra azioni “affermative”, quote e discriminazioni “positive” a vantaggio delle ex vittime, condizioni assai comode in un’epoca sospesa tra due estremi: lo scetticismo generalizzato unito all’acritico desiderio di credenza, delega, affidamento nichilistico a chi impone che cosa si deve fare, pensare, essere. Tempi di conflitto, l’era paradossale in cui il trionfo dell’ideologia vittimista è una buona notizia per pochi, non per le vere vittime.