Jules Verne: un nome che generazioni di lettori hanno imparato a conoscere attraverso i suoi capolavori immortali: Viaggio al centro della terra, Il giro del mondo in ottanta giorni, Michele Strogoff, Ventimila leghe sotto i mari e tanti altri. Verne pubblicò nel corso della sua vita un centinaio di romanzi. Era nato l’8 febbraio 1828, e si spense il 24 marzo 1905. Aveva attraversato tutto il XIX secolo, aveva accompagnato la trasformazione del mondo attraverso le invenzioni di macchine che lui stesso, con la sua fantasia, aveva anticipato. Aveva sognato razzi che portano l’uomo dalla Terra alla Luna, aveva immaginato sommergibili come il Nautilus, aveva precorso i tempi.

Per molti, Verne fu dunque, con i suoi racconti fantastici, un anticipatore del futuro, e quindi un cantore delle magnifiche sorti e progressive. In realtà Jules fu ben altro. Fu anzitutto un cercatore: i suoi libri sono avventure alla scoperta dell’ignoto, dello sconosciuto. Verne chiude l’epoca delle grandi scoperte, delle avventure in terre inesplorate che spesso possono nascondere e rivelare sorprese.

In realtà, era animato dal desiderio di scoprire ogni dettaglio, ogni luogo, ogni essere presente nel Creato. Proprio così, non semplicemente il mondo o la natura, ma il Creato, perché Verne era profondamente cattolico. Era nato in Bretagna, una terra dalle radici cristiane molto profonde. Una zona geografica che coincideva con una terra che era rimasta a lungo indipendente da Parigi, e che possedeva una propria specificità etnica, dal punto di vista della lingua (di origine celtica), degli usi, dei costumi, delle tradizioni. Dal punto di vista spirituale, poi, l’ovest coincideva con le terre che avevano conosciuto, un secolo prima, la predicazione di san Luigi Maria Grignon de Montfort, grande devoto di Maria Santissima che le aveva percorse diffondendo la devozione a Nostra Signora, l’amore alla Croce e al Rosario.

Fin da ragazzo Jules mostrò le caratteristiche tipiche dei bretoni: senso dell’ordine, parsimonia, ostinazione e una profonda religiosità. Figlio di un cattolico monarchico di Nantes, era un libertario, ma allo stesso tempo un sostenitore dell’ordine e della legge. Uno dei suoi primi biografi lo descrisse come “beffardo, dalla risposta pronta, scettico su qualsiasi cosa, con una sola eccezione: conservò per tutta la vita, retaggio delle sue origini bretoni, la mentalità cattolica”. Non era cambiato nemmeno quando aveva trascorso a Parigi gli anni dell’università. Ne uscì con una laurea in Legge e, dentro il cuore, un intatto sogno di raccontare grandi avventure, di viaggiare con la fantasia.

Nel 1862 finalmente arrivò il primo grande successo editoriale, e il ragazzo bretone diventò Jules Verne. Il libro era Cinque settimane in pallone, e l’ottima accoglienza presso pubblico e critica gli garantì un contratto con l’editore. Era fatta. Dopo un anno, uscì Il capitano Hatteras, e il successo venne rinnovato. Ormai il pubblico si attendeva nuove opere, e il prolifico autore non lo deluse. Nel 1864 stava lavorando a quello che sarebbe diventato uno dei suoi più acclamati capolavori, Viaggio al centro della Terra, che avrebbe segnato la sua definitiva consacrazione come Maestro della fantasia e dell’avventura, quando chiese al suo editore di pubblicare un romanzo storico che aveva da tempo nel cassetto: Il conte di Chanteleine. Il romanzo riguardava una pagina tragica della storia di Francia e dell’Europa, una pagina tragica e dolorosa avvenuta settant’anni prima.

Il libro di Verne viene ora meritoriamente riproposto ai lettori italiani dalle Edizioni Gondolin (158 pagine, 15 euro). Un romanzo che fa rivivere la Rivolta della Vandea, l’epopea di una società contadina, tradizionale, cattolica, all’aggressione perpetrata dallo stato autoritario uscito dalla Rivoluzione francese del 1789, uno Stato formalmente espressione della rivoluzionaria volontà popolare, ma in realtà profondamente estraneo al popolo “vero”, quello che viveva nelle grandi città come quello delle campagne.

Una Rivoluzione, quella francese, che ha goduto altresì, di ottima (e immeritata) fama, di vasta pubblicistica. La Révolution ha infatti sempre goduto di una stampa favorevole, da est a ovest, ed è stata presentata come il riscatto degli oppressi contro una società ancora pressoché feudale, come l’avanzare della modernità e del progresso. In realtà, la Rivoluzione, impregnata delle filosofie illuministe del XVIII secolo ma anche di antiche suggestioni eretiche come la gnosi, si era proposta di combattere innanzitutto la Chiesa e scatenò un movimento di cristianofobia che, di fatto, perdura ancora oggi, mutatis mutandis, all’inizio del XXI secolo.

La prima fase del processo rivoluzionario di guerra alla Chiesa non si limitò a un’offensiva sul piano delle idee, ma fu cruenta, violenta, omicida, perseguitando i cristiani – sacerdoti e laici – come non era accaduto da secoli in Europa. Chi non avesse apostatato davanti alle baionette dei soldati o ai proclami dei funzionari dello Stato veniva deportato o ucciso.

Verne ebbe un grande coraggio a pubblicare Il conte di Chanteleine: decise di raccontare la storia della Rivolta dell’Ovest (alla Vandea infatti si era affiancata anche la sua Bretagna) schierandosi apertamente dalla parte dei vinti. In qualche modo l’esempio lo aveva ricevuto da uno dei suoi principali maestri letterali, Walter Scott, che nei suoi romanzi aveva preso le parti dei giacobiti scozzesi, schiacciati e perseguitati dalla Corona britannica. Verne si fece cantore in questo suo romanzo dell’epopea vandeana, rivelandoci quello che la Storia ufficiale ha poi ammesso (quando lo ha fatto) a denti stretti e in tempi molto recenti.

Uno dei giudizi più lucidi e appropriati su quegli avvenimenti fu espresso nel 1993 dal grande intellettuale russo Aleksandr Solženicyn, protagonista dell’eroica stagione del “Dissenso”, ossia il movimento culturale, civile e religioso che nell’ex Unione Sovietica si era opposto – pagando col campo di concentramento, con la tortura e la morte – alla dittatura comunista. Commemorando le migliaia di vittime della Rivoluzione francese, che sarebbe stata poi il modello per altre rivoluzioni ancor più sanguinarie che avrebbero in seguito funestato il mondo, compresa quella che aveva annientato la sua patria, Solženicyn disse che la Rivoluzione francese si era realizzata nel nome di uno slogan intrinsecamente contraddittorio, e irrealizzabile: “Libertà, uguaglianza, fraternità”.

Nella vita sociale, infatti, libertà e uguaglianza sono antagoniste e tendono a escludersi reciprocamente: la libertà non prevede l’uguaglianza sociale, mentre l’uguaglianza limita la libertà, perché diversamente non vi si potrebbe giungere. Quanto alla fraternità, quella autentica non può essere costruita da disposizioni sociali, ma è di ordine spirituale, fondata sul riconoscersi figli di un unico Padre. Inoltre questo slogan ternario terminava con tono minaccioso con l’aggiunta “o la morte”, il che ne distruggeva ogni significato.

L’esperienza della Rivoluzione francese avrebbe dovuto bastare perché gli organizzatori razionalisti della “felicità del popolo” ne traessero lezioni, e invece i procedimenti crudeli della Rivoluzione francese divennero il modello per essere in seguito applicati di nuovo sul corpo di altri popoli e nazioni.

I vandeani cantati da Verne, che nel 1789 presero le armi contro la Rivoluzione, combatterono, soffrirono e morirono non per un vago ideale, ma per difendere qualcosa di molto concreto, a cominciare dalla libertà religiosa, ossia, detto in termini pratici, la possibilità stessa di accedere ai sacramenti, di avere, per sé e i propri figli, un’istruzione cristiana, di poter trasmettere e comunicare liberamente la fede stessa.

La Rivoluzione infatti aveva rivelato sempre più il suo volto violento e anticristiano: il 27 maggio 1792 fu promulgata una Legge che esiliava dalla Francia i sacerdoti che rifiutavano il giuramento di fedeltà allo Stato. L’opposizione alla tirannia rivoluzionaria ebbe i suoi più importanti centri principalmente nelle zone occidentali del paese, in Vandea e poi nel Maine e in Bretagna, dove i contadini andarono a combattere recitando la Corona, cantando le litanie, avendo come stendardo la bandiera del re con il Sacro Cuore di Gesù in mezzo. Fu il sacrificio di coloro che lottarono e caddero eroicamente per affermare, di fronte a un potere centrale che trasformava il regime di Francia in una macchina da guerra contro la fede religiosa, la propria fedeltà alla Chiesa e i diritti di Dio e della coscienza.

Il conte di Chanteleine testimoniò ai lettori questa epopea. Il libro, tuttavia, se da una parte non dovette subire censure, e l’autore non ebbe ad avere ostracismi dalla cultura ufficiale, venne tuttavia relegato a una “curiosità”: l’opera di un cattolico conservatore affetto da nostalgia per un passato ormai sepolto. Jules Verne dovette rassegnarsi: il suo Conte di Chanteleine non sarebbe stato il Waverley o il Rob Roy della Letteratura francese. La cultura ufficiale fece finta di non aver visto, e il pubblicò continuò ad acclamarlo per le sue opere fantastiche e a reclamare nuovi viaggi e nuove avventure. Jules lo accontentò ampiamente.

A partire da quell’edizione del 1864, progressivamente il libro sull’epopea vandeana scomparve dagli scaffali delle librerie, e nemmeno le più recenti ripubblicazioni dell’“opera integrale” di Verne lo comprendono. Eccolo qui, invece, meritoriamente riproposto. Un vero omaggio al genio di Jules Verne. Un vero omaggio ai martiri della Vandea.

2 commenti su “La Vandea raccontata da Jules Verne”

  1. Giacomo Muraro

    Che ci voglia il vostro coraggio a pubblicare il Conte di Chanteleine
    è il segno dei tempi grami che stiamo vivendo.
    Complimenti e VIVA CRISTO RE.

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