“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 34 – 35).
“Ricercate la carità.” (1Cor 14, 1).
di Carla D’Agostino Ungaretti
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Che cosa potrebbe pretendere di scrivere di nuovo e di originale sulla terza Virtù Teologale cristiana una povera cattolica “bambina” come me, quando un cristiano della levatura di S. Paolo ha detto che la Carità è la più grande delle tre Virtù proprie del seguace di Cristo e l’unica che non avrà mai fine, perché la Fede e la Speranza non saranno più necessarie quando vedremo Dio “faccia a faccia” (1 Cor 13, 13)? E quando un Papa della tempra teologica e dottrinaria di Benedetto XVI ha dedicato ad essa addirittura la prima enciclica del suo pontificato in cui insegna che la Carità è strettamente unita alla Verità, che è Cristo? Nulla potrebbe aggiungere, se non qualche umile balbettio nella speranza, come ha detto più volte, che la sua riflessione serva almeno a rendere un po’ più forte la fede vacillante di qualche suo fratello, ma cominciando proprio a rafforzare la sua, così debole e imperfetta, fortificando in lei le prime due Virtù Teologali e facendo sì che la terza predomini sempre nella sua vita e caratterizzi tutti i suoi atti e i suoi pensieri, sia verso Dio che verso i fratelli.
Le lingue greca e latina, a differenza dalle lingue moderne, hanno saputo esprimere bene la natura profonda di questa Virtù, che non è altro che l’Amore, senza confonderla con quel moto, quella pulsione o, diciamo pure, quel sentimento (certamente meraviglioso) della mente, del cuore e dell’animo umano capace, quando lo incontriamo, di coinvolgere tutto il nostro essere e che siamo portati a chiamare senz’altro “amore” ma che spesso di “Amore” non ha proprio nulla, perché si esaurisce nell’istinto egoistico e nel sesso. Gli antichi greci invece, molto più acuti dei moderni, avevano già intuito la differenza esistente tra l’“agàpe” (affetto, predilezione, benevolenza spirituale per gli altri), la “filìa” (sentimento di amicizia, relazione amichevole) e l’“èros”(passione, trasporto o desiderio fisico). Il termine “agàpe” fu introdotto nel linguaggio religioso dalla traduzione della Bibbia: in greco da parte dei Settanta, e poi fu trasfuso in quello del Cristianesimo primitivo occidentale con la distinzione tra la “caritas” e il più materialistico “amor”. Lo scristianizzato e ipersessualizzato mondo moderno è andato avanti coniando l’espressione “fare sesso” che, inconcepibile fino a mezzo secolo fa per la sua rozza e animalesca brutalità, almeno non è ipocrita perché non pretende di spacciare per amore un comportamento che invece ne è molto lontano.
Ma non sono stati solo S. Paolo e Benedetto XVI a scrivere parole incancellabili sulla Carità: il primo è stato lo stesso Gesù. Il Comandamento Nuovo che Egli dà ai suoi discepoli alla vigilia della Sua passione come Suo testamento è veramente “nuovo”, perché è sconvolgente e inaudito. Quando mai si era sentito qualcosa di simile nella grande filosofia greca che al tempo di Gesù permeava tutta la cultura dell’area mediterranea? Invece il precetto dell’amore reciproco era già presente nella legislazione mosaica (Lv 19, 18) ma Gesù, “che è venuto non per abolire la Legge o i Profeti … ma per dare compimento” (Mt 4, 17), lo conferma collocandolo al posto che gli compete nel contesto della Legge come Secondo Comandamento, che Egli definisce simile al primo: “amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente” (Mt 22, 37 – 40), e attribuendogli un nuovo significato e un nuovo contenuto aggiungendo le parole: “Come io vi ho amato”. L’antica Legge estendeva in qualche modo la benevolenza verso il prossimo anche al nemico, quando imponeva di ricondurgli (invece di impadronirsene) l’asino o il bue di proprietà di lui che si fossero dispersi (Es 23, 4 – 5), ma l’amore che Gesù insegna è molto più esigente e impone di rendere bene per male perché l’unità di misura dell’Amore cristiano, alla quale dobbiamo fare costante riferimento, non è l’uomo ma Cristo, che ha dato la propria vita sulla Croce per la redenzione di tutti. Ecco la novità dell’insegnamento di Gesù, perciò Egli può ben dire che il Comandamento Nuovo, espressione della Sua ultima volontà, è la clausola principale del Suo Testamento.
Per di più, Gesù ha arricchito il precetto dell’Amore con un ulteriore significato quando ha identificato se stesso con i fratelli come oggetto della Carità: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40). Egli, infatti, incarnandosi ha fatto del genere umano la Sua famiglia e ha stabilito la Carità come tratto distintivo dei Suoi discepoli. Il cap. 4 della I Lettera di Giovanni (7 – 21) fa eco alle parole di Gesù come un vero manifesto programmatico dell’Amore cristiano: poiché Dio è Amore e ci ha amati per primo, anche noi siamo tenuti ad amare sia Lui che i nostri fratelli così da non temere il giorno del giudizio perché l’Amore scaccia il timore e chi teme non è perfetto nell’Amore. Le parole che Gesù rivolge agli apostoli durante l’Ultima Cena sull’Amore cristiano sono talmente lapidarie e icastiche che non necessitano di interpretazione o commento: bisogna metterle in pratica e basta.
San Paolo, nel suo splendido inno alla Carità (1 Cor 13) mette bene in risalto che questa Virtù non ha nulla a che fare con l’attivismo, l’efficienza, il darsi da fare, perché se in fondo al nostro cuore non sentiamo l’Amore, potremmo anche ”distribuire tutte le nostre sostanze e dare il nostro corpo per essere bruciato” ma questi sacrifici non sarebbero Amore e non gioverebbero a nulla. Benedetto XVI – usando, naturalmente, un linguaggio più moderno – insegna che quell’inno deve essere la Magna Carta dell’intero servizio ecclesiale: “L’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo (quello che rende riconoscibile il cristiano, mi permetto di ricordare io) un amore che si nutre dell’incontro con Cristo”[1]. Ecco quindi sottolineata la differenza tra l’Amore cristiano e la filantropia e l’inutilità, sempre in senso cristiano, di qualunque azione di volontariato laico, di assistenza sociale, di attività sindacale (pure apprezzabilissime e necessarie in senso puramente umano) perché la loro intenzione si esaurisce appena ottenuto lo scopo che si prefiggono, mentre la Carità “resta”.
Tuttavia,riflettendoci sopra, ci rendiamo conto di quanto le parole di Gesù siano innovatrici e quale impegno richiedano al cristiano che voglia seguire il suo Maestro. Gesù è la purezza, la bontà, l’amabilità, la sobrietà, l’umiltà fatte persona, ma Egli non proclama nessuna di queste virtù il tratto distintivo del cristiano: proclama l’Amore. Chi di noi, persone comuni e peccatori, può dire di osservare alla lettera il Comandamento Nuovo? Chi riesce con le sue sole forze umane ad amare davvero chi gli ha fatto, non solo il male, ma un semplice dispetto? Chi riesce veramente a ricambiare col bene il male o il semplice torto ricevuto? Al massimo si potrà concepire antipatia, ci si potrà trincerare dietro un comportamento indifferente, si potrà far tacere l’umano istinto vendicativo riconoscendo razionalmente che la vendetta innesca sempre una spirale di violenza che ha effetti destabilizzanti a livello sociale – e, per questo motivo, tutti gli ordinamenti giuridici moderni vietano il farsi giustizia da sé – ma con questo tipo di comportamento siamo comunque ben lontani dal Comandamento Nuovo.
Dopo venti secoli quel Comandamento continua ad essere nuovo perché ben pochi sono stati gli esseri umani, anche cristiani, capaci di metterlo in pratica, forse solo i grandi Santi[2]. Infatti la Carità è “un amore che si nutre dell’incontro con Cristo” e questo incontro ravvicinato può avvenire solo attraverso un rapporto speciale con Dio come la frequenza ai Sacramenti. Come si può riuscire a rendere il bene per male se non attraverso quella che chiamerei la “confidenza spirituale” con Dio, cioè l’Eucaristia, quell’incontro sacramentale che fa sì che l’uomo dimori in Cristo e Cristo in lui? (Gv 6, 56). Tutto il resto – come credere che l’uomo possa operare il Bene facendo a meno dell’aiuto di Dio perché la sua bontà è innata – sono solo chiacchiere retoriche fini a se stesse, derivate dalla filosofia illuministica (in teoria ottimista, ma in realtà falsa e crudele) di J. J. Rousseau, che predicava bene quando esaltava “il buon selvaggio” che solo la civiltà era riuscita a corrompere, ma che nella vita pratica non fu neppure capace di amare i propri figli, dato che li consegnava all’orfanotrofio, man mano che nascevano, perché “non si sentiva padre”.
Mentre vado avanti nella mia riflessione mi vengono in mente due figure eccezionali del XX secolo: S. Massimiliano Kolbe e il Servo di Dio Salvo D’Acquisto. Il secolo scorso, esaltato all’inizio con la celebrazione del cosiddetto “progresso”, sia tecnico che scientifico, si è rivelato poi uno dei più crudeli della storia, tanto da dare credito all’antico proverbio di origine latina, ma fatto proprio dal filosofo inglese Thomas Hobbes: “Homo homini lupus”. Infatti, durante quella tragedia planetaria che fu la II guerra mondiale, Padre Massimiliano, frate francescano internato ad Auschwitz per aver partecipato alla resistenza polacca, in occasione di una decimazione casuale si offrì di sostituire un altro prigioniero, padre di famiglia destinato ad essere eliminato, e fu ucciso al suo posto. Fu proclamato Santo nel 1982 da S. Giovanni Paolo II. Simile al suo fu il gesto del giovane Salvo, vicebrigadiere dei carabinieri di appena 23 anni, nato in una famiglia profondamente cristiana, il quale si sostituì agli innocenti civili accusati di aver causato lo scoppio di una bomba e condannati alla fucilazione per rappresaglia da parte di un reparto di SS. Per lui è in corso la causa di canonizzazione. Come si può commentare il loro sacrificio di “martiri dell’Amore” , secondo le parole di Paolo VI, se non riconoscendo che essi hanno messo in pratica alla lettera le parole di Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15, 13)?
San Massimiliano Kolbe e Salvo D’Acquisto non si sono limitati ad amare solo coloro che conoscevano ed amavano – perché in questo non avrebbero avuto alcun merito, dato anche i nazisti amavano gli amici e i familiari (Mt 5, 46)[3] – ma furono capaci di dare la vita per alcuni infelici che essi neppure conoscevano. Queste considerazioni mi fanno tremare le vene e i polsi perché mi interpellano direttamente: fino a che punto io, Carla, sarei capace di “amare” come vuole Gesù, ben sapendo che sarà su questa mia “capacità di amare” che sarò giudicata?
Mi conforta nel mio dubbio S. Teresa del Bambino Gesù con la sua “Piccola Via” alla santità. La “petite Thérèse” non aveva certo la tempra organizzativa, speculativa e teologica della sua grande omonima Teresa d’Avila; non fondò come lei monasteri e non riformò il Carmelo, ma come lei meritò di diventare Dottore della Chiesa per aver intuito che non occorrono eccezionali atti di eroismo per amare. Si può amare anche nella semplicità nascosta della vita quotidiana, servendo Dio e i fratelli nel posto, anche umile, in cui Lui ci ha messo, abbandonandoci a Lui e offrendo noi stessi per la salvezza del mondo. E’ lo stesso esempio che ci ha dato, nell’umiltà e nella preghiera, un altro grande Santo che io amo molto e che invoco spesso, pur non avendo avuto la fortuna di conoscerlo personalmente, Padre Pio da Pietrelcina, il quale di se stesso diceva: “Sono solo un frate che prega”. Eppure i suoi numerosi figli spirituali hanno ben testimoniato tutto l’Amore che è stato capace di diffondere intorno a sé.
Concludo la mia riflessione con un ricordo della mia infanzia. Al tempo della mia antica IV elementare, la suora che preparava alla I Comunione me e i miei compagni, ci diceva: “Bambini, ricordate che se volete far piacere a Gesù non dovete mai bisticciare tra di voi e neppure dirvi l’un l’altro stupido o “non capisci niente” (Mt 5, 22). L’uso dell’altro celebre epiteto, oggi di gran moda anche tra bambini, che imperversa perfino nelle famiglie e nella scuola (TV docet), tollerato dai rassegnati e impotenti insegnanti, all’epoca non era neppure immaginabile, né in famiglia, né a scuola. Allora mi viene da pensare: “Forse dovremmo considerare il Cristianesimo, oltre che l’unica Via di salvezza eterna, anche il primo manuale di galateo”? Infatti chi ama davvero il suo prossimo non lo insulta, non lo strapazza, è sempre amabile e cortese con lui, non si prende gioco di lui e, se non è d’accordo con quello che egli dice, prima di replicare lo ascolta con pazienza, garbo e rispetto, esattamente come prescrivono le “Opere di misericordia spirituale” dell’antico Catechismo che oggi sembrano dimenticate[4].
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[1] Enciclica “Deus caritas est”, n. 34.
[2] Certamente non sono capaci di Amore, ma solo di odio, gli “umoristi” della rivista Charlie Hebdo, tristemente famosa, che hanno vigliaccamente commentato la tragedia della valanga di neve in Abruzzo rappresentando la Morte che arriva sciando con due falci al posto delle racchette e dicendo: “La neige est arrivée. Y en aura pas pour tout le monde” (Corriere della Sera, 21.1.2017, pag. 4). Devo riconoscere che prego il Signore perché mi aiuti a non odiarli.
[3] Mi torna in mente al riguardo una scena di un film di qualche anno fa, “Il bambino dal pigiama a righe” in cui viene descritto un ufficiale nazista, ottimo marito e ottimo padre di famiglia il quale, promosso a dirigere un campo di concentramento, programma a tavolino l’eliminazione di un certo numero al giorno di internati al fine di fare spazio al nuovo contingente di infelici il cui arrivo è previsto a breve termine.
[4] Mi sono sempre domandata se il cristiano che veramente ama il suo prossimo ha diritto di ridere alla satira. Infatti certa satira non si limita a “castigare ridendo mores”, ma è capace di distruggere la sua vittima, provocandone la vendetta.
8 commenti su “La terza Virtù teologale: la Carità. L’ultima, ma la più importante – di Carla D’Agostino Ungaretti”
Bellissimo scritto, carissima Signora Carla. Condivido tutto, anche le domande che lei si pone sulla nostra reale capacità di amare pure coloro verso cui è così tanto difficile provare amore (che so, gli assassini sanguinari, gli stupratori dei bambini, i tagliagole e i blasfemi di Charlie Hebdo e via elencando); ma ho capito che bisogna pregare per loro perché si convertano e che quell’Atto di Carità che recitiamo, anche se non più di moda, proprio questo ci fa dire: “Per amor Tuo (o Gesù) amo il prossimo mio come me stesso”: per amor Tuo e non per un amore qualsiasi. Così all’ amor Suo deve conformarsi ogni nostra azione, anche la più banale, come lavare una forchetta caduta a terra mentre si apparecchia anziché non farlo visto che nessuno ci vede. E’ questo amore che deve guidarci, è questo il metro di paragone di ogni atto della nostra vita. E se per questo amore agiamo, perdoneremo anche le offese ricevute. E come mi commuovono i ricordi della sua infanzia, le raccomandazioni delle suore. Ho alcuni anni meno di lei, ma il clima e l’educazione che ho ricevuto sono gli stessi. Che il Signore ci conceda la grazia che tutto ciò che abbiamo sperimentato possa ritornare.
Bellissimo emozionante articolo: mi sono commosso fino alle lacrime! Grazie! Che Dio Le renda merito di tanta sapienza.
Ricordo inoltre a proposito dell’amore ciò che dice Gesù a Maria Valtorta: l’uomo di oggi non è capace di comprendere questo sentimento poichè chiama amore il DELIRIO PARANOICO che lo porta a preferire il sapore di putridi pasti al sano corroborante cibo di eletti sentimenti.
Bisognerebbe meditare molto sulle rivelazioni a Maria Valtorta. Ciò è possibile entrando nel sito di don Leonardo Maria Pompei.
Si! anch’io ammiro e ascolto le conversazioni e le omelie di Don Leonardo, ma devo dire, come lettore della Valtorta da diversi anni, che mi è di scandalo constatare quanti sacerdoti ignorano o addirittura avversano questo dono meraviglioso. Ma così è: d’altra parte proprio ieri le letture della Santa Messa parlavano della parola di Gesù che è sempre uguale, ieri, oggi e domani, e del martirio di Giovanni Battista per mano di Erode e di Erodiade, pubblici concubini. E lo stesso giorno si diffonde la notizia della sospensione a divinis di un sacerdote che rifiuta di dare la comunione ai divorziati risposati. Mah! Il vescovo ritiene che anche in queste “convivenze”, sia da salvaguardare quello che lui pensa essere l'”amore”.
Molto bello questo articolo e molto bello aver largamente citato il papa Benedetto XVI che purtroppo, anche fra i cosiddetti “tradizionalisti”, non viene più nominato se non per offenderlo…!
Grazie.
Infatti. E’ nostro impegno di Fede l’avere come termine fisso di confronto Gesù Buon Pastore, mite ed umile di cuore. Ma questa virtù non la si acquisisce una volta per tutte, solo attraverso il Battesimo. Occorre esercitarla con pazienza nella vita quotidiana, soprattutto nelle avversità. A proposito di S. Massimiliano Kolbe, tra le tante biografie, ne è stata scritta una intitolata “Un cuore allenato”. L’autore ha posto in luce come l’estremo sacrificio della esistenza di questo Santo, offerta per la salvezza di un padre di famiglia, sia stato il frutto di tutta una vita donata per amore di Dio e del prossimo. E Padre Pio, in una delle sue riflessioni ci ha esortato con queste parole : “Incominciamo da oggi, o fratelli, a fare il bene, ché nulla fin qui abbiamo fatto”. Grazie, cara Prof.ssa Carla.
Parole tanto vere quanto SACROSANTE.GRAZIE.
È BELLO SAPERE CHE CI SONO PERSONE CHE CON LA LORO CARITÀ CRISTIANA APRONO IL CUORE DI CHI LEGGE ALLA SPERANZA DIVINA..